“Beati gli inquieti”. Intervista a Stefano Redaelli

di Michele Bordoni

Stefano Redaelli è professore di Letteratura Italiana presso la Facoltà di “Artes Liberales” dell’Università di Varsavia. Addottorato in Fisica e Letteratura, s’interessa dei rapporti tra scienza, follia, spiritualità e letteratura. È autore delle monografie Nel varco tra le due culture. Letteratura e scienza in Italia (Bulzoni, 2016), Le due culture. Due approcci oltre la dicotomia (con Klaus Colanero, Arcane, 2016), Circoscrivere la follia: Mario Tobino, Alda Merini, Carmelo Samonà (Sublupa, 2013) e di numerosi articoli scientifici. Ha pubblicato la raccolta di racconti Spirabole (Città Nuova, 2008) e il romanzo Chilometrotrenta (San Paolo, 2011). Il romanzo Beati gli inquieti è stato secondo classificato al “Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2019″. L’abbiamo intervistato in esclusiva per Nuova Ciminiera.

 

Quello che veramente volevo dire e fare era scrivere un romanzo.
Un romanzo è ciò che non può essere detto in un altro modo.
Scrivo un romanzo perché tutte le spiegazioni, i saggi,
i balbettamenti da intervista, non possono suscitare
le stesse riflessioni spinte e urgenti
e magari rivelatrici
della lettura.

 

MB – “Da anni conducevo ricerche sulla follia. Avevo letto migliaia di pagine di romanzi, saggi, articoli, ma studiarla non mi bastava più: volevo vederla da vicino, sentirla, parlarci”. Queste sono tra le prime frasi che aprono il tuo nuovo romanzo, Beati gli inquieti (Neo, 2021, 208 pp.) La tua esperienza universitaria è molti simile, sei professore di Letteratura Italiana all’Università di Varsavia e ti occupi di follia nella letteratura: potresti parlare di questo aspetto, di questa volontà di vedere la follia?

SR – Le parabole del protagonista e dello scrittore sono capovolte. La volontà di vedere la follia da vicino, nella realtà, precedeva quello dello studio. Voglio raccontare come nasce questo libro; nasce da un invito, 14 anni fa, di un’amica che, insieme ai suoi amici della comunità di S. Egidio, frequentava una comunità di cura psichiatrica e stava facendo una esperienza di integrazione e di amicizia. Questa esperienza era fatta di diari e lei mi chiamò dicendomi : “Ti do questi diari, tu sei uno scrittore: trasformalo in un romanzo, vinci un premio letterario e dona i soldi alla comunità”. E era un invito folle, ma bello come lo può fare un’amica, che ho raccolto pur rendendomi conto che non avrei potuto scrivere basandomi sui diari degli altri. Volevo scrivere su qualcosa che conoscevo e così ho cercato un centro di riabilitazione psichiatrica a Lanciano, la mia città d’origine, e l’ho trovato. All’inizio con l’idea di poter scrivere un libro, anche facendo una richiesta buffa come quella del libro, dicendo che la follia la stavo studiando e volevo vederla da vicino; in quel momento si è aperto un mondo di persone, di pazienti, di un linguaggio completamente diverso (mi ricordo che sono stato accolto sull’uscio con un grido che poi ho voluto conservare nel romanzo: “si può costruire nel deserto” e io, studioso di letteratura, mi sono sentito folgorato da questa metafora invece da un “buongiorno mi chiamo…”). Da allora ad oggi non ho smesso di frequentare questi pazienti che sono diventati miei amici. Ho trascorso periodi anche lunghi, fatto dei viaggi con loro, delle feste. Via via, mentre nasceva una relazione di ascolto e di amicizia, una disposizione ad accogliere qualcosa che non capivo ma che ha un senso, è nato anche il desiderio di studiare per poter capire quello che stavo sentendo e sperimentando. E così sono andati di pari passo gli studi letterari sulla follia – oggetti del dottorato – e poi di progetti di ricerca universitari. È  stato un po’ un aiuto e un supporto per sostenere l’esperienza. In realtà io non riuscivo a scriverlo questo libro, perché raccoglievo tanti discorsi, lettere, poesie, frammenti, ma mi sembrava che scrivere il libro sarebbe stato un tradimento perché quello non era più il fine, il fine era entrare in questa disposizione di ascolto. In un certo senso la paura era che scrivendo il romanzo sarebbe finito tutto. In mezzo a tutto questo ci sono state altre cose da fare, il lavoro accademico, altre urgenze narrative, un altro romanzo uscito prima. Solo pochi anni fa si sono create le condizioni per potermi raccogliere e per separarmi dal materiale raccolto perché poi la narrazione letteraria richiede una distanza. Dovevo scrivere un romanzo, non un reportage; una fiction che si permea dentro un ascolto e di frammenti qua e là di cose che ho realmente sentito.

MB – “Posso fidarmi di lei?” Questa frase ricorre spesso nel romanzo, e sottintende un doppio patto, finzionale (come ogni romanzo) e terapeutico (il protagonista, per scrivere della follia all’interno del centro psichiatrico del libro, deve sottostare alle cure degli altri pazienti). Letteratura come cura, si può pensare. Ma cura di cosa? cura efficace?

Sono cose, la letteratura e la psichiatria, in questo romanzo, ipotizzate come alleate. Il patto finzionale che si sovrappone al fatto terapeutico suggerisce un’alleanza. Sono patti diversi ma possono andare di pari passo. Del resto, in letteratura italiana, ci sono molti scrittori che hanno convissuto con la follia e hanno trovato nella scrittura una forma di terapia. Sto pensando a Mario Tobino, che era uno psichiatra interno a un manicomio e romanziere, per cui – essendo medico e non paziente – la scrittura era uno strumento terapeutico che gli consentiva sia di fargli forza nel suo lavoro, come diario e come luogo in cui tenere insieme la propria identità al proprio mestiere (che era sul fronte della psichiatria pre-basagliana in condizioni manicomiali con una serie di disagi mentali che allora si conoscevano molto poco e non si potevano trattare) che voleva umanizzare. La scrittura era un modo per affrontare il suo mestiere e il suo paziente. In secondo luogo era un modo per sensibilizzare la società: lui dice che scriveva per mostrare agli uomini qual è la vita dei matti e di cosa hanno bisogno, per far conoscere la propria umanità. È una funzione terapeutico-sociale, per portare agli occhi e alle orecchie della società che si copre gli occhi e le orecchie una storia, una fetta grandissima di umanità che chiede ascolto e dignità. In terzo grado anche, la scrittura era per Tobino un penetrare nella malattia mentale; le descrizioni dei folli e dei deliri nei suoi romanzi sono ancora oggi emozionanti, non finalizzate a fare una diagnosi psichiatrica, ma ad ascoltare, a penetrare l’anima del paziente, la sua interiorità, cosa sta dicendo quell’uomo in posa catatonica, come una statua, oppure un altro nel suo delirio di negazione durante il Fascismo… È stato sicuramente terapeutico scrivere per tutti gli internati, Alda Merini ne ha dato una grande prova nel suo Diario di una diversa. La poesia l’ha aiutata a uscire dall’inferno, ha trasformato il manicomio in terra promessa e ha trasfigurato un’esperienza devastante che, in quanto non colpevole e immacolata, rendeva gli innocenti dei martiri. Scrivere dopo gli anni di silenzio – anche grazie all’aiuto di un dottore, il dottor G – le consentì piano piano di mettersi davanti a una macchina da scrivere e di produrre versi poetici per ritrovare la sua voce, per guarire. Lei distingue la malattia dalla poesia: la poesia è l’uscita dalla malattia. Del resto Levi stesso diceva che si scrive, tra l’altro, per liberarsi da un’angoscia. Quindi sì, questo aspetto terapeutico nella scrittura c’è, anche a prescindere dal disagio mentale. La scrittura è una ricerca di ordine e di forma nell’entropia (Calvino), ma quando la scrittura si confronta con la follia e il disagio mentale sicuramente questa parola letteraria può essere di aiuto. È uscito da poco un libro, L’arte di legare le persone di Milone, uno psichiatra, scritto in modo originalissimo, dove lui racconta il suo mestiere di psichiatra e si sente che – fra le righe – la parola lo ha aiutato a fare meglio il suo mestiere. Quindi sì, c’è una proposta di vicinanza tra terapia e letteratura; non una sovrapposizione, ma un’alleanza (si parla di biblioterapia in questo romanzo). Alcune esperienze non si potrebbero esprimere perché anche il linguaggio si è ammalato; magari, grazie alle parole della letteratura, è possibile dare una forma alle proprie emozioni, ai propri dolori , alla propria spaccatura e scissione. C’è una fede nella possibilità terapeutica della scrittura e dell’arte.

Stefano Redaelli

MB – “La follia è la sorella sfortunata della poesia”. A un certo punto citi questa frase di Clemens Brentano. Nel libro sono presenti molte citazioni poetiche, addirittura alcuni personaggi scrivono poesie per conto proprio. Poesia, in realtà, ha qui un valore più ampio, e può significare, in generale, Arte. Questo libro, anche per l’utilizzo molto vario di diversi generi letterari, può essere visto come il tentativo di rendere artistica la follia, di renderla meno “sfortunata” e di conferirgli più dignità?

C’è questa ricerca dimostrata da grandi scrittori folli (Hölderlin, Artaud, Nietzsche) che quando la parola si spinge troppo oltre la soglia dell’abisso, sia la poesia che la filosofia lambiscono la soglia del sacro, del fuori. Il linguaggio della follia e quello della letteratura e dell’arte non sono collegati da un rapporto di causa effetto (è un’idea superata, non bisogna essere folli per creare o scrivere) però c’è qualcosa, in questi due movimenti, di allontanamento dalla norma e dalle certezze spingendosi verso degli abissi e anche verso il sacro che accomuna e che rende parenti il verso del poeta e il grido del folle. Questo romanzo un po’vuole, non dico ribaltare la frase di Brentano, ma diminuire la sfortuna, di rafforzare il rapporto di sorellanza, di cancellare la sfortuna che poi sfocia nella sofferenza. La dignità e la profondità delle intuizioni di certi deliri possono sorprendere per la quantità e la qualità di senso che celano dentro la loro apparente assurdità. È stato fatto nel romanzo un lungo lavoro di studio e di ascolto di cose assurde e spesso prive di forma e al contempo di ciò che la letteratura sulla follia ha organizzato in forma artistica. La soglia dell’opera – Foucault – è l’allontanamento dalla follia. La forma artistica distingue l’arte dalla follia, dall’impossibilità di comunicazione perché la parola del folle è ineffabile o esplosa. La forma artistica riscatta la follia forse anche dandogli esprimibilità, possibilità di dirsi e di manifestarsi.

 

MB – Il rovesciamento (da Bachtin in poi) è uno dei moti ormai classico della follia. Il folle rovescia, mette all’incontrario. Nel tuo libro, dove fin dal titolo si avverte un forte sostrato biblico e spirituale, si arriva a rovesciare uno dei testi più apparentemente avverso alla religione come l’Anticristo di Nietzsche. Il passo è: “…è una grande malattia il cristianesimo […] In quel che resta dei manicomi il discorso dell’Anticristo è trasparente, le beatitudini sono evidenti”. Qual è la forza dirompente della follia, la sua spiritualità, la sua beatitudine?

Domanda difficilissima, di quelle che rispondere in modo netto è come dare una netta definizione di cosa è la follia. Mi sono posto molte volte questa domanda scrivendo. Non volevo arrivare a capovolgere Nietzsche ma è finito nell’elogio dei beati, insieme a Cristo e agli altri pazienti, lui che ha scritto quello che ha scritto. L’Anticristo si offre perfettamente alla beatitudine dell’inquietudine, in questo elogio della fragilità. Borgna e Buonomo, nel loro Elogio della depressione, dicono questo, che bisogna ascoltare le fragilità, ma invitano non la malattia, ma quali discorsi ci sta dando, dicendo, facendo la depressione nostra o altrui, cosa sta chiedendo alla società, perché questa fragilità è vietata, è la grande colpa. Il Vangelo dei primi tempi, il Vangelo preso alla lettera dell’amore al prossimo, della condivisione dei beni, dell’amore della croce nel senso di avere la capacità di vedere nel dolore altrui il dolore primo di Cristo, la divinità crocifissa fragile, Dio stesso che sembra fallire sulla croce, questa onnipotenza di dio che il cristianesimo crocifigge, mostrandoci un Super- Io super sconfitto; tutto questo per me porta dentro di sé, approssima la follia. Sicuramente sono cose diverse però c’è questa provocazione, questa contraddizione così profonda di due cose, l’onnipotenza e la morte che coesistono così come degli assurdi opposti nell’esperienza della follia. Parlando di beatitudine nel romanzo penso a qualcosa di intatto, che si conserva, una umanità che è così ingenua, così sensibile che fuori da luoghi protetti non saprebbe stare al mondo, verrebbe divorata, violentata, abusata. Fa paura dire questo, perché è nel mondo che viviamo, non in luoghi protetti. Lo stolto di Cristo, lo yurodivy, il folle santo, fanno sentire la provocazione, ci mettono in crisi; dobbiamo cercare la felicità in criteri norme prospettive di successo di affermazione di potere, oppure in valori e in strade totalmente contrapposte, rischiose, spirituali o non necessariamente religiose? Non ti ho risposto, ho girato più che intorno dentro. Il sostrato del discorso, si sente, è dostoevskiano; mi ricorda molto il principe Myschin dell’idiota, che è Cristo. Una spiritualità russa, delle origini. Forse gli anni in Polonia hanno influito; lo stesso Krzysztof Kieślowski, regista polacco agnostico è capace di una grande spiritualità nei suoi film.

 

MB – Quanto è difficile parlare di follia anche a quaranta e passa anni dalla Legge Basaglia? Come vedi la società da questo punto di vista?

È diversamente difficile per molti motivi. Ne dico alcuni. È difficile non solo per la società ma per chi ne deve parlare. È difficile e sempre lo sarà, perché ancora oggi non è chiaro definire l’inizio della malattia e del senso, dove c’è una sofferenza patologica e dove una sofferenza ontologica, umana. Questo discrimine ad oggi non è evidente, e gli psichiatri più aperti sanno che ci sono vari paradigmi, quello organicista dice che sia questione di “qualcosa di rotto” nel cervello, quella sociogenetco vede che gran parte dei problemi psichiatrici siano generati dal tipo di vita e di contesto in cui ci si trova…ogni tipo di interpretazione richiede una cura diversa (psicoterapia, farmacologica, etc…) Non c’è cura che ci metta in pace con la follia, perché è qualcosa che ci spacca, che ci chiede di rinunciare alle nostre certezze e ci chiede di mettere in discussione tutto ciò che riteniamo norma, senso e sensatezza per catapultarci chissà dove.
Molto più banalmente prevale ancora lo stigma della malattia mentale. La malattia (se la consideriamo anche come depressione, bipolarismo, psicosi) colpisce un venti, forse un trenta per cento della popolazione, molto più di tante altre malattie, ma ci si vergogna di parlarne. Il disagio mentale è taciuto e vissuto da chi lo ha come una grande maledizione, e la società intorno sceglie di non dirlo; se lo prendono in carico  la famiglia, gli amici, le case di cura. Ancora oggi dopo 40 anni dalla legge Basaglia la malattia mentale è esclusa dalla società perché ci mette in crisi, ci fa capire che qualcosa non è andata bene, non solo nella vita del paziente ma nella nostra, nel mondo che abbiamo costruito e che costruiamo. Non esistono i manicomi, certo. Come dice Borgna si pratica oggi una psichiatria umana, gentile, e ho trovato nel centro di riabilitazione psichiatrica di Lanciano una grande cura nel lavoro terapeutico, di gruppo, una grande umanità. Però, contemporaneamente, ho visto un grosso grado di separazione che mi ha fatto pensare che molte cose non sono cambiate: ho visto che non si c’era nessuno che andasse a trovarli, neanche i familiari. Io sono diventato un grande amico perché andavo spesso lì, a leggere libri, ad ascoltarli, a dar loro una presenza fisica. Non c’è osmosi, ma disinteresse, e spesso una carenza di strutture psichiatriche, di fondi che permettano di fare attività terapeutica per integrare la vita dei sani e dei malati, per dare a tutti la possibilità di creare una società unita, non separata tra sani e malati, perché ognuno di noi passerà il confine fra malattia e sanità, mai netto nella follia. La follia è un gorgo di salute e malattia, le due cose si intrecciano e si ingorgano.

Qualche brano da Beati gli inquieti:

***

Parcheggiai davanti al cancello, scesi dalla macchina e rimasi qualche istante a guardare la villetta attraverso le sbarre.
S’intravedevano uno spiazzo con qualche macchina e un furgone, un vialetto asfaltato, una casa gialla, alberi e siepi lungo tutto il perimetro. In mezzo al cortile scorgevo figure umane dai contorni vaghi, immobili, più simili ad alberi che a uomini.
Sul citofono c’era scritto casa delle farfalle.
Esitai prima di suonare.
Provavo uno strano disagio. Intuivo che era quello il luogo che stavo cercando: lì dentro avrei trovato le risposte. Eppure, avevo il sospetto di non conoscere le vere ragioni che mi spingevano a varcare quel cancello.
Esito anche adesso nel consegnarvi queste pagine: temo che ne travisiate il senso, oppure non le leggiate fino in fondo.

Posso fidarmi di voi?

 

***

 

La follia è inaccessibile, neanche uno psicanalista ci capisce niente. Nel mondo il folle vive nel buio. Agli scrittori direi che la follia è inutile che la descrivano perché è come la luna piena, più la guardi più ti attira più la trovi squallida. È squallida, ti fa emarginare dalla società. Ti fa vedere il mondo diverso da come lo vedono gli altri. È squallida perché si è soli. Si è mondi isolati. Si è tante isole.

E ora ditemi se questo è un discorso folle.

Dite che è folle, se avete coraggio.

Chiedetevi se avete mai guardato la luna piena così a lungo, con tale intensità e immedesimazione da sentirne la solitudine siderale, se qualche volta, nella vostra vita, siete passati dall’attrazione allo squallore.

Se l’avete fatto, avete il diritto di esprimere un giudizio sulla follia, su voi stessi, sulla vostra isola

***

«Che cosa sei venuto a fare qui dentro. Vuoi rispondere a questa domanda una volta per tutte?»

«Sono venuto a scrivere un libro».

«E ora che lo hai scritto?»

«Non ho ancora finito».

«Sii sincero. Cosa sei venuto a fare?»

Mi guarda dritto negli occhi, non mi posso nascondere, accetto

la sfida.

«Cerco risposte».

«Le hai trovate?»

«Non ancora».

«Eppure sei vicino».

«Credo anche io».

«Lo sai perché non le hai trovate?»

Lo lascio proseguire, ha lo sguardo radioso del profeta.

«Perché ti sei posto le domande sbagliate».

Mi ripeto nella testa le domande con cui sono arrivato alla Casa delle farfalle: dov’è finita la follia? perché nessuno frequenta i folli? si può guarire dalla follia? che cos’è la follia? Sono domande fondamentali, eppure capisco che Angelo ha ragione: non sono le vere domande. Capisco e ho paura. Temo di fare l’unica domanda sensata. Vorrei fuggire dal suo ufficio con una scusa qualunque. Ma non posso. Sono inchiodato davanti a lui, pendo dalle sue labbra. È come se mi avesse condotto giorno dopo giorno a questo preciso momento, scoprendo una dopo l’altra le carte, educandomi al suo linguaggio simbolico, agli enigmi, alle immagini.

«Quali sono le domande giuste?»

Angelo mi guarda con tenerezza e comprensione, più che trionfare, sembra impietosito, percepisce il mio tremore, onora la mia resa.

Le domande giuste sono tre:

1) sono io folle?

2) come sono finito qui dentro?

3) ne uscirò mai?

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