Riconoscersi nel sangue. Su Scurau di Giuseppe Nibali

«Ogni uomo è un criminale senza saperlo.»
A. Camus, L’uomo in rivolta

di Jacopo Curi

Scurau di Giuseppe Nibali, edito da Arcipelago itaca nel 2021 con la postfazione di Tommaso Di Dio e tre illustrazioni di Ilaria Mai, è un libro lucido e coraggioso che chiede al lettore di rispecchiarsi, altrettanto lucidamente e coraggiosamente, nella putredine del mondo occidentale contemporaneo. Alcuni ignorano, altri si rifiutano di guardare e preferiscono voltarsi, ma tutti, nessuno escluso, siamo coinvolti, in quanto responsabili o taciti testimoni di una ripugnante carneficina.

Il linguaggio crudo e incisivo di Nibali comunica attraverso la potenza espressiva delle immagini. La sensazione suscitata dagli agghiaccianti orrori perpetrati del genere umano è di nausea e disgusto, soprattutto perché ci si ritrova inevitabilmente strappati alla propria indifferenza. Per questa forza attrattiva di Scurau si potrebbe parlare di espressionismo, se non fosse che il soggetto si eclissa per lasciare spazio a uno stratificato iperrealismo: dietro figure umane, animali e vegetali si nascondono simboli ossessivamente reiterati che recano in filigrana un mimetico ordito di indizi letterari, storici, filosofici e scientifici. Nibali riesce nell’impresa di tenere insieme tutti questi elementi che denotano la ferocia dell’uomo e lo proiettano in una vertiginosa discesa nell’inconscio. Le sotterranee pulsioni di Eros e Thanatos ritraggono i meccanismi del potere politico, economico e tecnologico: in particolare si noti il riferimento all’obiettivo fotografico del numero «056F 07» che ricorda il Serafino Gubbio operatore di Pirandello, paralizzato dietro alla cinepresa mentre una tigre sbrana l’attore Aldo Nuti. Una scena di alienazione raccapricciante che per lo shock porta il protagonista del romanzo all’afasia e alla rinuncia a ogni forma di sentimento e comunicazione, dopo l’inutile presa di coscienza di essere stato ridotto a una mano che gira una manovella («Finii d’esser Gubbio e diventai una mano»). Nella poesia di Nibali la funzione della macchina riassume in sé i processi di manipolazione dell’informazione attuati da un potere multiforme, camaleontico e asservente. Come profetizzava Orwell nel distopico 1984, il potere si basa sul controllo, per prevaricare l’emotività e dominare il pensiero altrui. Ma in Scurau prevale il fiuto del sangue: il corpo, ridotto a cumuli di scarti, è il vero bersaglio di un mostruoso godimento, di un «orgasmo» che riduce i valori apparenti della civiltà occidentale contemporanea in macerie. Così Scurau trasfigura il presente senza alludere a fatti di cronaca, ma riproducendo negli istinti primordiali la pura tragicità del mito, come avveniva in Pavese.

Scurau

La raccolta è divisa in tre sezioni: Antropocene, Predazione e Scurau. Non a caso il termine Antropocene indica un’epoca caratterizzata dall’impatto delle azioni dell’Homo sapiens sul pianeta; di conseguenza la prima parte indaga vari aspetti della convivenza umana:

la ragazzina al portone, di fronte alla tua casa
(quella scomposta, dinoccolata già altissima):
sul telefono si vede la corda con cui in costume
viene annaffiata dall’amica. Lei ogni giorno
ripete le stesse venti parole, di non essere amata,
dice che il padre ha un nuovo lavoro, conserva
i resti del bar, le cartacce, non vede sull’addome
addensarsi la peluria, nella mente nasce l’idea
di confrontarsi sui prezzi dei piercing, tentare
un racconto. Quando torna la madre, le spiega
del prurito che oggi ha avuto alla patatina
e anche: la cacca, mamma, ho fatto la cacca nera.

I resti organici di una bambina innocente, scaraventata con violenza nel mondo, sono la cartina al tornasole di una società malata in mano ai prepotenti, che hanno sfruttato a proprio vantaggio il principio darwiniano dell’adattamento, lasciando creature smarrite in cerca di sicuri punti di riferimento.

In Predazione, invece, la contesa diviene più esplicita:

le hanno pisciato dentro il corpo, poi sono venuti verso di noi.
Battendo gli enormi corpi, i nasi all’uomo che era stato appeso
con le corde navali – un nodo lo hanno fatto sui ginocchi
un altro stringeva la gola e ha causato il decesso.
Dicono che è accaduto, è successo veramente, mandrie
di giovani indicano il viso della figlia sulla foto tra i gemiti
ieri, dicono, ha fatto mosse di lepre: è venuta per noi che ancora siamo.
Così dicono, poi una decina di loro inizia la Baladi.

Non c’è spazio per il pudore, ma solo per una precisione chirurgica in un’atmosfera densa di presagi. Il turbamento trasforma l’osservatore critico in spettatore impotente e si esaurisce nel primitivismo apotropaico di una danza popolare, come quando affoghiamo il tarlo di una notizia terribile nella melma di una falsa normalità. Anche se qualcosa da qualche parte «è successo», potrebbe non essere vero, potrebbe essere una diceria, e magari riguarda qualcuno distante da noi. L’importante è chiudere gli occhi e salvare la pelle; dimenticare per tornare all’inerzia quotidiana.

Nella sezione eponima, infine, il linguaggio di Nibali affonda le radici nella terra per rivestirsi dei suoni del dialetto siciliano. In occasione della presentazione maceratese avvenuta lo scorso novembre, l’autore ha precisato che il suo non è un vero e proprio dialetto, ma piuttosto una lingua letteraria e laboratoriale. L’evoluzione del dialetto conduce a un inevitabile rinnovamento con il quale il poeta neodialettale è chiamato a confrontarsi, fino a produrre forme espressive ibride e individuali (idioletto); ma l’operazione di Nibali, sebbene motivata per sua stessa confidenza da fattori ambientali e socio-culturali, assomiglia di più a quella dei conterranei della scuola siciliana che nel XIII secolo gravitavano intorno alla corte di Federico II. La differenza consiste nel fatto che Scurau non è destinato a un pubblico elitario ma a tutti, indistintamente. La scelta del dialetto conferisce organicità all’opera caricandola di significati ulteriori. Il dialetto, infatti, ha una funzione rammemorante e coincide con l’esperienza personale di un ritorno alle origini:

Pi scannari n’cunigghiu, prima cosa
cauru cauru l’ha pigghiari r’intra a cunigghiera,
vacci a manu raputa, china china, come preiannu
scatta u cunigghiu masculu, chiddu chiù rossu, ha tastari
boni i spaddi, poi ci pappìi a tringa pi visiri su è rassu.
Nisciutu ra cunigghiera ha trasiri intra a cucina, cà ha teniri
bonu l’armaluzzu e iddu s’abbessa, ‘ncravacca i iammitti.
A cuzzata c’arrivari sutta i ricchi, accussì s’alluppìa, duna
l’arma a diu. No mentri na putenti cutiddata nto sternu,
d’unni cola u sangu, annunca a carni s’annirichhisci.

P’a pelli, tagghia pattennu rei cosci e u tigghiu arriva
fino ai cannarozza, ri cà ietta buredda e stommacu, poi
votulu e tagghia sutta a cura. Ora posa u cuteddu, teni
i lati e duci strascina da cosetta i sita. T’arresta
ntei manu u scantu, n’aranata senza scoccia.

[Per scannare un coniglio, per prima cosa / devi prenderlo da dentro la conigliera / vacci a mano aperta, bene aperta, come pregando / scegli il coniglio maschio, quello più grosso, devi tastare / bene le spalle, poi palpeggia la schiena per vedere se è grasso. / Uscito dalla conigliera devi entrare in cucina, qui tieni / bene l’animaletto e lui si sistema, stende le zampe. / Il colpo deve arrivare sotto le orecchie, così si tramortisce, / dà l’anima a dio. Nel frattempo una forte coltellata nello sterno, / da dove colerà il sangue, altrimenti la carne s’annerisce. // Per la pelle, taglia partendo dalle cosce e il taglio deve arrivare / alla gola, da qui butta budella e stomaco, poi / giralo e taglia sotto la coda. Ora posa il coltello, tieni / i lati e dolcemente sfila quella calza di seta. Ti rimane / nelle mano lo spavento, una melagrana senza scorza.]

Nibali dimostra che siamo il frutto dei nostri traumi, ma procedere a ritroso fino a rintracciare la matrice dei nostri atti ci obbliga a riesaminarci. L’unica opportunità che abbiamo a disposizione è dunque riconducibile a questa risalita verso la fonte della coscienza, dove il ricordo si duplica: qui risiedono sia la colpa che l’ammissione di colpa. Le prime spie sono incastonate nel nostro intimo Antropocene, nell’era geologica della memoria: anche se «la città è andata avanti / verso il mondo universo», anche se «il diluvio continua», «gli uomini resistono» rivivendo «i tempi belli, l’infanzia più dietro, la memoria». Ma «l’ultimo sangue crollato giù dai denti» è anche l’ultimo monito, quello già presente nel verso che apre l’opera: «Ultima voce chiama il sangue».

Allora Nibali riapre la questione del ruolo dell’intellettuale e della cultura proponendo, se è lecito parlare di speranza, la soluzione della consapevolezza: è tra il sangue versato e rimescolato che, riconoscendoci vittime e carnefici, possiamo finalmente riconoscerci. L’augurio «un bell’immenso sogno di contadini per baci ancora» anticipa ed esplicita, mediante il paradosso della scrittura automatica, la volontà di ridimensionare e ritrovarsi stretti gomito a gomito nella sacca di una resistenza comunitaria, nell’amorevole visione di un semplice contadino che si ritira perché scurau; perché è tardi e viene buio.

Giuseppe Nibali

Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Si è laureato in Lettere Moderne e in Italianistica a Bologna dove è stato membro del Consiglio Direttivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università. Giornalista Pubblicista, è direttore responsabile di «Poesia del nostro tempo» e curatore del progetto Ultima. Collabora con «Le Parole e le cose», «La Balena bianca» e con il magazine «Treccani». Ha pubblicato i libri di poesia: Come dio su tre croci (Edizioni AE 2013) e La voce di Cassandra – Studi sul corpo di una vergine.

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