Se ne sono andati per sempre;
spariti senza morire
Ferruccio Benzoni
La tanto attesa uscita dell’antologia Con la mia sete intatta – Tutte le poesie, di Ferruccio Benzoni ha finalmente colmato un vuoto, per l’irreperibilità dei testi, e reso giustizia a una parabola poetica ispirata e quanto mai necessaria. E’ bello scrivere del poeta di Cesenatico dopo le mie incursioni sulla poesia di Sereni (visto da Pagnanelli) e di Pasolini. Mi conforta il fatto che la mia ricerca, su un poeta a lungo rimosso, sia coincisa, appena qualche mese più tardi, con l’uscita dell’antologia; e spero che questo articolo possa rappresentare un piccolo aiuto a far uscire l’autore da quella clandestinità che con il suo “riserbo a prova di bomba” (Cremante) in vita pare destinata a prolungarsi oggi con l’impossibilità di presentare e giustamente celebrare l’uscita della sua opera in versi.
Conosco la poesia di Benzoni da quando, qualche anno fa, il suo amico e sodale Stefano Simoncelli, in una lettura a Macerata, rievocava i trascorsi della leggendaria rivista Sul porto; rivista la cui importanza, nel rappresentare una generazione di letterati e anticiparne gli sviluppi futuri, è inversamente proporzionale all’esiguità dei mezzi e del potere editoriale. Ed è proprio da Sul porto che vale la pena intraprendere la nostra ricognizione, andando oltre l’apparente acerbità delle dichiarazioni e riprendendo quanto già notava Fortini nel “Quaderno della Fenice”, Guanda, dedicato proprio ai “fratellini” di Cesenatico. Fortini rilevava la fondamentale posizione delle loro poesie, posizione apparentemente defilata, da un punto di vista geografico, in quanto nate in provincia; ma defilata anche rispetto ai modelli, come fatto notare nello
stesso quaderno da Raboni (il carattere rétro dei loro versi). I poeti di Cesenatico ripresero infatti i moduli elegiaci dei poeti anni Quaranta e Cinquanta proprio quando gli stessi autori si accingevano a liquidare quel linguaggio (Fortini parlò, per Benzoni, di “poesia dell’eco”). Ma, e questo è centrale, la ripresa dei maestri del Novecento, dei padri, non è mai dettata da scelte solo stilistiche. E’ un punto su cui tornerò più avanti, parlando del famoso “serenismo” benzoniano, di “un figlio che tende a perpetuare in sè, nel tono della voce e nei gesti, l’immagine del padre” (Bandini). Ciò che mi interessa, in sede preliminare, è non sottovalutare la coerenza d’insieme tra l’opera poetica e la dichiarata ingenuità degli accenti (in parte) post-sessantotteschi o pasoliniani degli editoriali di Sul porto. Stretti tra l’atteggiamento “vagamente elitario e aristocratico” (Benzoni, da un’intervista) e il terrorismo linguistico delle neoavanguardie e del Gruppo ‘63, da una parte, e l’impegno civile e politico del post ‘68, che chiedeva il suicidio dell’intellettuale e nel peggiore dei casi sfociava nel terrorismo vero e proprio; Benzoni e i poeti di Sul porto scelsero un intimismo neocrepuscolare che non ha nulla a che vedere con un’evasione nel privato, né con l’orgoglio per una presunta scelta (ipocritamente, avrebbe detto Pasolini) “indipendente”. E attenzione, perchè il dolore o, più tardi, il patema, costituiranno sempre la fonte principale del “vizio di scrittura” di Benzoni. Dunque, dicevo, con la scelta dell’autoemarginazione gli “ingenui” di Cesenatico incarnavano gli umori più autentici di quel che il vecchio Sessantotto chiedeva. Tra la solitudine e la vocazione letteraria, la necessità di scrivere e di “mostrare scandalosamente le nostre viscere”, nella consapevolezza che “A ventisei anni noi siamo come a sedici avendo voluto proprio salvare quei sentimenti che sono dell’adolescenza”, i poeti di Cesenatico rivendicano il valore politico della loro scelta. Mi si permetta di riprendere ancora alcuni estratti dai loro “verbali di seduta”, non fosse altro che il tono e lo spirito che li attraversano mi sembrano gli stessi che animano il sodalizio di Ciminiera da sempre:”lo sforzo nostro non è quello di <far cultura in provincia> ma di mettersi da parte, di non contare niente o di contare solo come persone che ancora si ostinano ad usare uno strumento infido come la parola… Di qui nasce anche la presunzione di inventarci una provincia… l’invenzione di un luogo in cui un gruppo di ragazzi sta compiendo qualcosa di mostruoso… non solo perchè danno vita ad una rivista di tipo letterario, ma perchè stanno svolgendo un’azione comunitaria, di mutuo soccorso, cristiana direi…attorno a delle ragioni chiave come il soccorrerci, il rispettarci… Nei diversi dibattiti pubblici siamo stati accusati di disimpegno e di non avere agganci con la realtà, mentre noi abbiamo la coscienza… di essere calati appieno nella realtà… proprio per la testimonianza cui siamo orientati, pensiamo di essere nel punto più avanzato più pericoloso e difficile dell’impegno. Anche perchè gli altri impegni, bene o male, seppure svolti in prima linea sono protetti alle spalle, mentre il nostro combatte su una linea che nessuno riconosce, ma su cui tutti sparano a zero. Siamo da soli nella trincea e quando attaccano non abbiamo a difesa nè cannoni, nè contraerea. Quindi in una configurazione come la nostra le parole assumono altri significati in quanto i bollettini di guerra che lanciamo provengono da una linea che molti hanno disertato”.
Un’ultima caratteristica, inconfondibile, del collettivo Sul porto è quella di andare a trovare i poeti:”Nessuno più va a trovare i poeti. Il poeta è un personaggio squalificato in questa società, cioè un personaggio la cui credibilità è zero in quanto questo è un mondo che è portato a derealizzare, a confinare in una astrattezza sempre più incomprensibile l’uso della parola che ha, appunto, la funzione di trascrivere un’anima, un’esperienza precisa…Noi andiamo a trovare e ospitiamo i poeti che sono fedeli al bisogno di usare una parola che li restituisca, che non li tradisca”. Ecco il legame coi padri che caratterizza tutta l’opera di Benzoni, con la ripresa di modularità e procedimenti, ma anche un fitto citazionismo, mai fine a sè stesso, per il quale Fortini si è spinto a parlare di “poesia dell’eco”. Il Sessantotto di Benzoni e dei suoi compagni voleva rovesciare i padri per sostituirli coi maestri d’elezione (Fortini, Sereni, Pasolini, Gatto, Penna, Orelli, Raboni, conosciuti personalmente; Esenin, Char, Rilke e poi Celan, i modelli stranieri).
Da un simile contesto sociale e letterario muove l’esperienza poetica di Benzoni. Ma c’è un antefatto personale dietro, il vero e proprio atto di nascita della sua poesia, che si ripeterà ossessivamente nei successivi trent’anni della sua breve esistenza: il 25 luglio 1967, la morte della madre. “Dopotutto so di avere ricevuta in aggiunta/alla morte la vita” (Vento di marzo, da Sguardo dalla finestra d’inverno): il binomio vita-morte è l’ossimoro permanente della sua produzione. Da questo contrasto si dipanano gli infiniti ossimori delle sue visioni. Peraltro l’andamento binario della composizione è riscontrabile, fin dagli esordi, nell’alternarsi di aulicismi e parole peregrine, e di linguaggio colloquiale o dimesso; o l’alternarsi di lirismo melodico e controcanto prosastico. Il tono neocrepuscolare, come già notato da Raboni e Fortini, emerge chiaramente nel Canzoniere infimo e altri versi che raccoglie La casa sul porto pubblicata nei “Quaderni” Guanda e, appunto, il Canzoniere infimo nella selezione (poi rimaneggiata) per l’ “Almanacco dello specchio” voluta da Sereni poco prima della sua morte. Ma se errato sarebbe interpretare tale sordina come una musa minore, visti tra l’altro i troppi equivoci diminutivi su una stagione fondamentale e di respiro europeo come quella crepuscolare, Bandini fa notare quanto nella poesia di Benzoni manchi completamente la vergogna della poesia. Pur nel riserbo monacale e nell’isolamento deliberatamente scelto, bisogna ricordare che nessuno come Benzoni volesse essere poeta e incarnasse tale vocazione come un bohémien contemporaneo sui generis. Certo l’esistenzialismo radicale, l’esempio e il mito di Esenin, la lezione di Renato Serra sull’unità inscindibile di arte e vita, fecero dire a Raboni, di quei giovani che andavano a trovarlo a Milano e con cui parlava più di calcio che di letteratura nello specifico, come di poeti fedeli al fuoco “onesto” della parola e avulsi da compiacimenti e ambizioni di carriera. Un indizio curioso della biografia di Benzoni, della quale ben poco rivelano i suoi versi, riguarda il racconto, da parte degli amici, delle radiocronache da bordo campo sulle partitelle di quartiere, le sue ambizioni giovanili di radiocronista sportivo. Sono aneddoti che mi piace riportare perchè delineano i contorni di una personalità aliena dalle sirene dell’accademia (Benzoni, tra l’altro, non ha mai terminato gli studi universitari), del riconoscimento letterario e legata invece alle passioni più semplici e domestiche (dal calcio, appunto, alla cagnetta Orazio). Giancarlo Sissa, che ha anche conosciuto Benzoni e ne è tra i più luminosi eredi, ha fatto notare quanto il poeta di Cesenatico fosse consapevole del prezzo, anche amaro, che la sua opera avrebbe pagato, per il sereniano “ritardo” di ricezione che constatiamo oggi, dopo decenni di semiclandestinità.
Una “linea d’ombra”, quella del primo Benzoni, nel solco della poesia della tradizione e di una malinconia dolce (i poeti di Cesenatico parlano spesso di buoni sentimenti), di una tenerezza, uno struggimento e al tempo stesso ironia, derivati dall’esperienza della rivista e dalle amicizie giovanili. La forma prediletta del primo Benzoni è quella della lassa narrativa o del poemetto, una versificazione lunga che andrà sempre più rastremandosi fino ai frammenti dell’ultima raccolta. Senza ricadere nel bozzettismo, il verso quasi prosastico risente della lezione dei maestri di area lombarda, padana; quasi assenti le tangenze con l’area fiorentina. E se Fortini (da un’intervista a Benzoni:”Fortini non amava molto i miei versi e me lo diceva…Però preferivo la presentazione di una persona che non spendesse parole facili, ma che fosse la testimonianza di uno che mi conosceva”) rimprovera al primo Benzoni un eccesso di ornatus, di eleganza, dall’altra appassionati lettori e sodali come Fernando Bandini e Sissa esaltano la forza visionaria ed onirica degli esordi. Il suo legarsi agli assenti non sfocia mai in una visione nichilista del mondo: gli oggetti del quotidiano sono proiettati in una “luce alla Vermeer” (Bandini), con un’ampia gamma cromatica. Ma è Fortini per primo a rilevare un io “ventriloquo”, plurale, nella giustapposizione dei livelli di linguaggio, le continue escursioni dal lessico aulico al gergo conversativo: un’operazione che non si presta a freddi sperimentalismi a tavolino, bensì a un ascolto totalizzante e ad una regressione dell’io che parla sempre in nome di qualcun altro. Naturalmente in nome della madre Giovanna:”E’ dentro il tuo viso che nasce la devozione/ della mia solitudine. Non m’assolvesti/quando un’esenzione chiedevo da quel grumo/d’angoscia cui sono innestato” (Appendice a “un tu non ipotetico e caro”). Il dolore della perdita è irrimediabile, Benzoni non vuole interrompere il colloquio con la madre. E come ha ripetuto più volte in diverse interviste, la sua poesia non può fare a meno del dolore, come dimostrano i versi di Perchè infine riaffioro, tra richiami penniani e malinconia crepuscolare:”…/Perchè infine riaffioro come da un’insonnia/e alla luce riposo, m’acquieto festoso per l’aria/e più non detesto cosa mi fu negato/ciò che a altri è dovuto e a me è malinconia./Riconosco – è mio – il dolore:gli faccio festa/neanche fosse un cane battuto. Assieme/ci accompagniamo per via e sbadati salutiamo/guardando in alto quel chiasso di luce”. O ancora un passaggio che dice molto della sua poetica in L’altalena al mare:”Altra luce reciso e pesto io,/altra maturità cercavo (e vanto e grazia) nell’aspro credito/col dolore”. La patina crepuscolare permane comunque in maniera evidente, pur nel contesto onirico in cui ci troviamo:”Mi pare anzi di tendere l’orecchio a indizi di quotidianità spicciola (la motoretta del postino; i conversari della zia col micio)” (Non so perchè il sogno sia ambientato…).
Alla svolta verso la produzione matura Benzoni approda già con Notizie dalla solitudine del 1986, un primo capitolo dell’attraversamento benzoniano dell’inverno della Storia e della propria condizione di orfanità e solitudine. L’immagine vivida della madre e del suo tailleur azzurro, ultimo ricordo prima di vederla scomparire, la non-rielaborazione, volontaria, di quel lutto, si replica nella perdita di Sereni (da un’intervista:”la morte di Sereni ci ha lasciato assiderati”). Sciolto il sodalizio di Sul porto, morto il maestro e amico a cui lo legava un affetto filiale, Benzoni resta “solo a coltivare una sua vena di segretezza, di raffinata autoreclusione che non giovò alla sua carriera letteraria ma giovò, e molto, all’intensità della sua scrittura” (Raboni). Benzoni si rivolge spesso direttamente all’amico appena scomparso (“Su una finita estate – storta e a me scialbata,/imprendiamolo questo viaggio tra memoria speranze,/se nel turbine là d’altri verdi, imprevedibili,/al colloquio coi miei cari avrò di te certezza”, Partendo per il Vaucluse), riferendosi alle visite a Char in Vaucluse dei primi anni Ottanta, insieme agli amici di Sul porto. Le tracce del maestro di Luino si manifestano nelle frequentissime citazioni. Non va dimenticato che Benzoni è un poeta che predilige le citazioni dei maestri, adattandole sempre, tuttavia, ai propri contesti e visioni. Ma quel che si affaccia a partire dalle Notizie dalla solitudine, forse il più bel titolo di Benzoni, quello che più ci parla della propria condizione di orfano ed esiliato; la svolta risiede nella conclusione di Fortini alla sua nota introduttiva, a proposito dei versi “- verso il mattino ecco ricomporsi/le mie passioni, farsi nette quasi/di una luce malata prossima a guarire” (Al numero dodici). Il patimento in Benzoni deriva dall’aspirare a una salute che non si vuole realmente raggiungere:”…Ma vi sia un attimo di grazia/di non voluttuosa pietà/non nel dolore solo ma nella malattia/di sentirsi per sempre fuori della grazia” (Dormiveglia, nel successivo Fedi nuziali). Il poeta non vuole elaborare il lutto, da cui deriva lo stesso vizio di scrittura, la propria passione “malata”:”E questo che altri/chiamerebbe vizio/letterario odora di vita/di treni che mi hanno attraversato/travolgendo la vita sul punto/di redimersi da una eco o una passione” (Treni, da Fedi nuziali). E si noti come al topos decadente della vicinanza della guarigione, si associ una certa diffidenza nei confronti della psicanalisi:”E’ una cosa che mi affascina molto, l’analisi. Ne ho parlato con un analista molto bravo. Gli ho chiesto: ma dopo, dopo l’analisi, cosa ne sarà della mia poesia. Oh, mi ha risposto lui, io questo non lo posso sapere. Come se un prete mi venisse a chiedere cosa ne sarà, dopo un’analisi, di Dio e della fede. Questo mi ha fatto paura. Paura che l’analisi disseccasse la mia capacità di scrivere poesie. Sentivo che la mia poesia nasceva da un gomitolino molto aggrovigliato e intorcinato. Avevo paura che un giorno tutto mi diventasse chiaro e, con questa chiarezza, fuggisse appunto da me la poesia” (da un’intervista). Anche Paul Celan, altro grande nume tutelare del poeta di Cesenatico, non teneva in grande considerazione la psicanalisi. Per entrambi la poesia resta lo strumento principe per mantenere il contatto con i fantasmi del passato; e in entrambi, solo le mogli Gisèle Lestrange ed Ilse Maier permettono nel presente di convivere con le ombre dei defunti. Tutto ciò senza che, celanianamente, il papavero dell’oblìo, la donna, cosituisca una rimozione della memoria che la poesia custodisce.
(fine prima parte)