Bestia duecentosessantunesima
La Trivialità striscia nel fango, scivola fra i sassi e addenta una zolla di terriccio. Un sapore intenso, il buon sapore delle cose basse, le riempie la bocca. Un alito di vento spande l’afrore del letame gettato per concimare i campi. Lei inspira a lungo, lascia che l’odore le riempia le narici. È così che finisce il mondo dopo essere stato masticato: si trasforma in un cumulo di feci. Poi il ciclo ricomincia da capo.
La Trivialità entra in una pozzanghera e si avvolge su se stessa. È bello stare dove tutto muore, dove tutto rinasce. Del resto i fiori non sono mai caduti dal cielo.
Bestia duecentosessantaduesima
L’Ignoranza barcolla in un deserto costellato di cactus. Oltre le sue palpebre fuse in concrezioni di carne s’intuiscono a tratti i guizzi dei bulbi oculari. Il corpo glabro, sprovvisto di corazze, è punteggiato di piccole ferite.
La bestia avanza alla cieca, si volta verso il fischio del vento, devia per allontanarsi dal sibilo di una vipera e si schianta contro un cactus. Prorompe in un grido stridulo e grugnisce risentita, come se l’incidente non dipendesse da lei.
Appeso a un ramo dall’alto cactus c’è un alveare. La Curiosità sbuca fuori da una celletta e ronza ai di là di una duna.
L’Ignoranza si paralizza e tende le orecchie. Per scoprire chi ha generato il ronzio dovrebbe forarsi le palpebre, strappare gli occhi al conforto del buio, ammettere che il deserto è sconfinato e pieno d’insidie. Sarebbe doloroso, straziante. Se lo facesse, però, per la prima volta vedrebbe fiorire le euforbie e forse potrebbe inventare un sentiero.
Bestia duecentosessantatreesima
L’Abulia ha la schiena premuta contro la parete dell’uovo. Le basterebbe muovere appena la testa, allungare una zampetta o magari sollevare un’ala e il guscio si creperebbe e inizierebbe a franare.
Un torpore diffuso la schiaccia, persino respirare è faticoso.
Fuori dall’uovo c’è un mondo intero che l’aspetta. Un cinguettio argentino risuona sopra di lei, da qualche parte. Sembra che qualcuno la stia chiamando: la invita a rivelarsi.
Beh, non ce la fa. È come se il suo corpo fosse un sacco vuoto. Lei, la vera lei, vaga nel buio al suo interno, incapace di muovere l’involucro che la imprigiona. È stanca, troppo stanca.
Resterà lì.
Bestia duecentosessantaquattresima
La Tregua siede sulle zampe posteriori, equidistante dai fronti dei due eserciti in lotta. Il vento mugghia fra gli abeti e le si scaraventa addosso in folate cariche di cristalli di neve. Nessun altro suono echeggia fra i monti.
Tutti i soldati hanno deposto le armi, qualcuno si è stretto nel cappotto e si è addormentato. Un ragazzo dal volto pallido porta le ginocchia al petto, si abbraccia le gambe e la osserva da sotto la visiera del cappello.
Prima o poi lei dovrà andarsene: è venuta solo per portare il silenzio, un respiro più lungo, il tempo che serve per terminare una lettera lasciata a metà.
La bestia scuote il capo per scrollarsi di dosso il nevischio che le è rimasto impigliato nella pelliccia. Un soldato sussulta: teme forse che sia giunta l’ora.
Fra non molto un’esplosione coprirà gli ululati del vento e la neve si tingerà di chiazze rosse.
Ma non ancora.
Bestia duecentosessantacinquesima
Lo Stupore è una sfera cremisi del tutto simile a una mela. Matura appeso al ramo di un albero finché il suo picciolo si stacca ed esso precipita a terra.
Rotola nell’erba e due occhi circolari si schiudono sulla superficie lucida. Per lui è tutto nuovo, tutto inatteso: fino a un attimo fa non sapeva nemmeno di esistere. Le pupille nere si allargano come macchie d’olio e riempiono le iridi ambrate. Una grossa bocca si spalanca rivelando la lingua rosata della bestia.
La sua pelle si riempie di rughe, gli occhi e la bocca si restringono e scompaiono del tutto. Ora lo Stupore non è che un frutto avvizzito.
Dal ramo, però, pende già un’altra sfera.