Carlo Bordini è, senza dubbio, un poeta enorme, uno dei più grandi vissuti a cavallo dei due secoli.
Stamani Gilda Policastro scrive, nel suo ricordo, su Le parole Le cose: “Carlo era un poeta a cui più che di sé e della sua opera, importava che avvenisse un contatto, tramite la sua parola, e cioè che le sue parole comunicassero.” Questo desiderio di contatto personale l’ho sperimentato, superficialmente, anche io quando, poco più di un anno fa, mi chiese di andare a trovarlo, per poter parlare un po’ insieme. Non sono mai andato, e quindi mi sfuggirà per sempre la possibilità di un contatto più forte, più lungo di quello, fugace, che ho avuto. Feci lo stesso errore con un altro grande da poco scomparso, Mario Benedetti e, ripensandoci in questo momento, mi rendo conto di aver frapposto una barriera, una distanza di sicurezza, nei confronti di due poeti, due uomini, con somiglianze profonde, con una medesima disponibilità alla meraviglia, allo stupore, all’ustione. Persone che dovresti tenere vicine, umanamente.
Non mi vergogno a dire che nel 2012, quando comprai I costruttori di vulcani, non sapessi nulla dell’autore. Per me Carlo Bordini era un perfetto sconosciuto. Comprai il libro solo perché mi fidavo dell’editore e poi, a 20 euro, acquistare l’opera intera di un poeta poteva essere un affare. Lo fu. Non molto tempo dopo, Guido Mazzoni mi chiese: ma tu hai letto Bordini? E aprì il suo iPad e mi lesse, eravamo in una pizzeria romana mi pare, una delle poesie che più mi avevano colpito:
MICROFRATTURE
L’idea della catastrofe, una catastrofe silenziosa,
appena avvertita, ma inevitabile.
Oppure le microfratture psichiche,
le microfratture di un’anima.
La mia anima è piena di
microfratture. Sono i piccoli traumi nascosti,
dimenticati, che tornano ogni tanto, quando l’anima è sotto sforzo,
quando non te ne accorgi. Dentro sono franato tutto. Non me ne accorgo,
ma lo sono. Magari quando attraversi una strada e un rumore ti fa rabbrividire,
quando tremi alla pronuncia di un nome, quando
hai un improvviso soprassalto di insicurezza. Le microfratture
sono le telefonate e gli appuntamenti che ti snervano,
improvvisamente,
l’andare in una stanza e chiedersi: che ci sto a fare,
ecc. ecc.
tutto un elenco dei nervosismi, dei soprassalti, delle cose che ti feriscono,
e le minuzie che ti snervano, ecc ecc
il cervello che funziona troppo,
Fu grandioso scoprire la sua poesia, la fragile sapienza che ne puoi distillare. Come in quel suo poemetto dal sapore biblico, quasi fosse opera di un Qoelet risalito da non so quali inferi e capace di dire tutto, ma proprio tutto, in versi: Polvere.
Ogni verso è come dettato da un’ansia comunicativa senza filtri, quella di un poeta (che coincide con l’uomo come accade in pochi altri casi) incapace di difendersi, arreso di fronte alla sovrastante chiarezza del nulla eppure, forse anche per questo, onesto nei confronti del suo stesso desiderio. L’incipit di questo poemetto è sufficiente per ricordarmi di che pasta è fatto l’essere umano, e che cosa sia la nostra avventura nel tempo, questa possibilità che “Tutto ciò che è devastato può divenire rotondo, / ancora rotondo. Come un vaso. E’ ancora possibile.”
POLVERE
Sarò sempre un po’ meno di quello che sono,
e anzi, molto meno. Polvere. Ho perso molto.
Ciò che si perde è irrecuperabile, e se lo si recupera esso
è ormai disperso, non rientra più nell’ordine prestabilito delle cose. Sono contento
se di me non rimane che un lieve
involucro. Ho perso
molto. In questa levità,
ciò che più importa è l’assenza di acuti,
che tutto sia tondo e raccolto. Basta
questo. Tutto ciò che è devastato può divenire rotondo,
ancora rotondo. Come un vaso. E’ ancora possibile.
La polvere può essere recuperata. La polvere era una volta
detriti. Ora la polvere non è detriti,
è lenta friabile. La polvere
è un po’ meno, ma può essere
tenuta insieme. Le ferite
possono diventare polvere, raccolta
e conchiusa. Sono contento
di non capire le cose. La loro
ragione. Vi sono cose che ignoro, e sono
contento. Appaiono come misteri,
tranquille. Ad esempio,
la ragazza che incontro sempre, mi ama
o no? Non lo so. Sono contento
di non saperlo. Sono contento di non sapere
se l’amo, o meglio, so che non l’amo, che potrei
amarla; sono contento
di non sapere se avrei potuto amarla. Questo mistero
mi rassicura più del suo amore.
E’ bello non sapere. Non sapere, ad esempio,
quanto vivrò,
o quanto vivrà la terra.
Questa sospensione
sostituisce l’eternità.
[…]