Per la terza incursione discografica di Mina nel repertorio di Lucio Battisti, con due inediti per la sua interpretazione, graffiante il primo (Il tempo di morire, già affrontata in duetto col poggiobustese in tv negli anni ’70), ammaliante il secondo (una splendida versione di Vento nel vento, arrangiata da Rocco Tanica), val la pena tornare a parlare di questo “bell’animalone” (Jannacci) della canzone italiana, che percorsa da un talento micidiale, ha saputo metterlo a frutto con ironia, intelligenza, progressiva e sempre più commovente bravura.
Spiego: l’ironia.
Non c’è bisogno di rifarsi a brani dal testo equivoco per cogliere quelle venature in punta di voce, giocate su qualche falsetto o birignao; c’è un brano degli anni ’90 che continuo a ritenere emblematico. Era contenuto in Sorelle Lumiére, si intitolava Quando finisce una canzone. Un drammone imperniato sulla metafora tra la fine di una canzone e quella di una storia d’amore. Credo ragionevolmente che qualunque altra interprete l’avrebbe resa in tutto il suo dolore. Lei no: gigioneggiando, un po’ gassmanianamente, un po’ osirisianamente, pianta quando meno te l’aspetti un coltellaccio acuto in gola all’incauto ascoltatore; della serie “sì, è davvero una storia drammatica, ma giochiamoci un po’ su, dai…” – e “questo andare e venire” (non solo di pucciniana memoria), “questo guardarci così” dall’oscurità del nascondimento operoso o dal fondo più fondo del fondo degli occhialoni da sole (per chi la stana nella sua più privata quotidianità, come se vederla al mercato inficiasse o modificasse la sua unicità artistica, che è poi l’unica dimensione a riguardarci…) c’è poco da fare, ha una seduttività pazzesca: è come il Totò di cui, proprio lei, asseriva – a proposito della sua comicità – che ridevi ridevi e alla fine ti ritrovavi con le lacrime agli occhi, tanto era bravo.
L’intelligenza: non si è mai fatta asserragliare dallo star system. Non solo per via dell’annosa – e anche stancante questione – “torna o non torna”, “si fa vedere oppure no”, “è grassa o è magra” (il grasso e magro è quello di un ottimo sugo caro ai miei ricordi d’infanza), e altre camarille fini a sé stesse.
Non si è mai fatta fregare dalle mode, dai generi, dalla sua conclamata tradizione, pesante – se si vuole – come un macigno: e così, animata da un corredo di feconde letture (da Landolfi a Gadda, che in fondo le somigliano anche un po’…), eccola passare da un “jazz da camera” (il recupero di Ferrio dopo decenni docet) alle austere e carnalissime arie sacre o del melodramma (in cui infila proditoriamente, però, anche una curiosa Cielito lindo come ghost track…), dalle sonorità contemporaneissime di musicisti come Boosta o Manuel Agnelli (con cui duetta in Adesso è facile) al recupero straniato o effervescente del grande Modugno (un altro che, proprio come Battisti, prima di Battisti, ha deciso le nuove sorti della nostra canzone d’autore), e tutto sempre con quella “fastidiosa” (si fa per dire… chi disprezza, ovviamente compra…) nonchalance che la rende permeabile a tutto ma in maniera sempre originale. Credo sia l’unica in grado di trasformare una cover in un inedito!
La progressiva e sempre più commovente bravura: sì. Vive nel nascondimento operoso, dove invecchia. Già: invecchia. Fortunatamente. Ossia, nel tempo delle cariatidi tirate fino allo stremo e in abbronzature che evocano gli zombie dei più terrorizzanti horror, lei invecchia come una donna normale. Anche nella voce. Che qua e là si graffia, si sporca, è più nera di quando Louis Armstrong la definì “la bianca più nera del mondo”. È sempre Mina: la riconosceresti a qualunque latitudine vocale, ma è ogni volta un’altra Mina, un’altra storia, un’altra condizione umana. E in questo è ferocemente autentica. Cambia con il passare del tempo, rimanendo sé stessa. È anche una lezione: a non diventare petrarchisti, a lasciarsi abitare anche dal limite. A non aver paura di invecchiare, che è poi anche crescere (non solo d’età, ma anche di intensità).
Sospetto che quando Carmine D. apre il microfono di Mina, un’entità più grande di lei se ne impossessi e lei glielo conceda, mettendosi – ma con tutta sé stessa, attenzione! – al suo completo servizio. Con tutti gli eventuali gap (minimi, in una col suo strumento, ma pur sempre possibili). E nei dischi tutto questo c’è. Si chiama onestà intellettuale. Ed è la migliore replica a chi sospetta non so più quali trucchi quando, invece, la sua bravura e la sua generosità la spingono ancora ad altezze impervie e miracolose.
In questo Paradiso, strenna natalizia 2018 in occasione del ventennale della scomparsa dell’amico Lucio (in cui, per completezza, notiamo una svista. In un repertorio così vasto è possibile accada, però è un peccato: manca l’eccellente versione de La compagnia, incisa nel 1993 per l’album “Ridi pagliaccio”), i brani – eccetto le nuove incisioni di cui abbiamo detto – sono stati tutti quanti rimasterizzati e rimixati. Ci sono Minacantalucio del 1975, i due inediti compresi in Mazzini canta Battisti (Perché no e Il leone e la gallina), le canzoni espressamente composte da Battisti per Mina (Insieme, Amor mio, La mente torna, Io e te da soli), il medley dal Live del 1978 (e, sempre live, ma del 1972, Io vivrò senza te), alcune altre versioni in spagnolo e in francese.
Grande eleganza e attenzione alle nuove sonorità nei remixaggi (supervisionati maniacalmente da lei); ma soprattutto – ed è la vera chicca – interventi inediti di Mina a sottolineare un passaggio o a svisare in un codino. Basta poco: un accenno, una griffe, una parola… e il paradiso si schiude. Una volta di più.