A B. che con me gioca a scacchi
e che esercita molta pazienza.
Un tempo, diciamo quando Brecht era un autore alla moda, perché tale è anche stato, si è discettato a lungo sulla sua dialettica, quella teatrale, quella poetica, quella “cinese” delle allegorie e parabole del Me-ti, il libro delle svolte. Oggi tanto l’autore quanto l’opera sembrano caduti in disgrazia e forse non solo per cattive ragioni, a ricordarsi di una vecchia lirica brechtiana viene quasi da sorridere: se in inviando poesie dall’esilio sopravvive un certo pathos, una speranza progettuale figurata nel mattone che l’esule si porta dietro per mostrare a chi incontra «com’era stata un giorno la sua casa», nella lirica di poco seguente Visita ai poeti in esilio, appare il corno negativo del dilemma: salutati gli Shakespeare, i Voltaire, gli Euripide e i Dante restano confusi e abbandonati nell’ombra tutti gli appartenenti all’infinita coorte dei non famosi:
Le risa
duravano ancora quando, dall’angolo più tenebroso,
venne una voce: «O tu, li sanno a mente
quei tuoi versi? E quelli che li sanno
si salveranno dai persecutori?» «Quelli
sono i dimenticati», disse, a bassa voce, Dante:
«non solo i corpi a loro, anche l’opere furono distrutte».
Cessarono le risa. Nessuno osava guardare laggiù. Il nuovo venuto
era impallidito.
Brecht ha assunto una sua posizione difficilmente erodibile nella storia della cultura oggi soprattutto come autore di teatro e come teorico teatrale (il teatro epico e lo straniamento fanno, almeno di nome, parte anche del minimo bagaglio culturale della scuola dell’obbligo), anche se ciò naturalmente rappresenta un problema dato che si tratta essenzialmente di storia della cultura borghese o di storia della cultura alla maniera borghese, per la quale l’autodeterminazione delle opere d’arte è spesso abbinata all’idea del grande autore che contiene, inevitabilmente, una buona dose di culto della personalità che tutti assorbiamo e si può sperare, al meglio, che funzioni come vaccino contro le sue versioni più pericolose.
La maggior parte di noi sarebbe più incline a riconoscere che Brecht non gode di buona fortuna e salute: il discredito in cui è caduta la sua opera è direttamente connesso con il tramonto di quelle ragioni che ne avevano favorito l’affermazione, ovvero il tramonto, almeno in Europa, dell’idea di una cultura socialista e rivoluzionaria; se sopravvive sopravvive in forme diverse: la prima è quella di una versione pacificata e depotenziata, come quella che appunto si insegna e che già alcuni interpreti come Cases, Chiarini, Fortini, lamentavano diffusa nelle interpretazioni (da noi divenute canoniche al punto da essere riversate in Dvd e vendute in abbonamento ai quotidiani) del Piccolo Teatro di Milano, la seconda è quella del sinistrismo culturale al quale a volte intellettuali inclinano nel loro tentativo di elaborare un’arte, un’estetica e un sistema di produzione se non proprio conflittuale almeno indipendente dall’industria culturale, ma che troppo spesso si rivela un brechtismo privo di reali referenti, la terza, naturalmente quella preferita dai pochi editori che ancora stampano il drammaturgo e poeta di Augsburg, è quella di sostenere, magari in nome dei versi d’amore, delle descrizioni naturali o di un generico umanitarsimo, la persistenza nell’opera di un Brecht autentico, classico e libero dall’ideologia che ora,
tramontato lo spettro opprimente dell’ideologia, può essere veramente apprezzato: per rendersi conto di ciò basterebbe sfogliare le recensioni all’edizione Garzanti delle Liriche d’amore e altre poesie o quella recente einaudiana delle Poesie politiche, che naturalmente si fonda sul presupposto che vi siano delle poesie non politiche e giù per questa china si scende all’infinito deserto delle antologie tematiche fino alle versioni più grottesche che dimenticano che una poesia è soprattutto una poesia, anche se naturalmente traduce un’intera visione della società.
Probabilmente tutte queste versioni di sé avrebbero fatto inarcare le sopracciglia all’autore la cui crisi è proporzionale allo sforzo teorico e pratico: Fredric Jameson nel suo Brecht e il metodo indica chiaramente una componente didattica e prescrittiva, metodica appunto, nella scrittura brechtiana ben oltre i drammi didattici apertamente e convenzionalmente riconosciuti tali e, ci pare, il XXI non è il secolo che tolleri impunemente queste sfrontatezze, che un autore voglia insegnare e mostrare qualcosa (a stento possono farlo gli insegnanti sospesi tra lesa maestà genitoriale e ostruzione dell’imprenditorialità infantile).
Forse il signor Keuner, figuretta di pensatore materialista, scettico e dialettico inventata da Brecht per una serie di apologhi, ci darebbe ragione: «Colui che non capisce deve prima avere la sensazione di essere capito. Colui che deve ascoltare, deve prima avere la sensazione di essere ascoltato» dice, e il suo creatore non trasmette spesso simili sensazioni, non può, in poche parole, essere ricattato dal nostro senso comune che è, in buona parte, ideologia oggettivizzata inconsciamente; lo immaginiamo benissimo dirci questa cosa con un mezzo sorriso e un’alzata di spalle, rivoltando all’esterno le tasche vuote.
Perché vuote rimangono, a fare così, le tasche dei poeti e non è solo cinismo quello che leggiamo in un passo dei suoi postumi Dialoghi di profughi:
ZIFFEL Questo è Kivi, di cui tutti dicono che bisognerebbe leggere qualcosa.
KALLE Deve essere stato un buon poeta, però è morto di fame. Il poetare non gli ha fatto bene alla salute.
ZIFFEL Ho sentito dire che qui fa parte dei costumi del paese che i migliori poeti muoiano di fame. C’è tuttavia qualche eccezione, visto che alcuni si dice siano morti alcolizzati.
KALLE Vorrei sapere perché l’hanno messo lì a sedere davanti alla stazione.
ZIFFEL Probabilmente come esempio ammonitore. Loro ottengono tutto con le minacce. Lo scultore ha il senso dell’umorismo: gli ha dato infatti uno sguardo trasognato, come se stesse sognando una crosta di pane a sua piena disposizione.
Certo per il giovane e provocatorio scrittore comunista della repubblica di Weimar si è trattato in buona parte di un corpo a corpo con gli eventi della storia, e non è da sottovalutrare che lo stesso signor Keuner sia stato inventato nell’anno della Grande Depressione che gettò sul lastrico la fragile democrazia, sapeva però o credeva meglio di altri che quella fragilità non era frutto del caso, della speculazione o della natura dell’istituzione. Oggi in tempi di crisi della politica abbiamo l’idea della democrazia come una fragile pianticella da proteggere, inerme e benefica e la cui sopravvivenza dipende da noi: la lunga sequela di Margherite, Ulivi e Arcobaleni che hanno contraddistinto il nostro confuso e confusionario moderatismo dice molto. No, la democrazia è un campo di lotta feroce dove non di rado prevale chi ha fatto le istituzioni per proprio vantaggio e per propria sicurezza e che spesso asserve il più debole e per far questo, come la democrazia weimariana, rischia di autodistruggersi.
Prima del Breviario tedesco, le poesie da Brecht dedicate alla Germania nazista dopo il suo esilio prima in Danimarca e poi in Finlandia, vengono idealmente gli epitaffi per gli spartachisti: per sopprimere una sinistra comunista che faceva sempre più paura ai possidenti il governo non esita a lasciare mano libera ai Freikorps e a organizzazioni militari di destra, conservatori e magnati di vario tipo (spiccano quelli dell’informazione come Hugenberg) credevano e crederanno fino all’ultimo di poter manipolare Hitler e i nazisti, anche dopo il ‘33.
II
Già nel 1922, mentre un giovane Brecht dedicava il suo primo dramma importante, Tamburi nella notte, alla repressione degli spartachisti, un altro intellettuale e scrittore per molti versi a lui avverso ed opposto come Thomas Mann pronunciava un vigoroso discorso in difesa della giovane e già pericolante democrazia tedesca.
A differenza di Brecht Mann era un’autorità: aveva già pubblicato i Buddenbrook e Altezza reale, numerose novelle tra le quali La morte a Venezia, Tonio Kroger, Tristano, Sangue Velsungo e soprattutto i Pensieri sulla guerra e le Considerazioni di un impolitico, che qualche mezza dozzina di ragioni incendiarie e un po’ di benzina sul fuoco dell’antidemocrazia l’avevano in effetti gettata. È anche forse per farsi perdonare queste posizioni dubbie che lo scrittore tenne il discorso Della repubblica tedesca, o più correttamente perché, a differenza di tanti suoi colleghi tradizionalisti e conservatori, il conservatorismo di Mann aveva quella connotazione diabolica che più tardi lo avrebbe caratterizzato anche nei grandi romanzi: era capace di rinnovarsi con il moto della storia e non semplicemente di opporvisi; Mann pensava che solo attraverso una piena e convinta adesione agli ideali democratici la più profonda vocazione intellettuale, morale e produttiva borghese (nonché naturalmente i costumi, le tradizioni, le abitudini di vita incluso l’esercizio del potere) potessero preservarsi in maniera attiva di fronte all’irruzione delle masse nella storia e alle complesse esigenze della società del dopoguerra.
Il discorso è tenuto alla presenza del presidente Ebert e in occasione del compleanno dello scrittore e drammaturgo Gerhart Hauptmann, che in qualche modo tutta quella eredità rappresentava ed era non solo in un certo senso un Mann prima di Mann ma anche un Brecht prima di Brecht. Il suo dramma i Tessitori, sulle condizioni degli operai nella Slesia, aveva infiammato le platee popolari di fine Ottocento e rappresentava il primo esempio di teatro epico; Hauptmann però, a differenza di Brecht, non era giunto allo straniamento e l’osservazione giudicante e parziale che chiedeva era quella della parzialità “scientifica” dello studente di sociologia introdotto tra i personaggi del dramma, per noi nella distanza il significato è chiaro: anche quando è autocritica l’estetica borghese è incapace di uscire dalle coordinate di un naturalismo di fondo del quale al più, in forma di ricerca della scienza, prepara la dissoluzione.
È anche questo che Mann elogia nel più anziano collega (che poco più tardi raffigurerà nel Peeperkorn della Montagna magica): il fatto che arte di avanguardia potesse significare ultima metamorfosi dello spirito vitale in spirito nazional-borghese: «il germanesimo poetico di Gerhart Hauptmann secondo il suo sviluppo letterario è umano, ho detto, e non volgare e borghesuccio. Umano, aggiungo, ossia non nazionalisiticamente scempio né nazionalisticamente rozzo e chiassoso, ma liberale nel senso più umanitario, mite nella sua civiltà, dignitoso nel suo amore per la patria».
Tutto il discorso è intessuto sul filo dell’ossimoro, tra socialismo e liberalismo, nazionalismo e umanitarismo, persino monarchia e repubblica dove naturalmente, in questo quadro, la monarchia è soprattutto una primazia spirituale. Conscio della natura delle nuove forze che si muovono nel mondo lo scrittore di Lubecca tenta per i giovani rampolli della borghesia berlinese (che rumoreggiano durante il discorso) un’alchimia senza precedenti della forza fiduciosa nel progresso simbolizzata dall’americano Whitman, uomo del continente giovane e della frontiera, unita alla più pura, misticheggiante e a tratti reazionaria cultura tedesca, che è qui il giovane filosofo e poeta romantico Novalis. Occorreva non proseguire troppo oltre nell’antitesi Kultur-Zivilisation predisposta dalle Considerazioni se si voleva salvare la stessa Kultur dall’abisso della massificazione di ultradestra.
«Come si comporta il romanticismo di fronte al moderno spirito di commercio, allo spirito del traffico internazionale? Non forse con abile destrezza? Non forse come un democratico Whitman, che definisce il complicato genio commerciale dei nostri giorni “non il meno pregevole dei geni”!? Novalis risponde “lo spirito di commercio è lo spirito del mondo. È lo spirito grandioso per eccellenza. Tutto mette in moto e tutto collega. Risveglia paesi e città, nazioni e opere d’arte. È lo spirito della cultura, del perfezionamento dell’umanità”. Signori, innegabilmente questa è democrazia».
Identificare democrazia e sviluppo del commercio e incorporare in essa lo spirito culturale-poetico è, in quegli anni, a proposito di abile destrezza una mossa azzardata, così azzardata che nel 1933 anche Mann divenne, come Brecht, un esule.
III
Non è un mistero che i due non si amassero per niente: l’uno, pieno di spirito borghese e proprietario, discendente di una grande famiglia mercantile e formato su Goethe, Schiller, Nietzsche, Wagner imputava all’altro di essere «in un certo qual modo negligente» cioè, diciamo noi, di aver soffocato il suo talento poetico e drammatico in nome di un espressionismo provocatorio e di una versione del socialismo che, se non proprio pericolosa, al romanziere di Lubecca doveva senz’altro apparire rissosa e poco dignitosa, così diversa dalle qualità ideali raffigurate in Hauptmann. Quanto a Brecht su Mann era, naturalmente, ancora più sprezzante:
«Thomas Mann mi dice di non aver letto Spielhagen. Io però Thomas Mann l’ho letto. Ritengo che, se avesse letto Spielhagen, Thomas Mann avrebbe trovato qualcosa da ridire sullo stile di Spielhagen e forse anche sull’uomo (dato che in confronto a lui Spielhagen è un rivoluzionario); quanto a me, io invece ho qualcosa da ridire sul fatto che si stampino i libri di Mann (e di molti altri). (Se parlo di Mann è solo perché egli rappresenta il più affermato esemplare del fabbricante borghese di libri artificiosi, boriosi e inutili). Ammetto francamente che per impedire la pubblicazione di certi libri sarei addirittura pronto ad affrontare sacrifici finanziari».
Non poteva del resto che essere questa la sua opinione: anche se con un furore anticipatorio che gli anni non avrebbero gratificato, il mondo di Mann è per Brecht inesorabilmente il mondo del passato, per di più di un passato fondato sullo sfruttamento indiscriminato, si sente senza dubbio, nella partita che entrambi giocano con la storia, dalla parte del futuro.
Basterebbe considerare i due diversi esiti dell’esilio per capire come nella realtà le cose fossero assai più intrecciate e complicate: Mann va prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti, dove è accolto con tutti gli onori del caso e alla conferenza al suo arrivo proclama la fede al suo progetto ideale «Là dove io sono c’è la cultura tedesca», Brecht invece annota sul suo diario di lavoro all’8 dicembre 1939, momento in cui si trova in Svezia, dopo essere già stato in Danimarca:
Io possiedo: un rotolo cinese L’UOMO CHE DUBITA, 3 maschere giapponesi, 2 piccoli tappeti cinesi, 2 coltelli bavaresi da contadino, 1 coltello da caccia bavarese, una sedia da camino inglese, catino di rame per lavarsi i piedi, brocche di rame, portaceneri di rame, bacinella di ottone, 2 grandi tavole di Neher LA LINEA DI CONDOTTA, un paio di stampe di IL SIGNORE DEI PESCI di Neher, una fiaschetta di whisky in argento, una pipa Dunhill, CESARE in pergamena, una vecchia edizione di Lucrezio, NEUE ZEIT completa, ME-TI in cuoio, coperta grigia, orologio da taschino, 2 volumi dei VERSUCHE, una macchina fotografica Leica con lente da teatro, calchi in gesso e bronzo della mia faccia e della mia testa, busto della Weigel, una cartella con fotografie, i manoscritti di SANTA GIOVANNA, TESTE TONDE, GALILEO, COURAGE, 2 volumi di pitture di BREUGHEL, taccuino tascabile di cuoio, una borsa da tabacco di cuoio, un cappotto di pelle nero, un vecchio tavolo rotondo.
Non si tratta tanto della differenza tra un esilio dorato e una fuga precipitosa e sempre verso rifugi provvisori, ma di un atteggiamento diverso nei confronti della cultura, della tradizione e del ruolo dello scrittore nel nuovo mondo che si prepara: Mann ha la stessa attitudine verso la proprietà e verso la cultura, egli la rappresenta e la possiede, ne è il risultato più alto e, per così dire, la personificazione mobile nella storia. Lo scrittore è, secondo il romanziere, un reazionario essenzialmente in quanto un difensore degli elementi “umani” e vitali della tradizione e con la sua opera impedisce che cadano nelle mani sbagliate (si possono vedere le lettere scambiate con Kerenyi a proposito del mito e della necessità di non lasciarlo ai nazisti come strumento di propaganda), per Brecht invece la cultura è essenzialmente prodotto e arma del nemico o al massimo infido strumento da ribaltare dialetticamente e non a caso il concetto di ereditarietà e statuto rappresentativo è problematico: Brecht non indica però pochi libri perché non ha potuto portarseli dietro o perché ne ha letti pochi, non si può e non si deve mai scambiare la critica della cultura borghese per rifiuto della cultura stessa o della formazione intellettuale, prima di tutto perché la critica della cultura è un fenomeno o un attitudine che si sviluppa con la formazione intellettuale e morale e non si può dare senza (è sempre autocritica della cultura) e in secondo luogo perché, direbbe con spirito Brecht, la cultura è una cosa troppo seria per lasciarla solo agli intellettuali, sarebbe come lasciare la politica ai politici e l’economia agli economisti, non c’è da aspettarsi niente di buono. Tuttavia noi oggi siamo previdenti e abbiamo deciso di abbattere la divisione del lavoro: gli economisti sono liberi di esprimere la propria personalità integra in ogni campo dell’azione umana.
Le opere che il drammaturgo dice di possedere sono essenzialmente quelle che ha scritto (Lucrezio è un’eccezione che vale solo come modello per il suo poema sul Manifesto del Partito comunista, ma è un’eccezione significativa trattandosi forse del maggiore esempio occidentale di poesia didattica), perché sono gli uomini che formano la storia della propria tradizione e non ne sono solo passivamente determinati. È stata anche questa convinzione a dettargli il memorabile intervento a Madrid nel 1937: «La cultura che a lungo, troppo a lungo è stata difesa solo con armi spirituali, ma attaccata con armi materiali, questa stessa cultura che è essa stessa una faccenda non solo spirituale ma anche, e anzi prima di tutto, una faccenda materiale, deve essere difesa con armi materiali».
IV
Brecht era un non disprezzabile scacchista, alcune foto ce lo ritraggono, forse nei primi giorni dell’esilio danese, giocare con l’amico Water Benjamin, dalle foto e da qualche ricordo si può intuire che Benjamin fosse all’attacco ma un po’ scoperto su un lato e Brecht si stesse difendendo da qualche mossa per preparare una posizione più avanzata; due esiliati che giocano a scacchi e sull’orlo di una catastrofe mondiale si prendono il tempo di studiare le mosse dell’avversario.
Gli scacchi si fondano, come noto, su un insieme di mosse, codificato e vastissimo ma finito, che si possono fare con i pezzi sulle case della scacchiera e naturalmente aspetto chiave del gioco è conoscere le combinazioni possibili da realizzare e saper predire il più a lungo possibile la catena di mosse e contromosse, se possibile influenzandole: un buon giocatore (quale non è chi scrive) muove i pezzi dell’avversario non meno che i suoi. Non si sarebbe potuta trovare metafora migliore per quella dialettica della quale l’uno e l’altro erano attenti studiosi e che cercavano di utilizzare come chiave di azione politica (si dice che il gioco degli scacchi piacesse, guardacaso, anche a Lenin); non sappiamo in effetti se anche Mann ci giocasse, Der Zauber, il mago, era piuttosto il suo soprannome per via delle storie che, da grande intrattenitore di un’arte narrativa che prende a materiale l’intero mondo, inventava per la sua numerosa famiglia (da noi aveva lo stesso soprannome e per ragioni non troppo dissimili Pascoli).
L’esercizio dialettico degli scacchi dovette aver insegnato a Brecht la pazienza e a volgere nelle proprie mani quella che ancora il pensiero borghese chiamava astuzia della ragione, più ancora dovette avergli insegnato il senso della responsabilità e il prezzo delle proprie azioni (non c’è pezzo mangiato che non sia anche lasciato mangiare); da un’altra grande lirica dell’esilio per buone ragioni:
Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto ed educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né esser servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
con la gente del basso ceto.
Così hanno allevato un traditore, istruito
nelle loro arti; e costui
li tradisce al nemico.
[…]
Dove giungo, sono uno marcato a fuoco
per tutti i possidenti; ma i nullatenenti
leggono il mandato di cattura e
mi concedono un rifugio. Quelli, io sento
dire allora, per scacciarti avevano
buone ragioni.
Nel 1938, anno di quella partita a scacchi, si tenne la conferenza di Monaco nella quale, una volta di più, Francia e Gran Bretagna capitolavano alle richieste tedesche e di fatto avallavano l’annessione della Cecoslovacchia al Terzo Reich e ai suoi alleati; in Spagna la guerra volgeva al peggio per i repubblicani e Mann, dalla Svizzera, pubblica una raccolta di saggi etico-politici dal titolo Attenzione Europa! che si aprono con lo scritto L’altezza dell’ora, ma il concetto di responsabilità di Mann è assai diverso da quello brechtiano: «La vittoria del fascismo è forse la sua autoabolizione […]. No la via battuta dalla “storia” fu così sudicia, così putrida di menzogna e di bassezza che nessuno ha da vergognarsi d’essersi rifiutato di percorrerla. Chi sa infatti se attraverso simili orrori essa non condurrà a un punto tale da farci sentire pienamente giustificati? Non temete! Verità e ragione possono bensì essere oppresse esteriormente per un periodo nero, ma in noi rimangono eternamente libere e dalla serena altezza dell’arte lo spirito può ridersi dell’assurdo che vince, e non già in solitario abbandono, ma in sicura alleanza con tutti i migliori».
Soprattutto dopo l’uscita di questo volume, che ebbe una certa eco nel mondo intellettuale europeo, Lukács, quel Lukács che proprio mentre codificava il realismo e diventava un punto di riferimento dell’estetica marxista affollava anche gli appunti (non sempre benevoli) dell’esilio danese di Brecht, decide, come si suol dire, che Mann è il suo uomo: in lui meglio che in ogni altro ritroverà le grandezze e i problemi dell’intellettuale borghese che passa nel campo democratico (che per il filosofo ungherese coincide quasi sempre con il campo socialista per estensione di questo) e si rivolgerà più volte alla sua opera in vari saggi elaborando sostanzialmente su di lui la categoria di realismo critico.
Non poteva piacergli troppo Brecht per le stesse ragioni per cui non piaceva a Mann (ma si ricrederà in tarda età) e il poeta era, lo si vede dai diari, spesso perplesso di fronte alle pagine di quel filosofo che si impegnava a riabilitare, indagare, innalzare a modello proprio ciò che lui avrebbe istintivamente demolito.
Quando in quell’estate un Benjamin presumibilmente trafelato e confuso deve avergli portato le bozze e gli appunti di quel saggio su Baudelaire come poeta lirico nell’età del capitalismo, saggio che rimarrà in forma di appunti sparsi come quasi tutte le opere di Benjamin, Brecht si è invece mostrato cauto ma decisamente più interessato: fosse per la questione della «crittografia della merce» e della periferia metropolitana che anche lui aveva rappresentato nei suoi drammi giovanili o per la perdita di aura dell’opera d’arte che aveva più di una affinità con la critica della cultura e l’innovazione del teatro brechtiana non è del tutto dato sapere, ma certamente dovette fargli piacere leggere l’amico che ne analizzava la fine mentre Mann e i democratico-borghesi insistevano, a parer suo, nel vedersene circondati, fosse anche per il bene dell’umanità, e a volte erano persino aiutati da marxisti dichiarati.
V
Si sarà capito che lo scopo qui non è scrivere un trattato di germanistica (e anzi ai germanisti di professione dovrei chiedere scusa di un tono colloquiale e di conversazione saggistica), tanto più che le cose di cui ho parlato e che ho raccontato non sono estranee a molti, ma qual è allora il senso di queste figure e di questi avvenimenti? Io credo si debba resistere tanto allo specialismo che pensa di dover spiegare gli scritti e gli autori quanto al gesto di ripulsa che caccia queste figure e le loro pagine in un mondo lontano come le date sui loro diari e fatto di quella cultura che alcuni di loro si portavano dietro come la camicia indosso e molti di noi, se non tutti noi, oggi ormai no.
La domanda non è solo come si spiega Brecht, ma deve anche essere cosa spiega Brecht: possiamo vedere tutti questi sforzi come le mosse di una partita a scacchi con la storia per mantenere vivo il potenziale di verità dell’opera, tanto se si gioca con la strategia di Brecht, quanto se si propende per quella di Mann, entrambi hanno visto cambiare il mondo e sono passati «tra le battaglie» ma la fine potrebbe sorprendere. Brecht può tornare in Germania perché torna in una Germania che prima non c’era, non solo nel senso più banale del fatto che si tratti della Repubblica Democratica Tedesca, cioè di uno stato socialista (verso il quale anzi, e segnatamente verso il partito, Brecht fu molto critico negli ultimi anni), ma perché si trattava di una Germania che, a suo giudizio, faceva di cultura e umanità soprattutto un futuro, un patrimonio da edificare.
Mann, il difensore, nonostante fosse accolto in Europa come una gloria e probabilmente per alcuni anni divenisse lo scrittore più importante e influente del mondo, non tornò in Germania ma restò in Svizzera perché quella Germania che difendeva, la Germania della civiltà borghese, non c’era più, restava solo nella sua cultura e nel passato. Montale, di sentimenti simili ma caratura e classe inferiore, scriverà che la civiltà dell’uomo medio borghese, l’individuo, è stata sostituita dalla «civiltà degli altoforni e dei frigoriferi».
Sono facili da irridere come spesso lo sono i morti, la cui morte diventa spesso una colpa agli occhi di chi vive nell’ovvietà del futuro: l’abilità strategica di Brecht nell’evitare che la sua opera diventasse troppo facilmente un digestivo per i borghesi non ha impedito che di essa si perdesse la memoria e che cadesse nel momento in cui le ragioni politiche che la sostenevano parevano indebolirsi agli occhi del mondo occidentale che lo aveva letto e amato; i temi di Mann sono essenzialmente i temi dell’individualità borghese e oggi è un autore più citato che letto: i suoi romanzi, dal postnaturalistico I Buddenbrook decadenza di una famiglia all’ultimo: Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, sono decaduti con le famiglie e scomparsi con i cavalieri d’industria (e oggi giustamente cavaliere detto di un industriale non suona sempre alle nostre orecchie un complimento), probabilmente se inviati a una casa editrice italiana oggi sarebbero respinti come illeggibili o fatti oggetto di pesanti tagli. Certo giocare a scacchi insegna a pagare le proprie azioni, ma se l’avversario è la storia non si può essere troppo sicuri del listino dei prezzi.
Quello che resta risponde in qualche modo a un non ancora, ci potranno sempre essere anche per noi una società e una cultura da costruire, valori da salvare e da difendere e quelle pagine e quelle vite staranno comunque là per essere ancora caricate di significato. Molto di ciò che determinò le loro scelte ha mutato per sempre di forma, ma allora il compito di una letteratura oggi, la mossa di apertura che sulla nostra, più modesta, scacchiera possiamo fare. e che forse facciamo conversando con gli amici in attesa che la storia disponga di noi, potrebbe essere ricercare che cosa abbia preso il loro posto e in quale modo i nuovi conflitti oggi configurino nuove idee del mondo e della società entrando in contrasto con i valori per noi dominanti.
A tenersi troppo saldi al vecchio mondo c’è il rischio di finire identificati con esso e lasciar muovere all’avversario i nostri pezzi: Hauptmann resta in Germania e gode anche di una certa stima come gloria nazionale, le sue parole contro il nazismo sono sibilate in silenzio o nascoste nel forziere eterno dei valori classici, come in quella Trilogia degli Atridi che è la sua ultima opera, conclusa sotto i bombardamenti prima di essere espulso dal governo Polacco dalla sua dimora; morendo chiederà «sono ancora a casa mia?» ma la vera casa è l’esilio e Mann, che lo ha imparato a sue spese, più di vent’anni prima fa morire suicida il suo alter-ego Peeperkron, quello che resta è una maschera.
Nel 1940 Günther Stern porta a Brecht una copia di un saggio di Benjamin rimasto incompiuto prima di fuggire, in quanto ebreo, in America dove cambierà cognome e si chiamerà per sempre Anders, con un cognome che in tedesco suona vagamente “l’Altro”, il saggio è noto come Sul concetto di storia e comincia con una partita a scacchi:
«Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste di turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato «materialismo storico». Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno».
L’amico, notava giustamente Brecht «irride l’idea della storia come progresso»: se deve sempre vincere vince per rotture impreviste che vanno oltre le nostre intenzioni e forse oggi non possiamo non essere simili a lui, più in ritardo che in anticipo ma senza sapere a che velocità la storia corre.
Già solo il voler cercare un senso in queste storie potrebbe essere velleitario, possedere la cultura oggi non è un modo per salvarla e non ci garantisce di essere a casa nostra nel tempo, ma noi non ne possiamo fare a meno, con gente così ci vuole pazienza perché a logorarci siamo soprattutto noi.