In occasione della presentazione maceratese di Appunti (Arcipelago itaca, 2023) presso la libreria Catap, David Watkins ha collocato la sua raccolta di prose brevi in un genere a parte, data la natura provvisoria dell’appunto, benché nella postfazione Giuseppe Nava parli di questa tipologia di scrittura come oggetto e non come forma del libro. L’occasionalità reale o presunta che contraddistingue questi testi, infatti, è legata a riverberi, indugi, slittamenti sottratti alla dispersione quotidiana mediante la registrazione di annotazioni su un taccuino. Si tratta, però, di un esercizio di approssimazione che denota l’impossibilità di aderire pienamente al vissuto, come Watkins teorizza in Quasi, definito da Nava un «quasi (appunto) programmatico», anche se «in una simile poetica del fuori luogo, dell’interstizio, non si può essere certi che un programma esista veramente»: «Non sempre, ma spesso, molto spesso, diciamo pure quasi sempre, sì, nella quasi totalità della volte, io ho come l’impressione, la patina epidermica, il dubbio non meramente intellettivo, che il mio corpo, la mia voce, le mie parole, i miei gesti non esistano al cento per cento, che essi accadano, certo, che essi si muovano, d’accordo, che essi esistano, sia pure, ma non del tutto».
In Appunti il corpo, che sembra immerso in uno stato di dormiveglia, rappresenta una soglia, un’intercapedine, una cassa di risonanza dove gli eventi si mescolano e si confondono, condizionando la percezione del mondo e la percezione di sé nel mondo. Di conseguenza il soggetto, sospeso nell’incertezza, si estroflette, introietta e rielabora, plasmando la materia e plasmandosi, riconfigurando continuamente la propria identità, mentre la lucidità espressiva e la chiarezza enunciativa del dettato (con incursioni di lessemi ricercati, citazioni colte, combinazioni intuitive e analogiche) favoriscono la messa a fuoco dei dettagli e l’organizzazione di un flusso di corrispondenze potenzialmente magmatico. Seguendo un andamento rizomatico in cui è comunque possibile rintracciare in controluce un filo rosso, questa dinamica compositiva, spesso filtrata dall’ironia, si concretizza nei rovesciamenti di senso inseriti negli scenari di ogni singolo testo, come nel caso di Intersezioni del fare e del non fare: «Quando sono in vacanza, io lavoro meglio». Lo stesso accade nelle rigorose, quanto spiazzanti, analisi di sintomi fisici, riconducibili al tema novecentesco della nevrosi: si pensi a Emicrania («Tra le virtù caratteristiche dell’emicrania spicca su tutte quella di consentirci, senza grandi stravolgimenti esteriori e, per così dire, a poche spese, di fare un’esperienza che si rivelerà necessaria per il resto dei nostri giorni: l’esperienza dell’intollerabile»), Tic («C’è qualcosa, nella sensazione, che avanza. Un avanzo si sensazione»; «Imbambola l’ascolto, aiuta a scomparire»), Starnuto («si capisce subito che il suo elemento di destinazione è l’aria, l’impalpabile del mondo»), Torcicollo («Corrispettivo della nostalgia. Da girarsi, voltarsi indietro. […] È la sua vacanza dal passato»). Gli effetti riscontrati generano ulteriori rimandi, aprendo orizzonti esistenziali che oscillano tra il desiderio di inconsistenza (si pensi ai titoli emblematici Il non vissuto e Fantasmi) e quello di armonizzazione metamorfica e simbiotica con gli spazi circostanti, spesso deteriori (si pensi a Pozzanghere e Pavimento), in un meccanismo che ricorda l’esito di Uno, nessuno e centomila, con Moscarda che non si riconosce più in sé, ma «in ogni cosa fuori». In Prendere, invece, c’è un altro riferimento al pavimento, alla volontà di guardare le cose da un’altra altezza, con un taglio cinematografico, ed è addirittura «un cazzotto in faccia» il principio di realtà che scrolla il corpo, innescando una reazione: «Ricongiunto alla fedele compagnia del pavimento, ridotto a un raso terra che mi mette a mio agio, misuro tutta la distanza che mi separa dal mio dolore». Paradossale anche Seduti in piedi, dove un elemento ordinario come una panchina diventa un oggetto misterioso e gli anziani immaginati lì seduti in un passato indeterminato sono figure afasiche, frammenti di un paesaggio «che li teneva assieme» e che viene sondato nelle sue minime increspature. In maniera simile Watkins descrive l’aspetto mutevole della luce in Insistenza della luce, facendo convivere in piani temporali sovrapposti ciò che esiste, ciò che non esiste e ciò che sembra esistere.
Si tratta di manifestazioni di un «altrove» o di un «infra-mondo» che abitano le frequenze di una geografia interiore, i cui punti di riferimento possono risultare intercambiabili o incoerenti, sebbene ognuno costituisca un fondamento per fronteggiare il rischio di essere sopraffatti dal nichilismo e dal solipsismo, negato (di nuovo) in Quasi, quando il soggetto, che si immagina orfano di un contesto, ha la facoltà di rispecchiarsi unicamente ed esemplarmente in sé: «il solipsismo non esiste, esiste ancora meno dei miei gesti e delle mie parole, e poi, non sarebbe forse necessario esistere del tutto per essere così psicologici e soli?, sinceramente non lo so, ma mi piaceva disdire questa parola dall’interno, farla quasi fuori, questa cosa che vorrebbe rinserrarmi in me». La reciprocità tra il dentro e il fuori riproduce un movimento di sistole e diastole che si risolve nell’immagine paradigmatica del morto in Fare il morto, una pratica che consiste nel «non reagire e insieme nel non lasciarsi andare» durante il galleggiamento in acqua.
Parallelamente a questa poetica del corpo scorrono fotogrammi e sequenze famigliari, attraversate da persone appartenenti alla sfera affettiva, in particolare la mamma, come avviene in Muri (in una visione individuale, ma universalmente condivisa: «ma c’erano pensieri che si muovevano molto più in basso, e che mi colpivano all’altezza dello stomaco, come quando pensavo alla morte di mia madre»), Porte («Come tutti i bambini nati in quegli anni, ero ossessionato dall’idea della morte, e buona parte delle mie giornate consisteva in una fantasticheria lugubre in cui, a turno, venivano a mancare i miei genitori, mia sorella e mio fratello, la nonna, gli zii»; «Non avrei mai permesso a mia madre di passare nell’altra stanza prima di me, dovevo vincere la gara, sgravarmi del peso insostenibile della sua assenza»), Ritorno («Appena chiusi la porta del nuovo appartamento, salutando la mamma e le sue ultime parole, sentii tornare il senso di disfatta che aveva spesso aleggiato intorno alla mia vita»). Altre volte irrompono tipi umani come il vecchio vicino di casa de Un collezionista di piogge, personaggio dalle tinte kafkiane immerso in atmosfere altrettanto kafkiane: un esempio è Età («Con uno stupore senza esclamativi, senza sorprese, senza stupore, nell’impressione del replay, della moviola, del déjà vu, come riprendendo un discorso lasciato chissà quando in sospeso»), oppure La mia fortuna («E allora niente, a volte mi posso soltanto fermare, appoggiandomi a un palo, foss’anche immaginario. Giusto il tempo di tirare le mani fuori dalle tasche, e sono già vecchio»).
Intorno alla metà della raccolta il soggetto di Appunti assume un tono assertivo e pronuncia la parola Basta («Dire basta è anche l’unica cosa da fare che sia rimasta»), in una convinta rinuncia, forse inconsciamente etica, alla funzione agonistica della volontà, intesa come dovere assillante, impedimento, struttura sociale e psichica che soffoca e limita la pulsione: «Se necessario è tutto quanto sussiste senza una volontà che lo proceda. Questo mondo. Questa mobile calma. E tutto. Se qualcuno, sott’acqua. E le braccia, come i pensieri, e i gesti pochi, e necessari e liberi, liberissimi dal volere» (Sott’acqua). In Mettersi in ridicolo, inoltre, è l’ideale performativo di perfezione, così permeante nella schizofrenia contemporanea, a subire uno sfregio: «Accade ogni volta che il nostro volto risponde a un che di troppo pulito e composto, ogni volta che tutto funziona, custodito nel suo ordine ottuso».
Gli Appunti di Watkins possono essere intesi come bozze che tentano di inquadrare sporadiche e sparute manifestazioni di una realtà in divenire, nel dubbio di un riscontro effettivo, anche se parziale o temporaneo, dell’essere al mondo. I ritagli, gli scarti, la cenere (si pensi all’esergo di Robert Walser, proprio sulla cenere), le Cianfrusaglie sono filigrane, rarefazioni intuitive («Se ne stanno lì, alla rinfusa, dove si addormentarono qualche decennio fa, sopravvivendo a coloro che ne avevano fatto uso»), che tra tagli ossimorici e sinestetici convergono in Un ladruncolo, rivelando, alla fine della silloge, l’impossibilità di una vera e propria identificazione in un soggetto che non coincida con un’intrusione casuale all’interno di un corpo fissato in una proiezione statica, olografica: «Quando mi capita di incontrare la mia vita nella sua immagine più profonda e primitiva, ciò che vedo non è un bimbo, un ragazzo, un uomo, non è una cosa che cresce, ma un ladruncolo, una cosa che ruba».
David Watkins è autore di Infamia e biografia (Neri Pozza 2023) e redattore di “Argo” e di “Charta Sporca”. Insieme a Luca Chiurchiù, cura la rubrica “Passaggi”. Ha studiato a Bologna, Macerata e Trieste, dove vive.