da Roger Scruton, La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio, “Vita & Pensiero“, Milano, 2007
<In quasi tutti gli ambiti, attualmente siamo dissuasi dall’esercizio della critica. Basta che un prodotto artistico abbia un pubblico; che la gente voglia guardarlo, leggerlo, ascoltarlo, o almeno che se ne parli. Il successo al botteghino è il criterio di valore accettato (…). Questa, a ogni modo, è l’opinione corrente sull’argomento. Essa presume che i prodotti artistici siano godibili, proprio come lo sono i cibi, le bevande, il calcio e la pornografia per coloro che li apprezzano, e che non vi sia un ruolo dell’arte connesso col rifiutare le nostre emozioni al mercato. Al contrario: l’arte sarebbe un altro modo di metterle in vendita.
Siamo entrati in un’epoca in cui i giudizi estetici sono sistematicamente evitati. Le persone hanno i loro gusti, certamente, ma questi non sono diversi dalle preferenze alimentari – desideri di gratificazione del tipo che possiamo osservare con pari facilità in un animale come in un essere vivente razionale. Quello che era peculiare dell’esperienza estetica – cioè il basarsi sulla percezione di un valore – è uscito di scena; resta solo il desiderio. Se ancora si studia l’arte, spesso è solo per esplorare le tecniche, oppure per “oltrepassare” per intero la tradizione dell’espressione artistica e decostruire i suoi reconditi presupposti politici. Il giudizio stesso – si tratti del giudizio contenuto nell’arte o di quello che all’arte viene applicato – è automaticamente evitato. E’ un aspetto del vivere in un ambiente “non giudicante”, “inclusivo” e perfino “multiculturale”.
In un simile ambiente, il giudizio estetico è facilmente sentito come una minaccia. Nel mondo nuovo niente va tolto dal mercato, e se qualcosa incorre in un divieto assoluto non può trattarsi che di qualcosa – come l’omicidio – che rappresenta una minaccia per tutti. (…) In altre parole, ogni tentativo di costruire un regno dei valori intrinseci – e proprio in questo, in realtà, consiste la cultura – è guardato con sospetto. Chi prova a chiedere che il tentativo sia fatto comunque è un pericolo per l’ordine sociale, perché ci ricorda che un ordine esso non è affatto, ma semmai una specie di disordine irreggimentato (…).
Sospetto che spesso l’umanità sia entrata in periodi come il nostro, in cui la disciplina del giudizio e il perseguimento dei valori intrinseci si sono rarefatti o estinti. Tuttavia, benché ciò sia accaduto, nel passato, non n’è pervenuta alcuna testimonianza, perché una società senza cultura pere la sua memoria e addirittura il desiderio di immortalarsi in monumenti duraturi. Ben presto subentra la barbarie, e una simile società viene cancellata dalla faccia della Terra.
(…)
I monaci irlandesi che tennero acceso il lume della conoscenza durante i secoli bui della nostra civiltà avevano su di noi un gran vantaggio: non subivano la concorrenza di alcuna chiassosa e amplificata idiozia; tutto, intorno a loro, era pericolo e distruzione, e appena trovavano un rifugio la pace subito vi si insinuava silenziosa, per guidare i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro penne.
Ciò nonostante, i segni di speranza che ho individuato in questo capitolo non sono casi isolati di un’opposizione fuori moda. Essi suggeriscono l’esistenza di un crescente movimento di rigetto del nichilismo predominante – quello delle accademie e quello del mercato. Questo movimento può riuscire a ricollocare la cultura nella sua sede naturale – al centro dell’istruzione universitaria e nei cuori di coloro che ci governano. Ma sta riuscendo a mostrarci perché la cultura conta, e perché la battaglia per conservarla dovrebbe essere combattuta come si deve.>