da La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi, 2021), di Carla Benedetti
<Di solito, quando si parla di Pasolini profeta ci si riferisce allo scrittore corsaro, quello che negli anni Settanta vede i primi segni della mutazione antropologica provocata dalla civiltà dei consumi e descrive gli effetti catastrofici di un potere efferato, da lui chiamato “nuovo Potere”, che non assomiglia a nessuno di quelli precedenti, più terribile dello stesso fascismo. Certo, in quegli anni Pasolini sviluppò anche riflessioni più profonde, ma sono quelli gli enunciati – che qui volutamente riporto nella loro schematicità – che hanno dato origine alla vulgata di un Pasolini “profeta”. (E non dimentichiamo che nella seconda metà di un Novecento antimetafisico e poco mistico l’etichetta di profeta poteva suonare ambigua, persino offensiva). Ci si riferisce quindi a una parola profetica di tipo assertivo, che annuncia una catastrofe culturale, un “genocidio culturale”, come Pasolini stesso l’ha definito.
Per questi contenuti Pasolini può essere avvicinato a Debord.
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Ma c’è in Pasolini anche un altro tipo di parola profetica, suscitatrice invece che assertiva (…). La si può riconoscere anche negli stessi Scritti corsari o nelle Lettere luterane. Ma un esempio più immediato ce lo dà lo straordinario dispositivo tragico che Pasolini sperimenta nel film di montaggio La rabbia, realizzato nel 1963, due anni dopo il racconto di Anders. L’intento del film – spiega Pasolini – era di usare delle immagini di repertorio tratte dai cinegiornali degli anni Cinquanta, ma montate insieme in una forma libera e poetica, per scuotere dal torpore della “normalità” e suscitare la condizione emotiva di uno “stato di emergenza”:
Cosa è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità.
Già, la normalità. Nello stato di normalità non ci si guarda intorno: tutto intorno si presenta come “normale”, privo della eccitazione e dell’emozione degli anni di emergenza. L’uomo tende a addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è.
E allora va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica. (P. P. Pasolini, Per il cinema, a cura di di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano, 2001)
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In tutto il film il comune sentimento della storia viene sostituito da un senso tragico della vita umana nel tempo. La rabbia, spesso definito erroneamente “documentario storico”, al contrario ha molti tratti in comune non solo con la poesia ma in particolare con la tragedia antica, persino con il coro tragico che qui si ricrea nei versi recitati dalla voce fuori campo. Gli avvenimenti storici degli anni Cinquanta, che ci vengono presentati nelle immagini di repertorio tratte dai cinegiornali dell’epoca, la guerra d’Algeria, la rivoluzione cubana, le guerre di liberazione in Africa, l’elezione di Eisenhower, l’elezione di Giovanni XXIII, la morte di Marilyn, il primo volo nello spazio, sono proiettati in un tempo diverso da quello dei libri di storia, che si prolunga nei millenni, e in una durata che infine ci sopravanzerà. E’ il tempo che verrà dopo la fine dell’uomo, quello in cui sarà come se “noi non fossimo mai esistiti”: una frase che suona assai simile a quella di Noè quando dice che tutto quello che c’era stato prima del diluvio, sarà “ciò che non è mai stato”.
Pasolini non annuncia il pericolo della bomba atomica facendone oggetto di narrazione o di riflessione saggistica, ma incorpora ed elabora quell’evento nel cuore di una visione della storia assai diversa da quella dei moderni, e suscita in noi spettatori un sentimento di pietà e di commozione per le “sanguinanti strade della terra”, dove gli uomini camminano da millenni. Questo film non annuncia un’apocalisse, ma, con l’oltranza sentimentale che contraddistingue Pasolini sia regista che poeta (e che spesso gli è stata rimproverata come troppo lirica), riesce a provocare in chi guarda un allargamento dell’orizzonte della storia e a suscitare un senso di emergenza con una forza che ancora oggi, soprattutto oggi, ci tocca profondamente.