È l’unica perla segreta mancante nel concerto. Giugno ’73. Quello che il nostro fa percepire come la perla preziosa nella miniera di diamanti dell’intero repertorio deandreiano. Ma in un certo senso c’è: perché è la trama, il fil rouge di questo splendido concept concert messo in scena da Neri Marcorè, che pazientemente l’ha sognato e costruito da quattro anni in qua. Insieme ai musicisti che si è andato a cercare, perché il risultato fosse quello che le tre standing ovations dello Sferisterio di Macerata gli hanno tributato. A ragione.
Tua madre ce l’ha molto con me, perché sono sposato e, in più, canto.
Il solido Marcorè, piovuto al successo dalla Marca picena. Perché era scritto così. Parte per Bologna a iscriversi alla Scuola interpreti (prima lingua il tedesco), ma non sospetta neanche lui che diventerà realmente interprete in tutt’altra accezione. Ma non si monta la testa. Non ha spocchie di sorta, e – unico nel bestiario dello spettacolo – non ha due vite, due facce, due storie; nemmeno quella pubblica e quella privata. Non mette in piazza la propria intimità, ma è sempre sé stesso: dalla scena all’intimità, il solidissimo e tenero Marcorè. Che puntella il cuore perché non subisca contraccolpi, e al tempo stesso lo asciuga, lo affina, lo rende diafano perché possa interpretare la bellezza.
Non si capisce perché chi nasce interprete debba morire incasellato nel suo ruolo. Forse perché diventerebbe più controllabile? Più gestibile? Più… umano? Non ha capito – la “madre” che gli fa le pulci su Risorgimarche o che gli sottolinea l’esuberanza professionale quasi fosse un difetto e non il gusto dell’intelligenza di artigliare la vita, di andarla a toccare dovunque sa di poterla servire al meglio – non ha capito che è proprio la sua umanità ad essere servita sul piatto d’argento della bellezza.
È quanto accade anche stavolta, con il meraviglioso programma dedicato a De André: un ensamble d’archi diretti dal fiorentino Carlo Moreno Volpini, unitamente allo Gnu Quartet. E Neri in cima, con la sua chitarra che è una bandiera: la bandiera di Fabrizio De André, con la quale il grande cantautore segnò lo smarcamento con la poesia e si consacrò al cantautorato. Per sua stessa ammissione. Per sua stessa presa di posizione.
Marcorè imbraccia la chitarra come un fucile, la soverchia e la apre al cielo, detta i tempi all’orchestra, onora Faber – il quale sicuramente dev’essere presente in una sua qualche maniera, se nella voce di Neri così tanto riemerge, con quei suoi colori inconfondibili, indimenticabili.
Fedelissimo all’originale, Marcorè. Emozionante. Con-movente. In più di un passaggio siamo costretti – quasi – a chiudere gli occhi, a frenare l’emozione dirompente (e le lacrime). Non è una Minetta che fa Mina (come tristemente tocca sopportare certi tributi): è Neri Marcorè che canta Fabrizio De André. Ma lo fa con un rispetto, con un pudore, con una sapidità e con una maestria, che fanno bene al cuore. Che evoca De André e contemporaneamente è Marcorè. Asciutto, filologico, generoso, intonatissimo. Grande.
È la sua cifra stilistica: non gigioneggia mai, si appropria ma non stravolge nessun ruolo, nemmeno nelle imitazioni. Sottolinea con garbo, accompagna. Ha l’umiltà dei talenti veri, che sono sempre più rari. E forse, anche per questo, danno molto fastidio alle mezze tacche. Quale che ne sia l’impiego nello star system: artisti, critici, giornalisti, giornalai… Ma al popolo – che non è bue e mai lo è stato, con buona pace di taluni soloni – arriva fresca la ventata del talento.
Non alla “madre” (che è poi una quasi-suocera, in Giugno ’73). E’ una figura tipologica, che si aggrappa alle calcagna dell’artista e a colpi di fioretto tenta disperatamente di tirarlo giù (o di salire lui grazie allo strale che gli assesta).
La “madre” provinciale fa fatica a rapportarsi direttamente con la bellezza: deve creare un distinguo; ai matrimoni non si contenta dell’amore degli sposi. Deve guardare i dettagli dei vestiti, e trovare una pecca perché – porca miseria – ci deve pur essere, qualcosa che non va!
Il popolo, invece, ha una sua grazia di stato – per così dire. Si sa coinvolgere. Si con-muove. E sorprendentemente, come un re Mida, Marcorè trasforma in oro quello che tocca (e fa toccare a noi attraverso di lui): presenta ed è il più educato, recita e ti squassa. Imita e becca al volo i tic di chi imita. Canta e ti stende, perché lo fa con genio e nonchalance. E in tutto questo è ancora e sempre soltanto lui: così com’è nel privato. E così sulla scena: col suo gilet di vellutino (un caldo inenarrabile, ignoriamo quanto debba aver sofferto, ma è il suo e lui non ci rinuncia). Nella quotidianità. Nella semplicità. Che rimane la più spiazzante e difficile delle arti.
E insieme a lui, intorno a lui – perno indiscusso dell’intera operazione – le meraviglie dell’Orchestra Artem, mai retoriche e per niente barocche (come invece capitò nel peraltro buon disco della London Symphony Orchestra). Stefano Cabrera, violoncellista e arrangiatore, ne ha firmato con tocchi sapienti le evoluzioni (è lui che, con Neri, ha lavorato in questi quattro anni al progetto). Sarebbe una grave lacuna non coronare l’operazione con una più che meritoria incisione discografica.
Ai loro talentuosissimi musicisti, alle loro due coriste Flavia Barbacetto e Angelica Dettori, a Francesca Rapetti (flautista di Teresa De Sio), a Simone Talone (neopercussionista di Francesco De Gregori, scoperto proprio da Marcorè anni fa), al violino di Roberto Izzo e alla viola di Raffaele Rebaudengo, all’imperdibile Domenico Mariorenzi (piano, bouzouki e chitarre acustica e classica: il più duttile e brillante della band), a tutto quello che ci è capitato di sognare, di vedere, di ascoltare, va il plauso convinto per una serata fantastica.