Quando la lingua non ne può più della ragione sociale violenta, in generale beve oppure canta e danza (Fred Biondina)
In fondo, nonostante questo maledetto virus paia costringerci ad uniformare ed omologare le nostre esistenze più di quanto non faccia già la società contemporanea; in fondo ci sono molti modi per affrontare restrizioni, lockdown e semi-lockdown. Il lockdown, per me in particolare, ha portato con sè nuove letture; per istinto ho reagito alla dipendenza da internet e dal cellulare, dal trauma dell’assenza di relazione innanzitutto rivolgendomi ai poeti. Su alcuni (Pasolini, Benzoni, poeti che ho la fortuna di conoscere come Giancarlo Sissa e Alessandro Moscè) ho anche scritto: si è trattato, ovviamente, dell’ascolto di una parola verticale, lirica, che andasse proprio a stridere con la miriade di notizie, attese, ansie ed autocertificazioni che mi hanno travolto. Unico conforto la parola onesta dei poeti, le voci e le facce sul monitor del pc degli alunni a cui insegnavo a distanza, la presenza ironica e allegra degli amici connessi. La scoperta, alla sua uscita nel mese di settembre, di Enigma del Metodo Erodoto, ha rappresentato per me l’incontro con una parola inedita, un momento di rottura. Da tempo non mi capitava di imbattermi in una scrittura convulsa, vertiginosa, sperimentale; ma la forza incontenibile che attraversa il pluristilismo, le variazioni di ritmo e di genere (dal saggio al flusso di coscienza, dallo squarcio lirico al breve racconto), rendono questo romanzo autobiografico o eccezionale diario colto (ma senza le zavorre dell’accademico erudito o lo snobismo del radical chic) un formidabile contrappunto tra equilibrio e sperimentazione.
Il libro esce per le edizioni Industria & Letteratura, fondate da Gabriel Del Sarto e dirette da Filippo Davòli, nella collana-progetto “Pianeti Erranti”, particolarmente attenta all’ibridazione dei linguaggi, sempre ancorata però a una “normalità ed esigenza comunicativa che rifugga dalle afasie delle neoavanguardie, dalla tendenza postmoderna all’autoreferenzialità del messaggio. Ed è questo, quello di un perenne dialogo con il lettore, un punto cruciale di una simile esperienza di scrittura, anche e a maggior ragione quando Federico Nobili alias Fred Biondina, pare volerlo sempre più strapazzare, il suo interlocutore. Ricordo solo, prima di tornare al nostro Joker scrittore, che il nome “Industria e Letteratura” richiama una stagione del “Menabò”, a partire proprio dal titolo dell’editoriale di Vittorini del n. 4, appunto “Industria e Letteratura”; una stagione di impegno civile degli intellettuali e scrittori che si prolungherà fino ad almeno la fine degli anni Settanta, dopo la morte di Pasolini nel 1975, e con la raccolta degli scritti di impegno civile di Calvino del 1980, intitolata emblematicamente Una pietra sopra, il congedo definitivo dal ruolo di intellettuale-guida.
“Ma questo non c’entra niente”, direbbe Fred Biondina, come ripete spesso chiudendo ironicamente tante sue digressioni. Si tratta di un esordio in narrativa, il suo, per un filosofo e performer, che ha tra l’altro collaborato con Giovanni Lindo Ferretti; un esordio la cui vena filosofica, argomentativa emerge netta in un’opera composta, tuttavia, quasi di getto, tra la fine del 2019 e aprile 2020. Opera che va letta allo stesso modo, tutta d’un fiato, al di là delle raccomandazioni metaletterarie con cui Nobili gioca fin dall’inizio con il lettore (“al lettore atletico e al lettore musicale”). Anche quando Fred Biondina si rivolge direttamente al lettore, la scrittura sembra voler valicare i confini della pagina (“come ti chiami tu che stai leggendo? Potresti pronunciare il tuo nome ad alta voce?…Siamo tornati tutti e due bambini e ti sfido: se non lo fai, sei un vigliacco…se accetti di essere parte della vigliaccheria generale, bene, non siamo più amici”).
Il filo dell’ironia e della musicalità, spesso di una prosa sperimentale che potrebbe addirittura ricordare Zanzotto, rompono niccianamente con l’argomentazione del filosofo esteta che non può accontentarsi del pensiero (“Io non voglio il pensiero”) e deve tradurlo in azione, in danza con il lettore sotto il segno del Joker, nell’interpretazione magistrale di Joaquin Phoenix del 2019. A quale altro filo conduttore riportare il materiale magmatico, fitto di citazioni, solo apparentemente e ironicamente gratuite, e invece proiettate verso la danza, tra bene e male, di un’icona anarchica e pop, sintesi delle contraddizioni umane? E la conquista è anzi l’uscita dalla rappresentazione manichea del personaggio, da parte di Phoenix; maschera che non è più vittima o carnefice, scaturita dal coraggio estremo di un attore che ha buttato all’aria tutto il suo lavoro precedente per entrare definitivamente nel personaggio.
Fred coglie anche il pregio maggiore del film, oltre le marchette, il tam tam pubblicitario, le facili suggestioni e lo schematismo delle tesi sociali di Todd Phillips: il regista ha dato carta bianca al suo attore in stato di grazia assoluta. “Joaquin Phoenix…ribadisce il suo rifiuto della comfort zone della sceneggiatura chiusa e dei soggetti a tema, con personaggi e messaggi senza margini di ambivalenza e di inesplicabile, che disegnano polarizzazioni semplificatrici e consolatorie. Come sarebbe il caso specifico di un villain per eccellenza dell’immaginario pop, incarnazione manichea e puritana del male, mentre sviluppare la sua connotazione perturbante e vitale consiste proprio nel non ridurlo a uno psicopatico e basta, un violento e basta, un frustrato e basta, una vittima o un carnefice e basta…è accaduto a Phoenix di arrivare sul set con un’idea, che aveva sviluppato e credeva funzionale, efficace, tranne poi sentire di aver imboccato una strada sbagliata… …«Non “essere nel personaggio”, “trovare il personaggio”, ma perdere se stessi, lasciare andare…» [Phoenix]. Il personaggio non è un teorema, appunto, ma una scoperta, e la costruzione e ricostruzione delle sue motivazioni, per quanto necessaria a creare una griglia di riferimento rigorosa – come uno spartito musicale – non può non mantenere zone d’ombra e d’insondabile, non soltanto perchè that’s life, ma per rispetto nei confronti delle possibilità di viaggio e di pensiero dello spettatore…La possibilità di questa apertura si dà quando l’esperienza creativa e il suo esito non vengono costretti nelle maglie mortali di segni definiti e traducibili in una formula. «Quello che accade nel mondo spesso è frustrante, terrificante, perchè al di là della nostra comprensione…ma credo che ci sia qualcosa di prezioso [valuable] nel non essere in grado di controllare quanto accade» [ancora Phoenix]. «Car pour moi les idées claires sont, au théatre comme partout ailleurs, des idées mortes et terminées», Antonin Artaud”.
Nient’altro che questo è il lavoro che Joker Biondina compie su sè stesso, sia che estenda tale pratica portando alla luce corrispondenze con i propri miti letterari, che sono sempre anche esempi di umanità (dal Celine di Viaggio al termine della notte, a Carmelo Bene, alla risata “insensata” del poeta-Joker Mandelstam e del suo spirito gemello Celan, a Joyce che si definisce “an Irish clown, a great joker at the universe”); sia che sciolga il flusso del suo romanzo allucinato, senza soluzione di continuità, fino a fare incendiare la lingua, ma spesso mantenendo anche un’ironia che gli permette di guardare la scrittura nel suo farsi (metaletteratura, appunto). L’impressione resta tuttavia che lo scrittore non sappia dove arriverà, nel flusso eracliteo della sua scrittura sperimentale. Il flusso è naturalmente quello della danza, dell’ebbrezza (Nietzsche, naturalmente, ma anche i Persiani e il loro metodo, descritto da Erodoto), degli imprevedibili giochi di parole (“La magnifica ossessione della sete, della fame, della scrittura, dell’infinito. Fred Biondina è ossessionato dalla sua faim fatale”…Digita e non cogita. Il complotto internazionale contro l’autostima di Fred Biondina assume forme tecnologiche subdole. Prova a scrivere “poeta” sulla tastiera del telefono e il corruttore converte in “pietà”). Si aggrappa a una “vita resa vivibile in quanto fenomento estetico”. Lo dichiara subito, in apertura:”Questo libro cerca di trasgredire «alla bipartizione della vita in tempo dedicato al lavoro e tempo libero, ed esige che nel tempo libero si compia un tipo di lavoro tale che potrebbe mettere in dubbio l’utilità del lavoro stesso»” [Adorno, credo]. Solo così sarà possibile “camminare e perdersi nella propria città interiore”, sapendo, con le parole ancora di Adorno, che se lo scrittore “si esprime con precisione, con scrupolo…quello che scrive passerà per difficilmente comprensibile”.
Non è un moralista, Fred Biondina, ma rivendica che nella nostra società “la vera pazzia, la vera patologia è la mancanza di pathos per il gioco”, che l’unica ragion di stato rispettabile è quella dello stato di grazia”. Per farlo ha bisogno di una maschera, di uno sdoppiamento (Nietzsche:”tutto ciò che è profondo ama la maschera”):”Maschera come specchio che smaschera, non nasconde [così come, ad esempio, la poesia “rivela”, nel doppio significato di svelare e velare di nuovo], bensì incarna, doppio perturbante e al contempo innesco di mutamento, crisalide, identificazione del proprio destino o del proprio gioco”.
Fred Biondina ha spesso bisogno anche di abbandonarsi alla poesia sperimentale, con esiti quanto mai felici (“in questo movimento ascendente, bocca e occhi diventerebbero foglie abnormi, intente a mirare il firmamento, a bucare in verticale anche gli strati più spessi delle nuvole, per bere il tremolio delle punte acuminate dei bivacchi stellari, in mezzo al neronotte e anche in pieno giorno: le intuirebbero galleggiare dietro la campitura smaltata dell’azzurro, picchiettandolo con gli infrasuoni dei loro polpastrelli elettromagnetici”; “Non c’è più io, non ci siete più voi, non c’è più noi nè loro, soltanto la potenza effimera di tutto l’universo, che si dimena nel gioco di un oblìo epilettico”) o ad un lirismo più disteso (“Settembre glorioso, terso, vibrante di calore estivo. La collina declina dolce dietro il basso muro di pietra. Di fronte si stendono i filari, sulla destra in basso la piccola geometria pulita di un cimitero di campagna e poi l’occhio scivola lungo la grande pianura, dove scorre un trenino, che fischia ancora come andasse a carbone e vapore. Le sue nubi immaginarie sono il ponte dei pensieri immobili di Papillon de Neige e Voixdevin. Aspettano la pittura del tramonto e il buio dell’uva, li berranno durante tutta la notte. Si diranno cose oscure. Se arriverà il mattino, sarà papavero e memoria, ripeteva l’amico Paul”).
Ci sono tanti modi di affrontare il lockdown. Federico Nobili ha scelto la strada di una passione strenua e giocosa per la lingua; vocazione di cui non possiamo che essere grati.