Riprendo la mia ricognizione sul saggio La ripetizione dell’esistere – L’opera poetica di Vittorio Sereni di Remo Pagnanelli, occupandomi della seconda parte dedicata alle raccolte della maturità (Gli strumenti umani e Stella variabile).
A Gli strumenti umani Pagnanelli dedica il capitolo più corposo del suo saggio. Il maceratese riconosce, in linea con la critica che lo ha preceduto, che la poesia di Sereni con la quale tutti avrebbero dovuto fare i conti (assieme ai momenti più lirici delle raccolte precedenti), compaia a questa altezza: è la svolta, la poesia che libera la lirica italiana dalla “dittatura” di Montale, Ungaretti e degli Ermetici. Per addentrarsi in una delle raccolte più complesse del Novecento italiano, Pagnanelli parte dal presupposto, il silenzio intercorso tra il Diario e Gli strumenti, 18 anni non di inerzia, ma di sottile defilarsi da un mondo avvertito come estraneo. Un silenzio apparente, vista l’attività di traduttore, le poesie sparse in rivista, le prose de Gli immediati dintorni uscite in parte in rivista, e poi pubblicate nel 1962. Silenzio apparente e dalla natura duplice, chiarisce Pagnanelli:”sintomo di una incrinatura personale da un lato e rigetto di un ruolo prestabilito della poesia dall’altro”. L’ “avara vena” deriva da un ripensamento dell’immagine “pubblica” di poeta, da una parte; dal non superamento del “male del reticolato”, la mancata partecipazione alla Resistenza e le delusioni del dopoguerra, dall’altra. Non va dimenticata, per il primo aspetto, la presenza nel luinese di una vergogna di essere poeta, poichè la poesia non ha strumenti privilegiati di conoscenza della realtà, è solo uno dei tanti modi di conoscerla (“Ma tu hai la bellezza…/Chiacchiere”, A un compagno d’infanzia); la rivendicazione che la poesia è legata a una necessità di scrittura che induce Pagnanelli a parlare del metodo-Sereni e della sua poesia intesa come “organismo vivente”. Dietro il “silenzio creativo” (prosa de Gli immediati dintorni) si celano tempi di redazione lunghissimi, un intervallo molto ampio tra emozione e stesura, e, chiarisce Sereni stesso, “non più il tentativo di fissare un momento, ma di cavare da quel momento qualche cosa che lo superi”. Riportando frammenti di interviste e di pseudo-poetica (non esiste un vero e proprio saggio di poetica del luinese), Pagnanelli insiste sul rifiuto, da parte di Sereni, di poetiche prestabilite; ci parla invece di una partita mai chiusa, una poetica quanto mai fluida, “eraclitea”, in perpetuo divenire. Il silenzio creativo di Sereni non ha nulla a che vedere con un lungo esperimento di laboratorio a freddo; deriva invece dallo sforzo enorme, di coerenza-sofferenza, per distaccarsi dalle proprie radici. Basti prendere il poemetto Una visita in fabbrica, dove è evidente il tentativo di affrontare la nuova realtà dell’Italia industriale: gli strumenti umani del poeta sono ancora quelli della tradizione umanista (vedi le citazioni dantesche), incapace però di catturare una materia tanto diversa. Ma l’apparente silenzio di Sereni è quello che permette l’ascolto, il confronto con lirici tanto lontani dalla sua poetica, come i prediletti Char e Williams, da lui tradotti; il silenzio è presupposto di apertura e dialogo, come nei primissimi versi della raccolta (“Con non altri che te/è il colloquio”, Via Scarlatti) e nell’ultimo (il “Parleranno” de La spiaggia). Del resto l’esigenza di colloquialità era presente già nel “parlato” del Diario d’Algeria, il lungo colloquio con sè stesso e con i fantasmi, le apparizioni della prigionia; un dialogo disperato che ne Gli strumenti lambisce il soliloquio grottesco. La lotta col mondo e con sè stessi non giunge mai a una pacificazione; e questa drammaticità, che salta del tutto la “bella biografia” e trova addirittura insopportabile la qualifica di poeta, è spia, secondo Pagnanelli, di quanto Sereni, pur nella complessità, creda ancora problematicamente alla poesia. Ciò che è evidente, ora, una volta per tutte, è la messa in crisi della poesia rispetto a come veniva idealizzata negli anni trenta. La poesia, per Sereni, ribadisce il maceratese, non è mezzo esclusivo e privilegiato di conoscenza; eppure, dietro la mitografia negativa d’insieme, pare celarsi, secondo Pagnanelli, il mito della poesia come permanenza attiva, la vita come resistenza, essendo, Gli strumenti, un diario esistenziale anche ideologico, civile, impegnato. Il filo conduttore con
Frontiera è diretto, ma fa notare Fortini: ”la vittoria poetica di Sereni consiste nell’aver eroso dall’interno quella sua giovinezza lasciandone sussistere la parvenza, il guscio”. Sereni ottiene il risultato coi mezzi gozzaniani dell’ironia, dell’autoironia, la falsa retorica, la violenza sarcastica e grottesca. Non ripudia nemmeno quegli strumenti che servivano ai poeti del Primo Novecento per affermare la loro estraneità, il rifiuto, l’isolamento; al contrario, senza patteggiare, come l’ultimo Montale, usa quegli strumenti per tentare di capire la storia. Tecnicamente il poeta di Luino perfeziona la tecnica del parlato, che già aveva soddisfatto l’esigenza comunicativa del Diario, tramite gli espedienti stilistici dell’iterazione e della reticenza: Pagnanelli ricorre esplicitamente alla critica ormai classica di Fortini e Mengaldo. L’iterazione, spiega Pagnanelli, ha una causa psicologica precisa nella paura della ripetitività dell’esistere, che provoca angoscia e ossessione. E, chiarisce Mengaldo, da post-ermetico Sereni cerca di fondere colloquialità narrativa e liricità, con una “lievitazione lirica del discorso interiore”. Lo stile diviene, da una parte un reticolato protettivo di certezze, dall’altra una prigione da cui evadere. Si ripropone , dunque, la metafora della frontiera, in questo caso nella scrittura stessa; Pagnanelli non esclude l’ipotesi psicanalitica che fa dello stile e della pagina una diga a difesa delle irruzioni della vita. Rimanendo allo stile, il maceratese fa notare quanto la colloquialità, l’incontro con le presenze naturali e non, si tramuti spesso in dibattito, scontro, nella forma del sogno o dell’incubo. Il dettato si infittisce di interrogativi, punti di sospensione, citazioni e autocitazioni che si inseriscono in un contesto in piena agitazione, esaltando la problematicità del rapporto cultura-esistenza, la memoria continua del travaso della cultura nella vita. E se per Gozzano Montale scrisse che dava scintille facendo cozzare l’aulico e il prosastico, il pastiche linguistico del luinese, lontano dalla poesia sperimentale, contrappone una lingua piattamente comunicativa a un’altra altamente espressiva. Torniamo al poemetto Una visita in fabbrica, dove si confrontano due tipi di linguaggio e due tipi di esperienze, quella operaio-industriale e quella di un umanista. Sereni è combattuto, non sa e non può scegliere. Ma alla fine la poesia del luinese si sostiene sulla cultura ed è più che mai letteraria; basti vedere l’incidenza di Dante, poeta del tempo drammatico per eccellenza. Come si può, di fronte a una tradizione così alta, non considerare che Sereni dia ancora credito alla poesia? La rivoluzione consiste piuttosto nello scoprire, alla fine del viaggio, che le poche certezze restano l’amore, l’amicizia, il dialogo ininterrotto (Mengaldo: “il dialogo, prima che strumento di verifica di idee e sentimenti, è verifica del proprio stesso esistere”). Certo è il rifiuto di un’idea preconcetta di poesia: colpisce il pudore e la prudenza di Pagnanelli nel ricorso al paragone ardito, rispetto al gusto smodato per l’iperbole di tanta critica di oggi, per dimostrare che Sereni abbia un atteggiamento simile a quello dei pittori veneti (Giorgione) del ‘500 e degli impressionisti, il quadro dipinto pennellata dopo pennellata senza un’architettura preesistente (“ideare facendo”). Montale in proposito aveva parlato di un poetare che adottava “un procedimento accumulativo, inglobando e stratificando paesaggi e fatti reali, private inquietudini e minimi eventi quotidiani…”. Che basta a spiegare perchè Pagnanelli definisca Sereni un poeta eracliteo, il testo un organismo vivente inteso come sistema in continua metamorfosi.
Quanto al verso de Gli strumenti umani, se Luzi ha parlato di “nostalgia del verso” e di “stretta aderenza al flusso psichico di cui il testo è semplice taglio”, che conferma il rifiuto di una composizione preliminare, di nuovo Montale fa notare quanto il “polimetro” non sia nè un verso del tutto libero, nè tantomeno prosa. Il verso, chiarisce il Nostro, non ha più un’evidenza, spesso anche tipografica, ma è ancora lo strumento che scandisce il tempo interno. Del resto lo stesso Montale per la terza generazione aveva parlato della necessità di “attingere al grande semenzaio della prosa”, alludendo a un’espansione della poesia nei territori della prosa che non comportasse un abbassamento o annullamento dello slancio lirico; allo stesso modo Bertolucci in una dichiarazione del 1962 affermava: “La poesia si nutre di prosa, utile a sfamarla, ma non ha contatti con essa. Può anche fingere d’imitarla, ma guai se non è ben conscia di fingere e la imita sul serio”.
Le conclusioni di Pagnanelli, prima della consueta disamina dei testi della raccolta, ci parlano di un Sereni che conserva il gusto della concinnitas e un impianto, dagli inizi fino alla fine, sostanzialmente classico; la sua poesia “non ripudia interamente la propria origine (la fede assoluta nella parola) ma la contamina con la storia salvandone il nocciolo”. La concinnitas è al servizio della poesia come problema: resta la “teologia negativa” (“Non ho una cosa da affermare in assoluto, una mia <verità> da trasmettere. Ho dei conti da saldare con l’esperienza”, da una lettera del ‘61) ma più aperta, una negatività attiva, mai doma, e, in fondo, una negatività positiva. Lo fa risaltare Piovene nella retrocopertina de Gli strumenti, riconoscendo come Sereni sapesse “dare parole adeguate alla gioia. Le sue accensioni subitanee (che non hanno nulla a che fare con la felicità, raramente poetica) squarciano i versi di Sereni con la stessa forza con cui partono, come a razzo, certi suoi endecasillabi. Sono le illuminazioni fulminee dell’amore e dell’amicizia”. Lo stesso Fortini riconosceva nel suo sodale colui che meglio di ogni altro aveva saputo parlare dell’amicizia.
Negli interventi degli anni ‘80 su Sereni, Pagnanelli insiste molto sulla capacità d’ascolto, da parte del suo maestro, delle voci più disparate del mondo, sul “silenzio creativo” che ne deriva, la lunghissima gestazione dei suoi testi, più in una fase ideativa e avantestuale che nelle varianti, quasi assenti (di contro ai continui ritocchi ungarettiani). La metafora della frontiera, che abbiamo già trattato nella prima parte, resta, ne Gli strumenti, l’ossessione e il mito personale di Sereni, prima escluso dall’avventura liberante della Resistenza (Diario d’Algeria), ora dalla società industriale e del benessere nel dopoguerra. E’ il risveglio di un male infantile e iniziale:“in un ricordo di Piero Chiara il bambino Sereni, di salute cagionevole è costretto anche per differenza di classe, ad osservare da dietro i vetri della casa i compagni intenti al gioco”, riporta Pagnanelli.
L’esperienza ermetica viene definitivamente liquidata. Del resto, se Ramat aveva notato come l’Ermetismo fosse l’unico indirizzo di gusto stilnovista, con un topos dell’attesa puramente teatrale e devitalizzato, esorcizzato nella “letteratura come vita”; al contrario Sereni si espone sempre alle sollecitazioni della storia, quasi volesse perennemente mostrare quanto la vita ecceda la poesia e solo aderendo con strumenti umani di grande coerenza e onestà (segnalo qui il fondamentale scritto di Pagnanelli Punti per un’improbabile etica poetica, presente in Annuncio e Azione – L’opera di Remo Pagnanelli, che testimonia della tensione etica che intride la sua visione della poesia) sia possibile rinnovare la poesia stessa. Tutto ciò pur essendo il luinese cosciente, come vedremo, dell’insufficienza della poesia a dire la vita.
Che con Gli strumenti umani Sereni liquidi in qualche modo il proprio passato è evidente soprattutto nella prima sezione, Uno sguardo di rimando: fin dalla prima poesia, Via Scarlatti, ricompare in apparenza il bozzetto idillico di Frontiera, ma il ritorno al passato è di rottura. E già nella prima sezione troviamo i temi dell’invidia, la gelosia, il rimpianto della giovinezza e la reazione rabbiosa, il tradimento e la colpa inespiabile. “Il momento del definitivo distacco dal passato” (Memmo) è sancito dalla centrale, per questa sezione, Ancora sulla strada di Zenna. Il tempo nuovo, di provvisorietà e incertezza, è il tempo degli squali dell’omonima poesia, da cui l’unico conforto dell’amore e dell’amicizia.
Di Una visita in fabbrica, seconda sezione, e primo poemetto sereniano, si è già accennato in precedenza: ma qui Pagnanelli ci parla, da una parte, dell’equiparazione tra inferno della guerra e inferno della fabbrica, due casi di relegamento, la prigione e la fabbrica; dall’altra dell’accostamento tra i Purgatori, prigionia-realtà capitalistica industriale.
Il conflitto con il presente si intensifica nella terza e quarta parte, Appuntamento a ora insolita e Il centro abitato: alla “chiarezza” lapidaria di certe chiuse (Sereni reso dalla storia “Un disincantato soldato/Uno spaurito scolaro” ne Il grande amico) si unisce la resistenza attiva, una “caparbia intransigenza morale, volontà di chiarezza intellettuale e di denuncia” (Caretti), come nella “civiltà” di Saba dell’omonima poesia. Il poetare, scrive Pagnanelli, diviene a quest’altezza “strumento spietato di critica alla società colpevole di uno sviluppo caotico e priva di ideali”, Sereni un “caustico fustigatore della borghesia a cui appartiene”, degradata dalla corsa al guadagno e dalla stupidità. Esacerbato, il poeta condanna il dopoguerra, peggiore della guerra stessa (“Non lo amo il mio tempo, non lo amo”, Nel sonno). Da qui la vendetta dei morti. Sereni sceglie poi la forma mitica e favolosa dello sport, la chiarezza di una lotta senza ipocrisie, fantasmi, trucchi. E di pari passo la chiarezza e il vigore dell’amicizia (la poesia Gli amici e Sul rovescio d’un foglio, ne Gli immediati dintorni:”il senso che l’amicizia ancora riesce a dare, come rimedio, l’ordine che a suo modo riesce ancora a mettere nella confusione e nell’incomunicabilità; lo strumento di distinzione e di giudizio sulle cose che essa riesce ancora a proporre”).
La fedeltà alla parola poetica resta, ma ne I versi il poeta esprime lo scontento per una fatica improduttiva: la visione in negativo non cede a nessuna falsa lusinga; questo scaturisce dalla bellissima ripresa di un passo de I colloqui con Kafka di Janouch (“Si fanno versi per scrollare un peso/e passare al seguente” rispecchia il kafkiano “Per l’artista l’arte è un affanno mediante il quale egli si rende libero per un altro affanno”).
Il fulcro della fondamentale, ultima sezione, Pagnanelli lo individua in quello che chiama il trittico Dalla Germania (Dall’Olanda, La pietà ingiusta, Nel vero anno zero), le poesie sulla società tedesca e l’orribile eredità nazista: Sereni riapre le vecchie ferite, le mette a nudo; con un registro e in uno scenario da incubo, dominano i morti, che non dimenticano e accusano gli aguzzini. In Dall’Olanda la scrittura è esplicitamente testimonianza di libertà e condanna dei carnefici. A dominare l’ultimo capitolo del libro è dunque la morte, ma prima ancora che come vendetta, come verità e memoria che gravano sulla Germania del benessere e su tutti. E questo vale anche per il “Parleranno” dei morti ne La spiaggia: giunti all’epilogo la poesia non chiude mai definitivamente alla speranza, Sereni mantiene la fiducia nella parola (il verbo al futuro); pur nella consapevolezza disperata di un deserto umano (la spiaggia come simbolo decadente di limite-limine), la poesia cerca il miracolo laico nella comunione coi morti tramite finzione poetica, nella commistione con gli oggetti della natura (“quelle toppe solari”).
Dalla contraddittorietà feconda di una poesia “ad ogni passo negata e sempre risorgente”, emersa ne Gli strumenti, Pagnanelli prende le mosse per affrontare i frammenti usciti negli anni Settanta che andranno a comporre Stella variabile, del 1981 (ricordiamo che il libro di Pagnanelli è del 1980), opera estrema sereniana, peraltro ripresa anche nei saggi del maceratese successivi alla morte di Sereni (1983). Come per tutta l’opera del luinese, anche Gli strumenti umani non riposano in conclusioni definitive; il discorso rimane aperto, la partita tutta da giocare. Il “negativo” è perennemente contestato dal miracolo, da un’aura di religiosità che avvolge Sereni come altri poeti laici (Montale); e la religiosità, la profonda etica dell’esercizio poetico muovono il desiderio di capire e di guarire dall’estetismo. Fino alla fine nel poeta di Luino possiamo cogliere quanto la vitalità della poesia sia inversamente proporzionale alla sua esiguità quantitativa.
Le ultime pagine del libro di Pagnanelli indagano soprattutto il poemetto Un posto di vacanza, vertice della maturità di Sereni e fondamentale poesia sulla poesia di un autore da sempre avverso alle questioni di poetica o alle speculazioni concettose, che tuttavia si interroga sulle ragioni del proprio mestiere. Un ulteriore processo di chiarificazione al quale ha contribuito l’attività di traduttore (“Per capire un poeta di lingua diversa l’unica cosa da fare è tradurlo”, scrive Pagnanelli), esercizio fondamentale su poeti molto distanti da Sereni, Seferis, Kavafis e, più lontano di tutti, Char, sul quale lo stesso Sereni scrive:”L’opera di Char è formicolante di riflessioni sulla poesia, di vere e proprie definizioni di questa all’interno dell’opera stessa…Quando Char nomina la poesia, nomina il corpo della realtà, cioè la folgorante – ossia fugace – evidenza di questa. E a volte, nominandola, è come se alludesse a un testo preesistente e scomparso oppure a uno in via di formazione, al passaggio già avvenuto oppure prossimo e presentito di qualche divinità, di un evento di cui le parole siano sintomo o deposito o traccia superstite”.
Un posto di vacanza si pone in forte continuità con Gli strumenti: lo scriba trova il proprio strumento spuntato, la scrittura lo ha tradito. E se da una parte, per Lavori in corso, Pagnanelli ritorna sulla natura di “organismo vivente” della poesia di Sereni, lo “work in progress” del suo canto dimidiato, in un perenne dialogo tra poesia e prosa in cui la lirica viene composta con gli scarti della prosa, data la “maggiore duttilità poliglottica e inclusiva (Raboni) di quest’ultima”; dall’altra il maceratese rinnova la sua lettura di Un posto di vacanza dando un’ulteriore testimonianza della sua instancabile capacità di ascolto e di esegesi. Pagnanelli va oltre l’analisi della funzione della poesia nella società industriale e oltre la “glaciazione” dello scriba: l’attraversamento dell’inverno della Storia si compie in un fiume eracliteo di immagini che accompagnano la meditazione sull’estate che si spegne e sul declino della stagione della maturità. Il dettato e la sintassi paiono più scorrevoli che ne Gli strumenti umani, attraversati da lampi improvvisi di gioia e di invenzione memoriale, se alla tramatura di dialoghi mancati, presenze e voci misteriose, accostiamo il virtuosismo dei paesaggi. Ancora una volta i nodi dell’esistenza e il pensiero della morte non cedono il passo alla rassegnazione. Pagnanelli fa sua la lezione di “un uomo leggendario” la cui fedeltà alla poesia non viene mai meno, anche quando la parola sembra averlo tradito. Ed è naturalmente da questa lezione che dovrebbe partire chi volesse approfondire il Pagnanelli poeta, come dalle parole con cui concludo questa mia ricognizione, poste al termine del capitolo su Gli strumenti umani del suo davvero fondamentale La ripetizione dell’esistere. Parole che a ben vedere testimoniano di una fedeltà che intride sia l’opera di Vittorio Sereni che quella di Remo Pagnanelli:”Se il verso non è tutto è puranche qualcosa che rinnova la nostra presenza nel mondo: questo è l’unico miracolo che ci si aspetta dall’esistenza”.
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Qui sotto il link alla prima parte dell’articolo di Ezio Settembri dedicato a Remo Pagnanelli:
“La ripetizione dell’esistere”. L’esile mito di Sereni raccontato da Remo Pagnanelli