La memoria dei senza nome. Con questo nuovo libro Luca Ariano, come ci spiega nell’intervista a cura di Luigi Cannillo in coda al volume, chiude la trilogia di romanzi in versi iniziata con Ero altrove e Contratto a termine, ma se negli altri due capitoli la dimensione narrativa era essenzialmente legata ai luoghi della provincia emiliana e lombarda in cui il poeta vive o ha vissuto, e semmai la temporalità era letta soprattutto attraverso il mutamento di questi luoghi nonché delle vite dei suoi personaggi, in La memoria dei senza nome la storia di Fiulin, di Nena, di Rosa, dell’Enrico e dell’Emilio e di tutti gli altri personaggi cui il poeta ci aveva abituati ambisce a divenire universale.
Il motore principale di questo rinnovamento può essere colto ragionando intorno alle citazioni da Walter Benjamin che aprono e poi costellano il libro: «è difficile onorare la memoria dei senza nome» precisamente perché essi lasciano la loro traccia nel lavoro e il risultato non dell’opera di genio, ma nella stessa struttura storia della realtà sociale. Le varie sezioni che compongo il libro non collimano dunque più in un romanzo di formazione, ma semmai nell’esatto contrario, nella progressiva deformazione della linearità della loro biografia secondo le tappe novecentesche (siano esse di una biografia piccolo-borghese o operaia e proletaria) fino alla impossibilità dell’esperienza stessa se non per sussulti stranianti e temporanee epifanie che non mettono a nessuna verità ultima e complessiva.
Damnatio Memoriae segna il primo momento della presa d’atto della diversa qualità del meccanismo di cancellazione che il nuovo millennio pone in atto, per la sua rapidità e per la capacità di sconvolgere dinamiche naturali e antropologiche che per lungo tempo si erano ritenute pressoché immutabili. Proprio nel momento in cui appare quanto mai evidente che tutto è storia e tutto è mutamento (ben più rapido e radicale del vecchio «passano le città, passano i regni», tutto sommato invece un richiamo alla circolarità, all’equilibrio fondamentale di una società arcaica) i personaggi scelgono la natura come orizzonte di resistenza: un conservatore acuto («mariuolo sì, ma profondo») come Ortega y Gasset scriveva che il romantico di fronte a un edificio spia sempre l’apparire dell’erba tra le fessure sedotto dall’idea che la natura esprima comunque il suo primato. L’altro fondamentale polo di questo romanticismo resistenziale (e chissà se questo termine non possa essere usto anche per indicare le frequenti rievocazioni della lotta partigiana come in Postmodern 25 aprile o per Fiulin che gioca a fare il partigiano) è certamente l’empatia come tipica espressione e possibilità del senso di comunanza umano, e di tutte le forme di empatia è quella amorosa ad avere la maggior presenza in questi versi.
In quel parco come dieci anni fa
Anche allora terminata una stagione
Di lavoro… solo una ciminiera
E tu con un sogno in mano: e ora?
Attendi Rosa per un bacio…
una colazione in un abbraccio
nel profumo di thé e paste.
L’Emilio vedrà sulle spiagge
Turisti mescolarsi ai migranti…
Colleghi lamentarsi per andare
Chissà dove per uno stipendio:
cosa darebbero loro?
Pedali con Rosa in una sera fresca
Di fine estate… come foste
Due ragazzini e quel momento
Non dovesse mai finire.
Sai già Fiulin che dopo la pioggia
ci sarà un arcobaleno che luccica
gli occhi… da guardare con lei.
All’amore è infatti dedicata la seconda sezione del libro, Amore capitale, che racconta episodi di un idillio amoroso tra i due protagonisti. È decisamente il caso di utilizzare questa parola un po’ frusta perché qui la storia si snoda tra metafore naturalistiche («sorriso di farfalla»), aria di primavera e un amore, o anche più esplicitamente un sesso, che si fa o si vorrebbe fare sempre «in un prato», come se a fronte del processo di deformazione che attua il capitale, appunto in grado di definire a sua misura i rapporti amorosi in termini di durata, qualità, luoghi, i personaggi volessero rinaturalizzare le loro pulsioni e aggiustare un cosmico orologio rotto, e a dire la verità questa sembra essere anche l’ambizione sottaciuta di Ariano stesso, come si evince da certi passi dell’intervista.
Proseguendo la metafora potremmo dire che l’ostacolo più grande che i personaggi incontrano sul piano narrativo e l’autore sul piano estetico è che questo orologio non è più meccanico ma digitale, non gli si può sparare come diceva Benjamin in Sul concetto di storia, evocando metaforicamente l’interruzione rivoluzionaria del tempo del progresso, né si può riparare con un lavoro artigianale e umano. I cascami della deindustrializzazione e le delocalizzazioni erano già al centro di Contratto a termine, qui riappaiono ma più nudamente si arriva alla costatazione del vuoto e alla domanda «dove operai nelle piazze?». La sostituzione digitale del reale, che Ariano configura qui come realtà diminuita piuttosto che come realtà aumentata, è al centro della sezione Animae digitali, che precedentemente aveva conosciuto una versione a stampa autonoma e che infatti è la più compatta ed estesa (quasi metà del libro) e dà il tono e il senso all’intera raccolta. La precede la breve ma significativa Arresto del sistema, dove vediamo compiersi una diversa forma di rivoluzione o salto qualitativo, non tanto ad opera degli uomini quanto del progresso tecnico-capitalistico stesso. Qui a mio parere è ormai evidente come i personaggi con le loro deboli strategie difensive non riescono a trovare un loro ubi consistam e in effetti le identità diverse si dissolvono o fondono progressivamente.
Nella seconda metà del libro abbiamo praticamente quasi solo il punto di vista di Fiulin o meglio dell’autore su
Fiulin, la scrittura si fa più scopertamente lirica o lirico-descrittiva e il romanzo ingloba più saldamente futuro e passato orientandosi verso la distopia.
In questa distopia Ariano presenta uno scenario postumano costantemente costruito grazie a interrogazioni sul futuro che somigliano a visioni: droidi e macchine hanno sostituito gli esseri umani i quali però non sono liberati dal lavoro (e anzi Nedd Ludd è qui evocato come una sorta di assente eroe vendicatore del genere umano), ma piuttosto programmati dallo stesso sistema di produzione e consumo nelle loro necessità materiali e nella loro psiche (un’immagine di capitalismo ipermeccanizzato e biocognitivo degna di Asimov molto più che di Benjamin). La poesia e l’amore, ancora accampati come un vessillo, raramente però nella Milano dove il protagonista si sente estraneo e «turista», più spesso negli stessi «borghetti» dove gioca a fare il partigiano e evade con la compagna a «scambiare baci…/ protetti dalla discesa della sera», svelano con la presenza onnipervasiva (quasi in ogni testo) un lato un po’ sinistro di coazione a ripetere e difesa regressiva. Il passato stesso ritorna con la sua carica di umanità profonda, la conta degli amici assenti nelle ricorrenze, ma insieme raggelante rispetto al futuro, su cui non può mai vincere. Di tutti gli assenti, quasi inconsapevolmente evocati in quei luoghi simbolici di tramite tra le due epoche che soni i locali in stile anni Cinquanta nella provincia, ma non a caso appositamente cercati anche a Milano, il più luminoso è Giggino, figura paterna del protagonista cui sono dedicate alcune poesie che sono anche flashback. Giggino è un portatore di valori che tenta di costruire l’identità umana minacciata dei protagonisti e, paradossalmente, lui defunto ci appare più vivo di tutti i vivi: è il solo di cui possiamo intuire una qualche forma di biografia compiuta e di esperienza. Anche la poesia riveste una funzione simile, spesso utilizzata per orientarsi in uno spazio disumanizzato e privo di temporalità (l’albergo frequentato dal poeta tedesco, i luoghi di Merini sui navigli, la casa di Bacchini), altre volte guardata implicitamente come una meta o un orizzonte personale a cui tendere (leggerai a letto poesie d’amore di Gatto/perché prima o poi… un giorno… domani. O ancora il desiderio di scrivere come Raboni che in effetti è una delle influenze più forti, soprattutto con i primi libri, sul dettato di Ariano); del resto è quasi sempre letta in camera, in un momento di raccoglimento, ma anche di autodifesa secondo un topos antichissimo: «o cameretta che già fosti un porto» e prima ancora il Dante della Vita Nuova che leggeva e componeva i suoi versi amorosi in camera.
Fuori dalla stanza i robot, i droidi, i droni, lavorano e fanno anche la guerra, ma soprattutto ultimano quel processo di cancellazione del passato; come detto sono soprattutto i morti (ancora Benjamin?) a essere i loro ideali avversari: non nel senso che ne cancellino, come già avviene, ancora più radicalmente le tracce, quanto per il fatto che non abbiano nessuna motivazione per conservarlo, essendo la conservazione del passato, magari come qui nell’ottica di costruire la propria identità e anche di «onorare la memoria dei senza nome», un gesto e un impulso tipicamente umano e solo umano.
Per mesi attendevi dicembre,
una festa al ritorno:
il profumo di cucina per casa
e la voglia di perderti nelle nebbie.
Dove sono quelle foschie?
Rimarranno solo ceneri
e odori dispersi…
terre che nessuno coltiverà,
acque che nessuno berrà.
Fabbriche consegnate alla storia
da stampanti tridimensionali.
Dove operai nelle piazze?
Forse guerre tra androidi
e nessuno scaverà cercando resti
di accampamenti, truppe di Annibale,
zanne e trofei di guerra.
Domani ti regalerà la sua festa,
non avrai lettere da leggere,
da scrivere per San Giuseppe
ma frasi su messanger
prima che una timida nebbia
ti riporti alla tua stagione.
L’orfanità segna che Giggino, la forza redimente del passato, ha fatalmente perso la sua battaglia, ma soprattutto che, con la distruzione della storia, la memoria dei senza nome che era essenzialmente quella storicità è in pericolo di sparizione finale. Di qui l’ossessione per i resti che percorre tutto il libro e che nelle ultime poesie si esprime nell’iterazione ossessiva e angosciante «cosa rimasto?», presente ben sette volte (di più se contiamo le variazioni) in poco più di venti pagine. Il vecchio tema dell’ubi sunt si è anche qui mutato da riflessione sulla vanità dell’esistenza propria un mondo religioso a espressione del tritacarne storico nel quale gli stessi bisogni religiosi (secondo una formula benjaminiana che Ariano ricorda) sono ora assorbiti dal capitale e al quale gli stessi personaggi non riescono a sottrarsi.
A ben guardare infatti anche Rosa, l’Emilio, Ernico, Nena e lo stesso Fiulin sono dei resti umani e in fin dei conti i più autentici simili che il poeta vede sono quegli autori mitteleuropei che affiorano come termini di paragone nei versi, non tanto come pensatori o scrittori, quanto nelle loro biografie, colti nell’attimo dello smarrimento o del suicidio (Hugo Claus, Canetti, Zwieg e ovviamente lo stesso Benjamin del quale Fiulin si dice che farà la stessa fine), legati al mondo di ieri e sconfitti o resi incapaci ad affrontare quello di domani se non obliquamente, raccontando autobiografie romanzate.
Certo qualcosa non convince del tutto in questa visione, a partire dal fatto che la tecnologia e qualsiasi ipotetico superalgoritmo o drone, per quanto autosufficienti, sono comunque pensati e programmati da esseri umani per operare e che, per quanto complesso ci possa sembrare, digitale è in antitesi ad analogico più che a naturale e ogni mutamento è prodotto per scopi umani, dei quali non è detto che la conservazione del passato, specie per fughe turistiche come quelle compiute dai personaggi, sia sempre il più nobile e egualitario.
Non dobbiamo però cercare in un libro di poesia, per di più narrativo e con molti personaggi, l’estrema coerenza concettuale che non intende darci, piuttosto una riconoscervi una storia parzialmente nostra e festeggiare semmai un positivo momento benjaminiano che, a partire da opere e con risvolti diversi, mi sembra stia in questi anni animando la poesia italiana grazie a libri come questo. Hans Sahl racconta che mentre si trovava insieme a Benjamin in un campo per immigrati tedeschi in Francia, all’inizio della guerra, dove spaccavano pietre, l’amico si lamentava e gli chiedeva insistentemente se avesse sigarette da dargli e libri. A Sahl doveva sembrare stupido al punto da domandargli se avesse veramente capito dove si trovavano, ma l’altro forse aveva invece capito tutto e di fronte a una catastrofe inevitabile desiderava semplicemente essere altrove, proprio come Luca Ariano quando la storia che qui si chiude è cominciata.