Anno Domini 1916: il primo bombardamento aereo su Milano, la dichiarazione italiana di guerra alla Germania, la morte di Umberto Boccioni. Si inaugura così la funesta marcia verso il declino delle illusioni ottocentesche e si apre dunque un feroce Novecento, unico ed irripetibile, che ha segnato e segna ancora oggi uno strappo virulento nella storia dell’umanità. Si apre come se necessariamente, all’iperbole di pieno successo scientifico, umano, sociale dell’Ottocento, fosse dovuta corrispondere la scoperta di un nuovo abisso, di una voragine nera in cui l’uomo si è perso e poi riconosciuto nudo, impreparato, indegno e perciò pronto a fallire.
Eppure nel panorama di distorsione, di tempesta, di sfiducia di questo nuovo secolo l’arte si è dimostrata – come ha sempre fatto d’altronde – un prezioso faro nella notte del mondo, pronta ad apprendere le nuove precarietà e a far luce nell’animo di un uomo-artista inaridito e smarrito dalle guerre fratricide e dagli abomini di cui la sua coscienza si era macchiata. Gli anni del primo dopoguerra sono il tempo, dunque, in cui l’umanità apprende un grande insegnamento, generato da una grande ferita, ovvero l’urgenza di guardare le cose così come sono: devastate, senza rimedio, terribilmente ed angosciosamente distrutte in tutta la loro matericità; il grande conflitto ha infatti segnato un’orrenda presenza della realtà e allora la moralità umana ha imposto a ciascheduno la rinunzia a qualcosa che è stato. L’arte torna ad una visione pittorica della realtà gremita di virtù tangibili, valori concreti, per ottenere una sicurezza psichica e spirituale, che nella rappresentazione pittorica si traduce in quella solidità di forme e di colori che le avanguardie artistiche avevano scardinato. È il cosiddetto rappel à l’ordre, è il ritorno ad un ordine antico, ad una geometria certa, il cui fine è quello di scoprire una originaria unità nelle cose che consenta la risurrezione della memoria storica di se stessi prima del grande errore e prima delle follie avanguardistiche. La narrazione del presente abita il passato: la stessa Margherita Sarfatti, che seppur dedicò la sua arte e i suoi artisti militanti (il suo ‘Gruppo di Pittori del ‘900’) alla celebrazione propagandistica del regime, chiarisce che ora l’arte deve ottenere una trasparenza nella forma e una compostezza decorosa nella concezione, mentre Bontempelli tinteggia queste nuove intuizioni di magia (Realismo magico) e spiritualità partendo dal recupero della sacralità dell’atto artigianale ed innestando in esso il recupero dei miti del realismo quattrocentesco quali Piero della Francesca, Masaccio, Mantegna.
È in questo clima storico, umano ed artistico, in cui l’arte si racconta con trasfigurato in essa qualcosa di altro, che nasce e cresce Fabio Failla (Lucca, 1917) ed è qui che trova la sua arte, le sue profonde radici. I suoi nobili natali lo precedono, difatti conta nel suo albero genealogico un’aristocrazia di nomi non indifferente: si pensi ad Alessandro Manzoni, a Massimo D’Azeglio, fino a Padre Matteo Ricci. Failla frequenta giovanissimo lo studio fiorentino del pittore Gianni Vagnetti dal quale apprende un modo di fare pittura molto didascalico e la predilezione per il plein air. Ritorna spesso e volentieri, a motivo della presenza della nonna, la nobildonna Clotilde Ricci d’Azeglio, nella verdeggiante Pollenza, nelle Marche, dove trova ristoro e quel rude ethos popolare marchigiano che sempre predilesse. Nel 1939, appena ventiduenne, è costretto a lasciare la Firenze dove viveva per partecipare in divisa da ufficiale degli Alpini al secondo conflitto mondiale e in tal occasione stringe un sincero rapporto di amicizia con lo scrittore Curzio Malaparte. Incredibilmente riesce a sfuggire dalla morsa della prigionia tedesca per raggiungere, con una lunga traversata in bici, l’atteso abbraccio materno che lo attendeva a Pollenza. Qui, nel dolce contesto bucolico marchigiano, coccolato dall’affetto dei cari e rincuorato dalla fiduciosa laboriosità di quella civiltà contadina che vi incontrò, ritornò alla pittura. Nel gennaio del ’45 si appresta infatti a concludere l’organizzazione della prima personale presso la Pinacoteca Comunale di Macerata. L’anno successivo, forte della effervescenza e della floridezza che gli concede questa sua primavera artistica post-bellica e pollentina, approda a Roma e di lì si fa conoscere come pittore con delle personali alla Galleria Chiurazzi, per poi approdare a sempre più frequenti collettive nazionali e a partecipazioni anche all’estero (Germania, Belgio, Svizzera, Stati Uniti).
Tuttavia, di tante peregrinazioni artistiche e di differenti momenti di sensibilità pittorica che hanno caratterizzato l’opera del Failla, la storia lo ha voluto consacrare come unico ed inimitabile Pictor Romae. Egli ha così abilmente colto l’essenza della Città Eterna, da sempre babele dei linguaggi artistici, da divenirne prediletto cantore.
Scelse Roma, tra l’altro, proprio nel vivo di un lungo periodo di silenzio pittorico della Capitale; ritornò, per così dire, al piacere della veduta tipico della ‘Scuola Romana’ entre-deux-guerres (Francalancia, Donghi, Mafai, Scipione, Melli, Cagli), ma apportando le sue idee e rendendo all’Urbe un’immagine visionaria e pacifica come non la si era mai vista. Immune ad ogni moda, distaccato da tutte le elucubrazioni sulle quotazioni di mercato, signore d’altri tempi, Failla fece conoscere Roma attraverso un nuovo umanesimo architettonico, per così dire, che l’ha trasfigurata in un tempo eroico passato e lontano. La scelta del suo taglio cade sempre su situazioni particolari che vivono di uno sconfinamento spazio-temporale riservato e casto, in cui la «vernice del sole» (Cibotto), come Failla amava definirla, eleva la realtà a luogo dell’anima.
Il Pittore osserva, sintetizza e ricompone senza scadere nell’aneddoto, ma rendendo universale e senza tempo il soggetto, ripulisce i cieli, plasma con il colore un’atmosfera pregna di materia e poi la alleggerisce con una luce immateriale, toglie invece di aggiungere, crea un’aria di diradamento atmosferico-metafisico, emancipa i soggetti architettonici e crea una sua ideale ed intima promenade luminosa per la città. Crea visioni estetiche in cui si può essere rapiti dall’estasi della forma, dalla combinazione ordinata delle linee, dal ritmo esatto delle ombre. Egli stesso afferma: «L’arte è pensiero che si materializza attraverso la forma per uscire dalla realtà e superare il tempo».
Di tanto in tanto, poi, nella spiritualità delle rovine antiche o negli stralci di una Roma civile, possono far capolino minute figure silenti che corrispondono ad una fauna ecclesiastica di un tempo andato: sono preti e suorine che si rimpiccioliscono nel giganteggiare della città e rivendicano sottovoce e in maniera aggraziata la speranza di un ritorno a valori umani ed ecclesiastici fondati sul decoro e sulla dignità.
Una Roma, questa del Failla, che, credo, sia per ognuno oggi più che mai familiare e vicina, tanto siamo stati abituati a guardare con occhi nuovi le nostre città vuote e le vie sotto ai nostri balconi silenziose. Il lockdown ci ha imposto improvvisamente di osservare l’essenza delle cose e di riconoscere in ogni luogo un senso profondo legato non unicamente alla logica utilitaristica delle sue funzioni. E forse queste piccole figure, che vivono seguendo i tempi dettati dalla natura e godendo dell’incanto di un colonnato che sale al cielo, ci educano a vivere, ora, contro l’epidemia esistenziale di un’umanità che, invece, sopravvive nell’affanno del guadagno e nella trascuratezza della bellezza.