La differenza tra il nostro alfabeto e quello di Dio è che il nostro ha uno scopo, mentre quello di Dio è puro gioco. Questa affermazione di Abramo Levi (Cristo mia dolce rovina, 1996) è legata alla riflessione che Levi fa, in quel saggio sulla vita e sulla figura di Turoldo, quando definisce il frate come “una croce in movimento”. D’altronde quando Padre Davide passò sotto le attenzioni dell’Inquisizione, ne uscì un chiaro suggerimento: “fate circolare questo frate, perché non coaguli”.
Pensavo, stamani, al nomadismo forzato di un uomo che, a volte soffrendo molto, si è lasciato giocare da quelle forze che lui chiamava, senza alcuna vergogna, “mio Signore e mio Dio”. Mettendo a disposizione non solo la sua voce, la sua penna, ma, prima di tutto, il suo corpo intero.
Fu lui ad affermare, in uno scritto giovanile, che per Dio la creazione “non fu altro che divino gioco.” Da questa consapevolezza, che ebbe appunto sin da giovanissimo, si snoda la sua relazione poetica con Dio, con il creato e con il corpo nel suo esserci, nella sua materialità. Certo un gioco terribilmente serio, con poco spazio per l’ironia, perché Turoldo aveva ben compreso che in quel gioco ogni cosa, anche le più terribili, ha un posto: l’incomunicabilità, la precarietà, la sofferenza innocente e, insieme, la continua ricerca. Questa ricerca, le sue domande, ci riporta insomma a quello scopo inevitabile (una sorta di coazione) del nostro alfabeto: cercare di dire in ogni caso, di com-prendere, di chiedere come fossimo dei mendicanti eterni. Questi due piani, il gioco divino e lo scopo dell’uomo, si incontrano, se così si può dire, nel corpo (e solo secondariamente negli esseri e nelle cose della natura).
Per quel che so il rapporto fra corpo e parola, è fra quelli meno indagati nella poesia di Turoldo. Azzardo solo una riflessione. Per lui, sin dai primi scritti filosofici d’età giovanile, la parola è, per l’essere umano, una condanna. Scrisse infatti in una sua meditazione (I valori e l’Essere): “Così la vita è un continuo sforzo a esprimersi, a comunicare un’idea semplicissima con la molteplicità infinita dei nostri termini intricati e inadeguati; così alla fine restiamo (moriamo) con la Parola che ancora non abbiamo saputo dire”. Quale sia questa parola, non lo so. Ma nel giorno in cui essa tace (la vigilia di Pasqua è questo silenzio), c’è una poesia a me particolarmente cara, fra le più belle che Turoldo scrisse, che mi suggerisce di romperlo il silenzio, perché mi pare indicare una pista di lavoro, quasi un cammino iniziatico, si potrebbe dire. Il testo si trova in uno dei suoi due capolavori, Canti Ultimi (l’altro, per me, è Mie notti con Qoelet).
Qui, fra questi versi, il corpo si svela parte di una creazione, àncora che ci tiene, ponte attraversato dagli infiniti echi di una domanda. Il gioco è gioco. Sta a noi la scelta: se giocare (o meglio lasciarsi giocare) oppure no. Sapendo che, in questo caso, le regole non le decidiamo noi.
Se nessuna forma bellezza incorpori
Se nessuna forma bellezza incorpori
e di un suono almeno la stessa
mente non avverta un eco
e ancora il pensiero un riverbero
di luce non colga: non certo
dalla Fonte -, non colga dico
appena un riflesso sul «miro gurgite»,
se corpo nessuno vi sia, anche là,
e riparo dall’abisso, già ora
la più nera oscurità ti divora.
È assoluta
la necessità dell’Immagine!
Il corpo: la scialuppa che ti salva
sull’oceano del Nulla.
***
Dio e il Nulla – se pure
l’uno dall’altro si dissocia –
senza voce sono nell’assenza.
Cristo, corpo di Dio, coscienza
della Terra, figlio
della Bellissima, nostro
ultimo esistere!
***
Anche la morte sarà
un emigrare di forma in forma
nel grande corpo dell’universo.
Corpo, spirito che si condensa
all’infinito…
nostro corpo
cattedrale dell’Amore,
e i sensi
divine tastiere…