“Nelle immagini disordinate nell’etere sempre vi seguo”: note su “Trasparenza” di Maria Borio.

di Pietro Polverini

L’occhio assiepato sopra l’opalescenza intermittente dello schermo. La mano presa da un esercizio di tiptologia scrive, cataloga, evoca un nome, un corpo, di là del monitor, anch’esso assiepato. Maria Borio, con un libro estremamente elaborato, analizza la natura di questa “intermittenza” o più generalmente le condizioni di possibilità della trasparenza in un contesto di connessione ubiqua grazie alla rete.  Ma di quale trasparenza si parla? Il lemma che dà il titolo alla raccolta deriva dal lat. transparēre, composto di trans e parēre: mostrarsi attraverso, essere visibile. Borio, di conseguenza, si sofferma sul soppesare l’essenza di questo medium con cui ci si rivela, servendosi di un verso dal respiro polmonare, ampio e quasi whitmaniano. I vari social network chiamati in causa, più o meno candidamente, emettono fin da subito un giudizio sommario sul nuovo adepto, perciò, per dirla nei termini dell’autrice, è richiesta una forma, “ciò che volete io dia”. Il medium che impedisce la trasparenza auspicata nel porsi di fronte all’altro, conduce immediatamente ad una sorta di contraffazione del proprio essere che ha la natura di ciò che nel lessico tedesco si direbbe vorstellen, rappresentare ossia vorstellen: porre innanzi. Un rappresentarsi agli altri “nello schermo come una casa azzurra”. (Ivi, p.5). In questa raccolta dalla struttura ternaria, quasi trinitaria per la capacità di tenersi ognuna sul grembo dell’altra (tre sezioni dal titolo “Il puro”, “L’impuro”, “Il trasparente”) l’itinerario della mente verso la trasparenza ha tappe precise, scandite con estrema perizia: nella prima sezione, la coscienza – chiamando in causa un linguaggio quasi husserliano – che si sente “come capelli sulle spalle”, per non ridursi alla proiezione della sagoma, dato che “tutti in quella […] sono vuoti”, “ha strappato un cavo elettrico con i denti” (Ivi., p.10). La connessione si interrompe, il filo elettrico che tiene connesso all’etere viene divelto per riconfigurare l’esperienza del tempo della coscienza che ora, autoriferita, sganciata dall’altro intermittente, si vede dall’alto come un punto dentro la piscina. Tuttavia, questa coscienza che si scruta, si soppesa è insufficiente, tanto da far parte “del male” raccontato all’inizio della seconda sezione “L’impuro”: “l’uomo che diviso per se stesso come […] numero diviso per zero dà zero, e zero diviso per zero: zero” (Ivi. p. 37). Il gioco dell’autoreferenza conduce spettralmente ad una catena di zeri. Il male quindi che evoca Maria Borio, come direbbe Morselli, non ha a che fare col moralismo: “male non in senso morale, si capisce; il male morale comincia e finisce con il moralismo, il solo male è […] l’individuo che soffre, a cui manca quello che gli occorre per essere (Morselli, Dissipatio H.G., p.64).  Si chiama in causa una mancanza incastonata nella piaga dell’essere (“il solco dietro la nuca” ripetuto anaforicamente in un componimento della prima sezione) che mette in condizione di un “ritorno al tu”, per parafrasare l’esergo zanzottiano, posto all’inizio della seconda sezione. L’impurità della commistione è necessaria: la conoscenza dell’altro limite o del limite dell’altro è superabile solo con l’altro:

Una volta immaginando dalla punta della collina

le differenze vedevano contorni netti

scompare nell’erba. Lì e qui

 

portano un cosmo e noi fragili, indivisi

con i piedi nell’acqua bruciamo l’io

che può essere tu, il tu che può essere infine io.

(Ivi., p.85).

 

Ma il passaggio che consente il superamento e la conciliazione tra le due polarità opposte del puro e dell’impuro è interamente compendiato dalla prospettiva aperta da questo verso:

Tutto sono io nello schermo, io è tutti.

(Ivi., p.86).

La trasparenza si tratteggia come versöhnung, momento di sintesi tra la coscienza scardinata dalla connessione e lo zanzottiano “ritorno al tu”: “trapassare quello che si vede e se stessi in quello/ che si vede – unire la collina e il mare in un solo punto luce” (Ivi., p.129). L’ultima sezione rimodula la realtà del virtuale, nella sua necessità, diluendo l’iniziale iconofobia nell’allegoria del cielo, dove c’è la comunione dei punti-luce:

“Il cielo è trasparente, è armonia: significa collegamento, connessione, come viviamo l’era, come dice solitudine trasmessa, guerra, pace, virtuale. Rete e corpo si schiudono, gli ologrammi strappano la natura al cielo e la fondono ai sentimenti: queste cose fragili rendile libere e unite al di sopra, al di sopra, al di sopra. Il cielo è un uomo nero perché addensa”.  (Ivi., p.121).

Proprio da questa diapositiva di senso consegnata da Borio, in cui la trasparenza del cielo assurge a modello simbolico di superamento della dialettica tra coscienza e altro in quanto limite e in quanto contaminazione, si dirama l’opzione di un piano di appartenenza comune, in cui i punti-luce convergono nello stesso orizzonte. Eppure, il punto, per evitare “il male” tracciato nella seconda sezione (l’autoreferenza), diventa emblema della trasparenza in quanto riassume su di sé qualsiasi dimensione del piano euclideo. Di recente è uscito un inedito dell’autrice, pubblicato dal Corriere della Sera, in cui si delinea la condizione contemporanea della “zona rossa”, dell’isolamento coatto, dove Borio, da una parte si mostra, trasparente, nella propria puntualità, esule nel deserto rosso ma, parallelamente, nota “che se un punto/ non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé”.

Sono un punto solo nel deserto rosso:

oggi è questa la mia dimensione, un punto

che non ha lunghezza, larghezza, profondità,

caduto dalla parte più alta del cielo su una terra

piena di silenzio e pura improvvisamente.

Ti scrivo dalla zona rossa, ed è questa la verità:

i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio

senza entrata né uscita, e tutti sono come me,

punti soli, senza illusione, nella prima primavera

del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.

Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto

non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?

Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno

hanno un unico colore, e impariamo a pensarci,

e un bene, come mai, nuovo.

Maria Borio

Bibliografia di riferimento

Maria Borio, Vite unite, in XII Quaderno di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2015.
Mario Borio, L’altro limite, pordenonelegge-Lieto Colle, 2017.
Mario Borio, Trasparenza, Interlinea, 2018.

 

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di Pietro Polverini

Pietro Polverini (Camerino, 1992) vive a Macerata dove, dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filosofia con una tesi dedicata all’opera di Amelia Rosselli, sta perfezionando i suoi studi con un secondo percorso in Filologia moderna. Oltre all’attività critica, testimoniata da contributi su Tondelli, Valduga (in corso di stampa) e Rosselli, si dedica alla scrittura letteraria: i suoi versi sono apparsi sul quotidiano La Repubblica per la Bottega di poesia a cura di Gilda Policastro, su Il Visionario e infine sulla rivista Poesia Inverso.

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