Sono tre. Sono amici. Sono amiche anche le loro famiglie. Sono cresciuti, si può dire, insieme. Come fratelli di sangue. Sono giovanissimi. Nessuno dei tre arriva a vent’anni (come dire che, sommati insieme, non fanno un pensionato italiano). L’avrebbero fatto ai tempi della cosiddetta “baby”, ma loro non sanno nemmeno di che si tratti. E di certo la pensione non è il loro obiettivo primario. Probabilmente nemmeno l’ultimo, sempre che per quel tempo esistano le condizioni per poter andare in pensione.
Si chiamano Emanuele, Daniele e Matteo. Sono sportivi (il primo arbitro di calcio, il secondo e il terzo calciatori), non sono fidanzati (almeno attualmente), si sono inventati un modo per sfangare l’uggia da lockdown. Hanno messo a frutto i social non soltanto per frequentare la scuola, ma anche per “trovarsi” con gli amici e fare belle chiacchierate. In questo sono un po’ anomali: ai videogiochi continuano a preferire i giochi, al computer
continuano a preferire i campetti di pallone e le “vasche” cittadine dove incrociare quella del terzo banco o quella che alle sette deve andare a scuola, ma non deve ricordarsi che aspetta un bambino (perché di fatto non l’aspetta, come invece accade nella memorabile canzone di Venditti: così possono puntarla, e augurarsi di essere ricambiati. Come abbiamo fatto decine di anni fa anche noi).
Ma c’è il lockdown. Anzi c’era (e forse ci risarà). E allora i nostri tre, terminata l’ora d’aria virtuale con il branco, si danno un appuntamento più ristretto, più selettivo: solo per loro tre. Non gli spunta un fiore in bocca come recitava lo slogan del dentifricio, bensì gli viene in testa un’idea meravigliosa che – anch’essa (riminescenze televisive della nostra epoca…) – non è quella di Cesare Ragazzi alle prese con la calvizie.
Emanuele suona il pianoforte. A suo modo è un geniaccio, uno che non sta mai fermo. Croce e delizia di casa, un creativo
puro. Ma in tre viene meglio. Sì, perché no? Tanto che importa? Facciamo una canzone.
Daniele è il più logorroico, quello che argomenta con nonchalance di qualsiasi cosa, riuscendo a mantenere il filo del discorso più a lungo in maniera coinvolgente.
Matteo è il più riflessivo, quello dai sentimenti più in vista (anche se fa di tutto per celarli), quello che parla meno ma quando lo fa ti rifila un colpo di fioretto di quelli da cui non si ritorna.
Sì, facciamo una canzone: Daniele e Matteo provvedono al testo, Emanuele cuce il vestito musicale. Poi la incidono. Si fanno aiutare da un altro amico a realizzare l’arrangiamento, a perfezionare i livelli, a sincronizzare le parti. E infine – tanto il lockdown non è per adesso che finirà… (dicono) – costruiamo una copertina, mettiamola online, e vediamo che succede:
E’ una canzoncina normale, ma non è per niente male. Fatto sta che – con loro enorme sorpresa – Vita a-normale (questo il titolo) ottiene un gradimento superiore ad ogni aspettativa. Diventa a suo modo un tormentoncino estivo; quando il lockdown poi finisce, i Circles – ripiombati con tutti i coetanei in mezzo alla vita normale, quella cioè vissuta davvero, tra una pizza un gelato una giornata di mare una partitella e l’immancabile struscio – ci rifanno.
Ormai hanno capito il meccanismo e ci hanno preso gusto: perché no? Ricomincia la trafila, stavolta dal vivo l’uno con l’altro. Fogli che vanno e vengono, mamme stremate dai ritornelli ripetuti fino allo spasimo per far quadrare i conti all’interno delle battute, ma già un piccolo scatto in avanti: più meditata la traccia del testo, e un messaggio felicemente controtendenza. Niente amori da usare e buttare, niente avventure estive; piuttosto invece una necessità di stabilità, meno gioco e più fuoco, la voglia di rischiare fino in fondo oppure per niente affatto; il tutto però in quella medesima bella innocenza dei sedici anni, dove il semplice sfiorare di una mano vale una vita intera, e il ricordo ha il potere di schiantare.
Nasce così Titoli di coda, il secondo brano dei Circles. Storia vera in musica? Conta poco. Quello che invece importa è che loro sentono davvero così:
Ma i titoli di coda non riguardano il divertimento scoperto durante il lockdown; non c’è due senza tre, lasciano intendere. E noi pensiamo che facciano bene a continuare.
Anche gli ultimi testimoni del “Gruppo Boccioni” di Macerata – che ho avuto la fortuna di avere amici – sempre dicevano che all’inizio non si ponevano affatto il tema del valore di quanto facevano, ma più semplicemente erano affascinati dal Futurismo perché dava loro l’occasione per incontrarsi e stare insieme in maniera originale, in una piccola città come la Macerata degli anni ’30 del secolo scorso.
Quindi? Adesso che il virus è tornato a farla da padrone? Adesso che siamo fatti a colori, regione per regione, che ne è dei Circles? Che pensano e che progettano, dalle 18 in poi? Avranno ricominciato a mettere mano a nuove canzoni?
Perché il trio funziona, è accattivante. Proprio nella sua assoluta semplicità.
In fondo ogni tentativo d’arte, a ben guardare, è sempre un canto di ritorno, un bisogno di dire che – man mano che si affina – abbandona il bisogno di dirsi e si trasforma più compiutamente nella responsabilità/necessità di dire. E – nei casi ancora più alti – di lasciarsi dittare dal di dentro (Dante) la forza dell’esserci, dell’essere vivi.
Non è il caso – ancora – dei nostri tre, ancora embrionali nel loro tentativo. Però li vorremmo consigliare di non mollare la presa. Avanti, ragazzi! Apritevi alla poesia, volate alto negli ascolti della musica. E poi tornate a bomba al vostro cuore pulito.