E se nel tempo notturno della stasi, la salvezza stesse nel dichiarare la trama di voci che ci ha accolto a dispetto della desolazione generale, piuttosto che celarla nella ridda implicita degli occulti rimandi?
A questa domanda ci conduce il percorso spiraliforme dell’ultimo volume di Gianluca D’Andrea nel calendario funestato dalla caduta di spenti corpi celesti, senza desiderio. Il nervosismo, segnalato giustamente da Pusterla in occasione dell’uscita di Transito all’ombra per Marcos y Marcos come inquietudine di una disperata quête, qui non si placa, piuttosto sembra avvolgersi su se stesso, sul nastro di un movimento centripeto, per aspirare ad una quota di più alta e pacificata consapevolezza. Se abbiamo fatto riferimento ad un’atmosfera senza luce, poi, non è per negare intensità ai momenti diurni che pure costellano il volume, quanto per ricondurne, in modo più esplicito, la tenuta stilistica sul piano della più estenuata meditazione d’annunziana del Notturno, appunto. Anche in questo caso predomina una prosa lirica, preziosamente intarsiata di riferimenti che non sono mai mere citazioni, bensì accensioni improvvise che sembrano dare il senso definitivo dell’accordatura nel tono di un brano o, più spesso, rappresentano il momento culminante che ne rischiara la scaturigine. Allora, che si tratti di Shakespeare o di Rimbaud, di Laforgue o del sapiente Basho, il riecheggiare della propria scoperta nell’esperienza condivisa non è che la rivelazione del gioco poetico, che sempre lancia i propri dadi facendo i conti con i numeri altrui.
È questo, sembra suggerirci D’Andrea, a dare alla tradizione letteraria il senso di una robusta teleologia. D’altronde, a partire dalla posizione incipitaria di un verso di Paul Celan, l’apocalisse domina l’intera parabola del libro, manifestandosi come indizio di una caducità del tutto, ma anche, etimologicamente, come il dispiegarsi di una significazione sepolta che la «mite malinconia del centro raggiunto» non placa del tutto, se è vero che cova «una morte vera di semi / cosparsa sul sentiero».
Domina irrisolto un sentimento del viaggio che è attraversamento dell’«isola» e dei suoi «mostri». Ha ragione ancora Pusterla, nella sua postfazione, nel definire il libro come «una costante messa in discussione del linguaggio poetico», e tuttavia, nello stesso tempo, esso respira di una fiducia ribadita nella parola come scandaglio e «ultima luce il desiderio / che nuovi dei scandagliando la notte / scopriranno sotto crepe di ghiaccio».
In tal senso, la sovrapposizione del dato metereologico e di quello esistenziale si fa pressante e insistito: il ghiaccio che riempie l’aria, e la fa nitida, ricorda il «giorno nel ghiaccio» di Precoce inverno delle Occasioni montaliane.
D’altronde che il ghiaccio sia raggelata memoria del fuoco, vibrante materia che brama altra temperatura, lo rivela Nuovo mondo: «Intanto questa notte è desiderio / d’aria e respiro, protesta del ghiaccio / alle stagioni in cerca d’altro mare».
Come non pensare ancora al Montale implacabile di Botta e risposta in Satura: «Meglio il morso del ghiaccio che il tuo torpore / di sonnambulo o tardi risvegliato»?
Come dire che nelle fauci del gelo non tutto si è spento e, anzi, reclama un nuovo inizio. E il «silenzioso ghiaccio» come il «verde caldo», d’altronde, può custodire il ricordo dimenticato di un’energia primordiale.
È quello che si prospetta, forse, in Noi, pirofite incuoiate («Voi non sentite il fuoco per cui arde / la terra […]»), in corrispondenza effusa e straniante con Sul sedile grafito ancora dal Montale (degli Ossi di Seppia, questa volta): «Chi si ricorda più del fuoco ch’arse / impetuoso / nelle vene del mondo», ulteriormente risuonante in Ghiaccio e fuoco: «Quale fuoco arde forte o si confonde / con gli ultimi calori stinti […]».
Nell’avvicendarsi lenticolare delle stagioni: dalla primavera che costituisce l’abbrivio di questo itinerario all’inverno che lo sigilla, il «calore» che il «terreno ha accumulato» si riverbera nelle parole, ne costituisce il sedimento vitale e, in una sorta di inopinato rovesciamento, non fa germinare nulla, ma rimane pulsione vibrante, latente, sotto la superficie raggelata di un mondo siderale.
L’unica primavera possibile per D’Andrea non ha più il conforto di nessun correlativo oggettivo, nessun «aprile crudele» restituirà il sollievo di una funerea fioritura, ma la nostalgia del calore primordiale soppravvive per litote, in una sorta di magrelliana «tutela del gelo».
Il nuovo mondo nella memoria holderliniana, filtrata forse da D’Arrigo, è come gli «scheletri […] lucenti» del mostro che non spaventa, né testimonia di un’era remota, ma è rastremato relitto, stupefacente e inquietante.
D’Andrea si muove per allusioni, per sottile senso di spaesamento, non dichiara mai a chiare lettere che la fine, di cui è testimone, sia un traguardo metafisico né che possa godere di una certificazione del verbo che la riscatti, semmai «un’anima bambina», come nei versi rievocati dall’unico poeta italiano vivente (Alessandro Ceni), saprà offrirle un codice inedito.
Tutto è, comunque, sospeso nell’atmosfera algida, a tratti interrotta soltanto dal lessico familiare di un dialetto che forse si sarebbe giovato di una citazione non corsivata nella misura di un riattingimento esplicito, privo di una qualsivoglia giustificazione.
Giacché è evidente che esso ritorna come risorsa fondamentale, sebbene rapsodica, non come inciso occasionale. Tuttavia, in una certa prospettiva, anche questa alternanza saltuaria di registri rende ragione di un testo estremamente costruito, sapientemente cesellato.
Nella spirale di D’Andrea, allora, la «catastrofe» è come cristallizzata, perfetta scheggia di uno sconquasso, fissato in un caleidoscopio glaciale, in previsione di una nuova era e di una parola che sappia pronunciarne il salvifico incantamento.