IL GRANDE STILE – Poesia e vita: il caso di Andrea De Alberti

Gabriel Del Sarto

di Gabriel Del Sarto

Nel 2017 è uscito un libro di poesia che, pur senza far parte del fenomeno pop di certa produzione in versi contemporanea, ha avuto un discreto successo di pubblico, divenendo un piccolo caso letterario. Lo ha scritto Andrea De Alberti, poeta di Pavia, nato nel 1974 e si intitola Dall’interno della specie (Einaudi). La raccolta è stata già molto recensita, in testate di varia natura, a conferma di una capacità di penetrazione insolita per un’opera che si configura come pienamente inserita nella grande tradizione lirica del nostro paese. De Alberti raggiunge, in queste pagine, una maturità espressiva di rilievo, originale, e lo fa per mezzo di una voce che pronuncia i suoi versi come sempre dall’interno di qualcosa. Come se lo sdoppiamento, il non mettere a fuoco del tutto, che avviene in una stanza, come in una linea geologica, sia il luogo privilegiato della rivelazione della precarietà di tutti.

La fine di una certa idea di storia, la fine di un’idea di società è una delle pieghe del mondo su cui la generazione dei poeti nati dopo il ’70, in questi ultimi anni, sta ponendo attenzione, e De Alberti non solo non fa eccezione, ma è probabilmente uno dei più capaci nel cogliere il senso del comune smarrimento: la situazione di perenne decentramento / da ogni situazione stabile. Certo tutto questo essere fuori fuoco, fuori ingranaggio senza possibilità di redenzione, non potrebbe fondare un discorso se non vi fosse, dentro la biografia di questo poeta, un preciso senso e una precisa esperienza di decentramento. Nel caso di Andrea, la morte prematura del padre, col carico di domande che un evento così devastante si porta dietro, diventa la chiave di lettura del mondo e della biologia. Della vita dei singoli come di quella dell’universo. Tutto, la vita e il tempo, o sono vissuti come se il padre fosse qua o sono alienazione. Ogni nostro comportamento, ogni nostra azione è alienata, non evoluta, se non rientriamo all’interno, nel luogo da dove quella voce parla: Bisogna pensare all’evoluzione della specie / come a una ramificazione cerebrale / che lotta sottoterra per difendersi dal tempo […] lo sforzo di dimostrare / che chi non sa farsi figlio nel padre / ferma lì dentro lo scorrere del tempo.

la copertina del libro

È veramente questo il nucleo attrattivo di questo libro, la sua forza di fascinazione e il motivo, mi pare, per cui è stato scritto: riproporre, in modo discreto e discontinuo, ma non per questo meno potente, le domande di senso, la ricerca di verità, attorno all’io e al noi, a partire dal quotidiano incerto che è quello della storia che ci è data. La ricerca della salvezza, di una parola che abbia confidenza con la salvezza possibile, allora torna ad essere un compito della poesia, della lirica in particolare. Una lirica “rifunzionalizzata” (come la definisce M. Borio nel suo recente Poetiche e individui) e quindi consapevole dei tempi, ma che non ha dimenticato quello che scrisse Hölderlin: “la dove c’è pericolo, là anche/ cresce ciò che salva”. A questo proposito De Alberti sembra dirci che solo il retrocedere possa aprire spiragli di salvezza. Un retrocedere geologico, fino ai tempi dell’origine e dei progenitori, o un retrocedere quotidiano, come quello del tentativo di un padre di mettersi nei panni del figlio: questo è lo spiraglio che consente la grazia. E di grazia allora si deve parlare, se vogliamo rendere merito alla bellezza di alcune poesie di questa raccolta. Una delle più riuscite e compiute, In origine, è un esempio lampante di come la poesia lirica sia ancora capace di riflettere e comporre la realtà, interna ed esterna al soggetto, in modo da toccare le vicende di tutti. In questo testo ci troviamo subito di fronte ad un movimento di retrocessione, nel senso, come detto prima, di un’inclinazione della voce lirica a esistere nel presente attraverso la proiezione in esso di qualcosa che già è stato e che, essendo stato, sarà per sempre. Le geologie delle nostre esistenze, come dell’esistenza del cosmo, sono la via di accesso alla percezione e alla rappresentazione:

In origine

Sarà come rallentare il corpo in un nuovo soddisfarsi
nel chiarore della neve,
camminare verso un altro sdoppiamento:
i platani, i tigli, le acacie,
vite a coppia per trent’anni dietro il cancello di casa,
quel che saremo o che diventeremo,
forse ero io, forse eri tu prima di nascere,
un’andata e un ritorno, un arrivare nel silenzio.
Sarà un nuovo divenire, una specie di annullamento,
una simulazione vuota,
così è sentirsi pieni di cose
dentro una stanza che è alla base
del nostro vivere in silenzio,
con il vuoto meccanico di un’azione,
ogni volta che ti allontani da lui come da un puntoluce
non lo trovi più nemmeno in sogno.

 

Il primo movimento ci porta ad una possibile infanzia, nel giardino di casa, con la neve, gli alberi piantati a coppie, vicini per una vita (per trent’anni dietro il cancello di casa) che torna prepotente nel momento di svolta, legato alla nascita del figlio. Una vicenda che è uno sdoppiamento e, insieme, una distanza fra ciò che un uomo è prima di un figlio e ciò che sarà dopo. Questa svolta (un’andata e un ritorno, un arrivare nel silenzio. / Sarà un nuovo divenire, una specie di annullamento) è descritta attraverso immagini dalla forte venatura mistica (il silenzio a cui si può giungere, l’annichilimento dell’uomo di prima della nascita) che sembrano costituire il tappeto linguistico adatto alla grazia. Le cose però sono complicate, incerte.

Andrea De Alberti


Questa esperienza di annullamento vertiginoso può essere, al medesimo tempo, una
simulazione vuota, simile a tante altre esperienze banali della vita, come anche un sentirsi pieni di cose, presi da un’abbondanza che non si conosce. Questo essere dentro, contemporaneamente, a un vuoto e a un pieno possibile, è la danza che l’io lirico di questo libro compie in quasi tutti i componimenti. Una danza che descrive sia la situazione dell’io, la vita come è, sia la tensione drammatica di chi non è arreso all’assenza della speranza del senso. Nel finale, proiettati dentro una stanza, quella in cui si compiono gesti abitudinari, come addormentare un figlio (il vuoto meccanico di un’azione), la tensione raggiunge il suo estremo. Il figlio è il puntoluce di un’intera forma della vita. Che però non è la sola che coabita quelle stanze: allontanarsi da lui è perdere la sua luce, significa tornare a vivere frammenti di una vita altra, mentre quell’esistenza densa, poco prima sperimentata, non si recupera nemmeno in sogno. Almeno fino al giorno dopo, almeno un poco.

De Alberti ci guida nel silenzio di queste stanze, con gentilezza, chiedendoci di osservare come ci aggiriamo in questi interni, forse estranei a noi stessi e inconsapevoli dei nostri puntiluce quotidiani. Così compie una funzione, ci consegna la possibilità di sperare che la poesia abbia ancora questo ruolo: giocare con le parole in cerca di una qualche verità, di un barlume o anche solo della sua memoria.

 

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