Punto di vista e filogenesi in “Somiglianze di famiglia” di Matteo Pelliti

di Francesco Antonio Pierozzi

Quale filo lega realmente l’individuo ai suoi consanguinei? Alla base di Somiglianze di famiglia di Matteo Pelliti (Industria & Letteratura, 2021) c’è l’intreccio di due idee fondamentali, perpendicolari fra loro ma necessarie l’un l’altra: che l’individuo è un luogo, cioè un punto riconoscibile dello spazio umano; che l’individuo è impossibile senza una mappa intorno, senza un arcipelago che lo sorregge orizzontalmente (nella genetica, nella geografia) e verticalmente (nel significato, nella storia).

Le sezioni che compongono il libro sono infatti ognuna dedicata a un personaggio (o una serie di personaggi) del paesaggio familiare, e disposte secondo un ordine tendenzialmente cronologico: si comincia con gli avi, si finisce con i posteri e la morte degli avi. È bene sottolineare però come Somiglianze non corrisponda semplicemente a un albero genealogico, a una rassegna delle origini e dei futuri: partendo da questo aspetto – necessario comunque per mappare l’orizzonte familiare, appunto – Pelliti compie da una parte il lavoro “filologico” di individuare le ricorrenze e le eredità (caratteriali, fisiche, generalmente esistenziali) tra i personaggi, dall’altra l’operazione più sottile di “assunzione” della mappa nello sguardo di chi scrive. Voglio dire, non solo lo studio di un archivio di anime ma anche la ferma coscienza di come queste indirizzino la costruzione e la postura dell’io tramite cui il paesaggio perviene al lettore. Ed è un paradosso solo in apparenza che, proprio per questa strada, l’io finisca per volatilizzarsi o, meglio, sparpagliarsi e funzionare più come nervo sensibile che come autorità.

Ma procediamo per gradi. La prima sezione – Essi, voi – fa coincidere il punto di partenza del libro (quindi dell’esplorazione conoscitiva) con il punto di partenza della genealogia («Albero genealogico e albero della conoscenza / a volte coincidono»); ovvero, parla degli avi. A questi l’autore si rivolge non semplicemente all’interno di un rispettoso e misterioso ricordo («la forza silenziosa, umile, santa / di chi in quegli anni postbellici / ha ricostruito il nostro paese»), ovvero con una prospettiva dal basso verso l’alto, ma anche, contemporaneamente, mostrando loro qualcosa che la morte gli ha impedito di conoscere (e dunque con una prospettiva dall’alto verso il basso): «Vi scrivo per raccontarvi la storia che avete generato, voi, gli avi, questo intreccio di voci che sono arrivate dopo di voi».

Le figure degli avi, riportate e studiate attraverso il filtro della pellicola seppiata (il libro contiene, concretamente, alcune antiche foto dei personaggi di cui si parla), sono dunque figure lontane due volte: perché precedenti – quindi detentrici di una qualche forza originaria poi perduta («[…] sono consapevole / di non avere affatto la forza di mio nonno») – e perché ignare di ciò che, alla lunga, hanno generato – quindi figure-scrigno che contenevano un seme (della progenie, dello stesso autore) seminato ma mai raccolto. In questo senso, allora, espediente molto efficace è quello di isolare la realtà degli avi all’interno del pronome Essi (che è anche il tiolo del secondo testo); un pronome così pieno e insieme diafano, quasi deumanizzante – a indicare una presenza che è oggettivamente rimossa, senza carne, eppure ingombrante come un nucleo solido al fondo delle nuove coscienze:

 

Essi, loro i pronomi della lontananza,

della distanza, della genealogia, della progenitura,

gli antenati, gli spettri evocabili,

 

avi, trisavoli,

siamo noi i loro fantasmi possibili,

noi evocati dall’anteriorità, noi

posteriori, prodotti ultimi e provvisori.

Essi, loro, i bisnonni ci chiamano al mondo

col loro casuale intreccio

di matrimoni, partenze, stanzialità.

 

Una danza onomastica ha variato

le doppie nei cognomi

per identità affidate all’udito dell’ufficio anagrafe.

Noi, discendenti imprevedibili.

 

L’albero viene così ripercorso, si raggiunge il “basso” del VOI – ovvero i genitori, presenza comunque “altra”, ma più vicina rispetto agli avi più antichi – e nel percorso si rintracciano risonanze e richiami, echi della genetica («Di notte sentire risalire dalle gambe le cellule dei tuoi avi che formano i tuoi limiti esatti») e dell’onomastica (A volte bastavano i nomi) che ricadono sulla progenie, e in particolare sull’autore. Ma il viaggio nell’albero non permette solo di individuare tassonomicamente le caratteristiche di una famiglia-specie (in Domani mi operano si ereditano: «Ernia inguinale», «stempiatura», «colore degli occhi», «cognome»), ma anche di calarsi esistenzialmente nelle figure che sono state, e che hanno in qualche dimensione inattingibile già anticipato, intuito, calcato i passi dell’autore. Così Pelliti diventa un suo omonimo del passato, ne indossa le somiglianze (Ero un soldato) ma anche l’inconoscibilità: «Chissà che faccia avevo, e cosa sognavo / di notte, prima di andare a caccia di briganti. / E dove ero nato, e dove ero vissuto? / E dove tornavo a casa?».

È in questa configurazione di soggetto, insieme esploratore filogenetico e palombaro esistenziale, che si trova, secondo me, la chiave del libro. Ce ne accorgiamo proprio alla fine della prima sezione: dopo VOI – dedicata, come detto, ai genitori – si aprono le sezioni Mia figlia e Mio figlio. Qui l’operazione di Essi, voi si ripete all’inverso: assistiamo alla filogenesi del futuro, che comprende anche qui sia il ripercuotersi dell’eredità genetica (da cui l’insistenza sulle parti del corpo, come in 25 gennaio: «Il medico enumera gli organi, / i ventricoli, / i tubi che si devono intersecare, / le orbite, il naso, la vescica, la cistifellea, / misura, misura, misura»), sia il “calarsi” esistenziale-empatico nell’altro familiare. Con la differenza, però, rispetto agli avi, che l’altro familiare è qui ancora un futuro, un possibile (molti componimenti sono “amniotici”, discutono dei discendenti durante la loro gestazione, come gran parte della sezione Mio figlio), e trasforma, così, lo studio dell’altro in una preoccupazione morale:

 

Si apre per noi, Sara,

col tuo arrivo, la possibilità,

o almeno il tentativo doveroso,

di non tramandare

gli sbagli, i vizi, i tratti, i tic

che noi riconosciamo

essere stati i batteri delle nostre famiglie.

Tu ci dirai, può darsi, dopodomani,

che nuovi inciampi, originali,

nuove colonie infettive,

saremo stati capaci di produrre,

amandoti,

ma intanto oggi

siamo consapevoli

che questo ti dobbiamo:

fermare i virus silenti

che viaggiano indisturbati, e volentieri,

lungo gli alberi genealogici

(ansie, paure, ipocondrie,

pessimismi, sfiducie,

infelici meditazioni sul Sé

e sul Mondo, scetticismi vari…)

compito nostro

è l’essere antibiotici

e setaccio di famiglie:

ri-tramandarti il Bene

fermando la coazione al peggio.

 

In un certo senso, dunque, la morale («il Bene») è qui il non-biologico («l’essere antibiotici»), la scelta che in quanto tale separa l’azione umana dal determinismo della natura. Anche in questo senso si motivano le metafore fantascientifiche o cosmologiche riferite ai figli («astronauta in scala», «Da quale universo parallelo arrivi», «sei centimetri di universo»…): i figli sono in certa maniera non umani, non ancora immersi nella catena della genetica e della cultura che li renderà somiglianti al resto della comunità famigliare. Perciò rappresentano non solo una promessa (dell’eredità che tornerà), bensì anche una scommessa (da parte dei genitori sull’efficacia della propria cura pedagogica e morale).

Matteo Pelliti

Ma è chiaro come nel passaggio immediato dagli antenati ai posteri, da Essi, voi a Mia figlia, manchi qualcosa. E manca, esattamente, il noi, la generazione di mezzo – in fin dei conti, il soggetto. Ho parlato di esplorazione ed empatia, che sono le attività conoscitive (filologica e filosofica, potremmo dire parafrasando Vico) attuate proprio dal soggetto nel rintracciare le Somiglianze di famiglia. Eppure non appare una sezione dedicata all’io scrutante: dopo Mia figlia, abbiamo Le ceneri di Gra, in cui si parla di una morte, che è anche un ritorno («Ti depositiamo in una tomba di parenti / in attesa di esaudire la tua volontà / di tornare alla terra»), nonché la presenza trasversale degli avi di fronte alle generazioni future, la testimonianza (e tutta la sezione è infatti incentrata sulle parole e i desideri ultimi di «Gra»).

Proprio in questa eclissi del soggetto-personaggio – che rompe o almeno maschera, camuffa il paradigma natura non facit saltus fondamentale per gli aspetti filogenetici del libro – sta l’aspetto più interessante: durante il tracciamento delle Somiglianze e la pre-occupazione (verso i figli) il soggetto si nasconde; emerge certo come scrutatore e valutatore (morale, emotivo, gnoseologico…), ma non come materiale, perché già implicato dal puzzle dell’albero famigliare e dalla sua scoperta. In quanto attività, il soggetto è una sorta di osservatore quantistico – che, misurando l’oggetto, ne determina la posizione – ed è significativo che l’unico membro della generazione di mezzo, il più stretto duplicato del soggetto, e cioè il fratello, sia posto dopo il Congedo, in Appendice, e dichiarato «anello lipogrammatico / mancante, rimosso, omesso».

Forte di uno stile prosastico (anche diaristico: si pensi ancora a Mio figlio e Le ceneri di Gra), che funziona come immediatezza, riporto essenziale della ricerca – ma non per questo privo di giochi fonici («Ora che è stata data la data»), metapoetici («l’inconscio poetico, / scrivendo, fa i lapsus che vuole, / che sa.»), autoironici («[…] io tuo dromedario, / tuo carovaniere personale // tuo veicolo bipede, / zatopek in scala.») – Somiglianze di famiglia, dunque, è una sorta di genetica ripresa in soggettiva. Dove l’io – come si dice in chiusura – è una vulnerabilità: una zona perforata dai colpi (felici, tragici) del paesaggio familiare, ma anche l’unico punto (poiché sguardo, sottrazione) dove la scoperta e la mappa stessa del paesaggio possono compiersi.

 

 

 

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