(La lettera fa seguito a un carteggio tra Tommaso Di Dio e Gianluca D’Andrea, pubblicato qui, qui e qui.)
Cari Tommaso e Gianluca,
cerco di insinuarmi nella vostra conversazione, approfittando di un’apertura che mi è consentita non soltanto dalla forma del vostro scambio, ma anche dalla vastità delle riflessioni con le quali vi state misurando.
Parto dal rifiuto della militanza, per chi pratichi la poiesis – così com’è stato espresso a più riprese da Tommaso – a favore, invece, di quella “militanza dentro la lingua” che è propria dei “logonauti”. Ora, lo slittamento semantico da “militanti” a “logonauti” è affascinante e rende conto in modo molto efficace di una certa etica della scrittura, ma è veramente questo l’orizzonte verso cui tendere? A quel punto, in che modo?
Gli esempi citati – da Rimbaud a Bei Dao, passando per Umberto Saba – sono di certo rilevanti, perché il discorso di Tommaso, e voglio insistere su questo punto, mi sembra assai fondato, almeno nella sua pars destruens: a partire da una lettura fondata sugli effetti del testo, si può certamente riconoscere il divario tra una poesia e un dazebao, e si può anche evidenziare quanto sia sterile, per molti versi, quest’ultima forma. (Mi sembra altrettanto sterile, per altri motivi, anche la forma poetica più, diciamo così, “purificata”, ma lasciamo stare, per il momento…).
Quello che mi colpisce, e che è stato rilevato anche da Gianluca, è la presenza, in un discorso che ne è apparentemente lontano, di una poetica precisa – forse residuale, forse en travesti – all’interno di affermazioni come questa: “Una lingua, fosse anche la più sperimentale, tutta piegata al significante asemico, può risultare biecamente conservatrice in un certo contesto e invece la limpidezza semantica possono rivoltare il cuore e la mente”. Tralasciando l’ambiguità teorica che si porta dietro la definizione di “significante asemico”, l’assunto potrebbe essere comunque rovesciato: lo sperimentale/asemico può benissimo essere rivoluzionario, “almeno in un certo contesto”, e la limpidezza semantica, per contro, assumere valori reazionari.
Ancora, e al di là di ogni sofisticazione argomentativa, è il riferimento a “un certo contesto” che ai miei occhi rende il tutto un po’ contraddittorio: se la lettura è basata sugli effetti del testo, quella stessa ricezione si espone alla possibilità della sua storicizzazione – operazione che rende instabile, ad esempio, il concetto di “limpidezza semantica” di cui sopra. In altre parole, la consapevolezza del fatto che “chiarezza antiretorica, erotica e oscena” di Saba “durante gli anni del regime era la vivente manifestazione di una differenza irriducibile al canone estetico del fascismo” è, in realtà, una consapevolezza acquisita gradualmente nel tempo, e non senza difficoltà, più che un effetto dirompente nel contesto del regime.
Se ancora questo può sembrare un sofisma, allora ribadisco più chiaramente, facendomi scudo delle parole di Fredric Jameson: “Storicizzare sempre!”. Non si tratta affatto di ribadire uno storicismo spicciolo e marxisant: il posizionamento di Jameson, ad esempio, è sempre stato eclettico, dal punto di vista metodologico, al punto di includere lacerti psicanalitici e passaggi deleuziani anche in quei saggi che sono stati a lungo considerati il cascame di una critica marxista d’antan – penso, per deformazione professionale, al saggio Third-World Literature in the Era of Multinational Capitalism (1986), ma gli esempi potrebbero essere molti. Alla luce di questa digressione, condivido l’utilità di sottolineare la vacuità di certi esiti della “militanza” – cito: “impegno civile = impegno letterario (falsa equazione del padre di famiglia)” e “impegno civile = lingua della rivolta (falsa equazione dell’anarchico borghese)” – ma tali figure ed equazioni, a loro volta derivanti da un preciso discorso della psicanalisi, non possono essere considerate come rigidi assiomi trans-storici, poiché assumono valori diversi – non di rado anche positivi e trasformativi – in funzione del contesto nel quale sono di volta in volta calate.
Un’altra parola che emerge da questi ultimi appunti è impegno. A questo proposito, Tommaso, rincari la dose: “Non basta essere bravi cittadini per essere poeti”. Verissimo, ma – davanti alle sempre possibili, e sempre accadute, nefandezze private e pubbliche di chi viene nominato, almeno da una parte dei lettori, “poeta” – consentimi il rovesciamento, come sempre: “Non basta essere poeti per essere cittadini” – oppure anche “rivoluzionari”, “anarchici”… o quel che si vuole, insomma. Ho scientemente espunto il bravo, perché l’aggettivo, insieme al già ricordato impegno, insiste di nuovo sul piano dell’etica e non su quello della politica – proseguendo, così, nella mistificazione ideologica che è calata da tempo sulla “fine delle ideologie” post-1989 e che vorrebbe sanare i conflitti sul piano dei valori, anziché affrontarli nella materialità dello spazio pubblico.
Spazio pubblico che continua ad esistere – secondo modalità talora più opache, talora più trasparenti – nonostante la Realtà si configuri come un “delirio dei social” e, attraverso il filtro di questa espressione (sulla quale vi dite tutto sommato d’accordo), presenti tratti à la Deleuze o à la Baudrillard. Ora, cercare di occupare interamente quello spazio pubblico – cercare di porre la parola poetica all’avanguardia della rivoluzione, come si sarebbe detto ormai molti anni fa – è un pio desiderio, fortunatamente mai realizzato. Al suo interno, infatti, si possono nascondere errori e nefandezze ideologiche; allo stesso tempo, però, rinunciare a qualsiasi presa su quello spazio e cercare una risposta che sia radicalmente diversa da quelle tradizionalmente offerte dalla militanza è un’opzione legittima, sì, ma non per questo priva di difficoltà.
Parlate, a questo proposito, del ricorso al mito. La mitopoiesi si configura come irruzione di un “altro tempo” nel tempo storico – caratteristica che Tommaso rintraccia giustamente nella poesia di Francesco Maria Tipaldi, ma che si potrebbe ritrovare in tanta altra poesia contemporanea, ivi compresa parte della cosiddetta “poesia civile” – ma questo non esclude che l’“altro tempo” così costruito possa qualificarsi come una visione non già a-storica, bensì deutero-storica – ricorrendo, magari, a modelli di temporalità complessi, eppure chiaramente marcati dal punto di vista ideologico-politico, come quelli di Ernst Bloch o di Walter Benjamin.
Al mito, poi, è inscindibilmente legato il rito: condivido l’importanza di riflettere sulla ritualità della poesia (tema assai rilevante, ma che supera i limiti di questa lettera), ma, ancora una volta, ogni rito procede da una situazione storicamente e culturalmente determinata e in essa si esaurisce – a meno di non crederci, anche, conferendo valori religiosi, o comunque trascendenti, a una data mitopoiesi.
Infine, entrambi citate le pagine barthesiane sul mito, ma queste, a mio avviso, possono essere utilmente accostate all’opera di Furio Jesi e a uno dei suoi moventi fondamentali, ossia la necessità di legare la mitopoiesi a una sua comprensione analitica, di matrice illuministica, che ne riconosca la funzione culturale e politica inemendabile, ma anche i limiti nella sua socializzazione.
Sono dunque d’accordo con Gianluca quando ricorda che chi pratica la poiesis restituisce il Reale solo attraverso la propria alienazione, ma non per questo “il poeta è escluso dal politico” in via definitiva – molti ne sono esclusi, secondo modalità ben più gravi e illuminanti rispetto alla costruzione e al futuro della polis. Non rinunciare alla presa della parola poetica sulla realtà – non come realtà già data, ma come realtà che resta, almeno parzialmente, invisibile e opaca al tentativo di restituzione culturale – significa anche riconoscere la sua ridottissima presenza nello spazio pubblico, senza per questo esprimersi in senso vagamente dadaista, in realtà consolatorio: “La poesia è morta, viva la poesia!”. La presenza limitatissima della parola poetica nello spazio pubblico non costituisce altro che il segno di un posizionamento, prima che di un’identità – evitando così i rischi di identity branding che assediano molte recenti operazioni editoriali – e permette ad una parola, per così dire, “spuria” di confrontarsi con gli altri saperi e i loro confini.
Non capisco, quindi, i motivi di tanta acribia nei confronti della sociologia, in particolare della sociologia della cultura: se è vero che la proliferazione delle etichette – “poesia civile”, “poesia orale”, “scrittura di ricerca”, etc. – comporta, in generale, un certo svuotamento semantico, continuo a pensare che l’alternativa non possa essere una “purificazione” o, peggio, un’assolutizzazione, della parola poetica. Poi, la propensione sociologica alla tassonomia mi è sembrata spesso rilevante, a partire, sempre, da una lettura basata sugli effetti del testo e non aprioristica. Vi dico, brevemente, di due occasioni. Quando mi sono confrontato con la ricezione italiana di Kate Tempest per la stesura di un saggio accademico (ancora in fieri), mi sono trovato a riconoscere che il ragionamento sui limiti reciproci di “poetry slam”, “poesia orale”, “spoken word”, etc., serve, ad esempio, a stare ancorati alla ricezione, invece di ricorrere a fumosi percorsi nella storia e nell’antropologia delle culture orali. In merito alla poesia di Nadia Agustoni, poi, ho ricevuto parecchie critiche – ivi compresa quella dell’autrice, in virtù, in questo caso, di un chiaro posizionamento politico, e non di una rivendicazione identitaria – rispetto all’uso dell’espressione, ormai generalmente decaduta, di “poesia operaia”. Le critiche ricevute mi ricordano che ogni tassonomia è generalizzante e al tempo stesso castrante, mancando, spesso, di reale adeguatezza al caso concreto. D’altra parte, però, non mi sento di negare in via definitiva che un certo rinvigorimento e una certa trasformazione della definizione in oggetto – “poesia operaia” – si possano annoverare proprio tra gli effetti che possono essere provocati dalla lettura di una parte considerevole dell’opera di Nadia Agustoni – al pari di autori diversissimi tra loro, e da Agustoni, come Fabio Franzin o Luigi Di Ruscio.
Percorsi di senso non semplici e accomodati, insomma, e inclini all’errore; voi suggerite, invece, di cercare la verità. Bene, ma questo per me vuol dire precisamente confrontarsi con gli altri saperi: non per uno sterile e consolatorio esercizio di relativismo, non per avvitarsi dentro alla gergalità di un discorso elitario – pienamente d’accordo con te, su questo punto, Tommaso – ma per mantenere vivo il processo trasformativo che inizia con ogni poiesis, magari attraverso l’esperienza e l’esercizio della contraddizione. A tal proposito, mi posiziono anche io: le esperienze culturali e politiche consolidatesi all’epoca del cosiddetto “riflusso” e, più recentemente, all’insegna di un ritorno in auge del nichilismo non mi convincono: formalmente eccellenti, culturalmente affascinanti, non sono posizioni, per me, abitabili.
In relazione a questo, e per concludere: dietro alla “militanza” – nemmeno io ho fornito alcuna pars costruens: la sfida resta aperta – è sempre aperto il problema del posizionamento intellettuale: da dove, per chi e con quali scopi siamo parlati e parliamo. Mi concentro soltanto sul luogo: non credo che quel luogo dal quale essere parlati e parlare possa essere sempre, e ineludibilmente, la macchina, nemmeno la macchina della lingua: l’esigenza, per quanto fantasmatica e a tratti delirante, di abitare spazi privati e pubblici non può essere soppressa.
Sempre a proposito di macchina – perché, comunque, è nella macchina della lingua che stiamo e probabilmente continueremo a stare… – vi è sempre la possibilità che un granello di sabbia, sparso consapevolmente o inconsapevolmente che sia, possa inceppare l’ingranaggio. Non è il granello di sabbia, in sé, ma la sua stessa possibilità a indurmi a ragionare sul nostro posizionamento intellettuale: possiamo evitare, sempre e in ogni circostanza, la contraddizione?
Non credo; anzi, auspico di incontrarne sempre di più, aprendo il confronto verso altre posizioni ancora: in fondo, finora gli interventi portano tre firme di autori maschi, bianchi, di nascita italiana, più o meno appartenenti alla classe media, etc. … e rilevarlo non è solo cattiva sociologia, o cattiva politica: potrebbe portare a capovolgimenti sorprendenti.
Chiudo con le parole di Adrienne Rich – le cui parole in Notes Towards a Politics of Location (1984), mi hanno ispirato per lungo tempo e forse sono visibili anche qui – cito da Diving in the Wreck (1973), perché “militare”, anche “dentro alla lingua” è sempre anche “esplorare il relitto”, in fondo:
…And now: it is easy to forget
what I came for
among so many who have always
lived here
swaying their crenellated fans
between the reefs
and besides
you breathe differently down here.
I came to explore the wreck.
The words are purposes.
The words are maps.
I came to see the damage that was done
and the treasures that prevail.
I stroke the beam of my lamp
slowly along the flank
of something more permanent
than fish or weed
the thing I came for:
the wreck and not the story of the wreck
the thing itself and not the myth
the drowned face always staring
toward the sun
the evidence of damage
worn by salt and sway into this threadbare beauty
the ribs of the disaster
curving their assertion
among the tentative haunters…
Lorenzo Mari è insegnante nelle scuole secondarie della provincia di Bologna.
Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali: Nel debito di affiliazione (L’Arcolaio, 2013), Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016) e Querencia (Oèdipus, 2019).
In prosa, ha pubblicato Via Mascarella alta e bassa (autoproduzione Libreria ModoInfoshop, 2019) e, con il racconto Un percorso sicuro, ha vinto il Premio Teramo 2019, sezione Under 35.
Ha tradotto dall’inglese: Bless Me Father di Mario d’Offizi (Compagnia delle Lettere ed., 2010, in collaborazione con Raphael d’Abdon); La buona stella delle cose nascoste di Afric McGlinchey (L’Arcolaio, 2016); Il sogno d’inverno dell’architetto di Billy Ramsell (L’Arcolaio, 2018).
Dallo spagnolo: Canto e demolizione. Otto poeti spagnoli contemporanei (Thauma ed., 2013, in collaborazione con Luca Salvi e Alessandro Drenaggi); La precisione dell’indifferenza di Pablo López-Carballo (Carteggi Letterari ed., 2017 – menzione di merito al Premio Benno Geiger 2018); Chroma di Emilio Gordillo (Edizioni Arcoiris, 2018, in collaborazione con Eugenio Santangelo); Sonetti teologici di Agustín García Calvo (L’Arcolaio, 2019).
Ha recentemente curato l’edizione di Zurita. Quattro poemi di Raúl Zurita nella traduzione di Alberto Masala (Valigie Rosse, 2019).
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