Ci ha incuriosito fin da subito questo titolo, Tenerissimo amore. Come tutte le cose che si scorrono al volo non facendo caso, nasconde anch’esso qualcosa che la mente aveva intuito ma doveva indagare con maggiore attenzione.
Tenerissimo amore: un superlativo carico di senso affianco ad una parola evocativa, incompresa e compromessa, perlopiù rischiosa, da arditi .. come a dire: qui si parla di un certo amore, attenzione. Questo amore di cui si parla è quel tenerissimo amore, il quale verrebbe bene da pronunciare tutt’insieme, d’un fiato, tenerissimamore. Comunque, tenerissimo: perché? Non era sufficiente scrivere amore? Tenero amore? Non crediamo tutti che l’amore sia già cosa tenera? Abile il poeta e ingenui noi. Non ogni amore, infatti, è tenero; solo uno, forse (dato il superlativo) è tenerissimo, ossia il più tenero fra i teneri.
Tènero, in latino, custodisce alcune radici significative: del genere di tenuem e tendere, può indicare disteso e sottile al contempo; qualcosa che si tende, perché malleabile. Un amore che si tende, che non è rigido, che sa adattarsi. Un amor di altri, lontanissimo dall’amor proprio di cui la nostra società è pervasa. Teso, proteso, atteso. Sottile: leggero, tenue, direi invisibile – e proprio per questo infinitamente tendibile. Come l’aria, come la luce.
Già, la luce. La poesia di Filippo Davoli mette a tema proprio la luce. La luce che è Cristo, Cristo luce. La luce è la parola che più si ripete nel libro, non saprei contare le volte, e proprio per questo si erge legittimamente in questo caso a vero e proprio topos poetico.
Un bel giorno, sparite le ombre, dilatato
il tempo come nell’alba, mi parve
di scoprire – ma dentro – come una luce nuova
una stabile calma, una pace.
Collimava quell’aura col grande
silenzio di un azzurro spiegato.
E conobbi, ho capito, che fosse
quel volo segreto dell’anima
che al colmo dei crolli si libera
dall’ossessione del cuore.
In questo componimento troviamo molti degli strumenti utilizzati da Filippo Davoli per raffigurare l’inafferrabile: la luce, il silenzio, il volo, il cuore.
Su Giuseppe:
Sei un silenzio di carne che opera
senza tacere. Che parla coi fatti.
Sei la conchiglia vuota che risuona,
la cavità dove il respiro si fa voce.
E in quella sicurezza precaria
che ti fa dolce e forte, tenerissimo
nelle mani di un Altro che le tue
mani abbracciano e adorano,
io sento precipitarmi e mi conosco,
forse la prima volta.
In San Giuseppe c’è una luce riflessa, opaca. In lui avviene il miracolo della contraddizione assoluta, espressa dal poeta con sinestesie potenti (silenzio/carne, parla/fatti). La “precaria sicurezza” che è “dolce e forte” schiude l’ampiezza semantica di quel “tenerissimo” che ritorna in modo prorompente in questa scena emblematica.
E fosti madre, madre nella carne.
Nella casa annerita fu un respiro
ad un battito d’ala e d’infinito,
l’umile eterna gloria del tuo sì.
Sì, sia così, si faccia! e schiude il cielo
una carne di bimbo, la carezza
del Suo amore che impara dalla tua
calda mano di madre.
E resti, madre, tenera fanciulla
alla luce della Sua luce
luce anche tu.
Maria, madre del Creatore, “figlia del tuo figlio” (direbbe Dante) è la donna che nel grembo accoglie la luce; colei che, soggetta alle leggi della finitezza, raccoglie in sé l’infinito spandersi della luce. Una luce eterna, tenerissima, capace di stendersi fino ai confini dello spazio e del tempo, raggiungendo ogni carne, illuminando senza perdere nulla della sua lucentezza.
Credo, per quello che posso supporre, che questo canto alla Vergine abbia atteso fino a oggi per potersi sprigionare nei versi di Filippo Davoli; oggi può finalmente uscire fuori nella sua potenza quel poetare che, sotteso, risuonava tra i versi dei componimenti passati. La carne del poeta, smossa dall’incontro col risorto, va a dilatarsi sempre più, come fosse una rete sottile, fino a lasciar salire nell’aria l’anima liberata (“volo segreto dell’anima / che al colmo dei crolli si libera / dall’ossessione del cuore”).
Il cuore infatti, notoriamente sede dell’amore, non può certo dirsi l’organo più tenero o leggero dell’essere umano. Il cuore è spesso davvero colmo di ossessioni, rigidità, rancori, affanni, preoccupazioni, violenze. Il salmista scrive che “un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” (Salmo 64). La nostra esistenza, in effetti, incontra così spesso amori tossici, violenti e disperati da fare fatica ad immaginarsi un altro amore. La realtà è che non sappiamo amare e che gli altri, spesso e volentieri, non sanno amarci. Tanto l’amore vive questa dilaniante dialettica fra l’ideale e il reale che noi perdiamo ogni giorno fiducia nella sua esistenza, accontentandoci del sogno – fuggendo in altri lidi con la fantasia e alienandoci – o abbracciando un bieco sarcasmo che ci spinge all’asfissia del cinismo e del pessimismo.
Per poter avvicinare questo tenerissimo amore, dunque, non sapremmo da dove cominciare. Il poeta, in questo caso, ci aiuta donandoci la sua più intima esperienza, nata non da qualche convinzione morale o dal seguito di tradizioni o dogmi, ma da un inaspettato incontro con una Persona viva:
Dopo la comunione Ti trovai
un giorno, la prima volta, in una croce
gigantesca, nascosta dietro un angolo.
Ma ero ancora piegato su di me.
Ne percepivo l’aura, consentivo
al mio cuore spaccato un po’ di tregua
nel Tuo silenzio immenso e colloquiale.
L’incontro con Cristo Risorto non è questione di vedere o sentire o toccare secondo gli elementi della materia, ma di “rinascere dall’alto”, come lo stesso Gesù confessò a Nicodemo; rinascere alla luce, potremmo dire, in quella tenerezza che, in ebraico, si traduce con rahamim (םימחר) ovvero l’utero materno per eccellenza, l’utero di Dio. Rinascere nelle viscere di un amore viscerale. «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione». (Osea 11,8). Altrove, il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15).
Mi catturavi, ancora mi seduci
e il tempo evade dalla cieca stanza,
cadono i lacci, e sono un altro io.
O ancora, l’esperienza di Lazzaro:
Ma un morto che pure rinasca non può nulla
se tu non ordinassi a tutti i Tuoi
di scioglierlo dai lacci che lo serrano.
E lui si fa sbendare, riconquista
la libertà degli uomini, il suo rischio.
La rinascita del Risorto è la libertà degli uomini, la libertà di poter essere veramente umani, cioè teneri, misericordiosi, poveri, stranieri, servi. Incredibilmente, la nostra libertà si gioca tutta nella capacità di servire, capacità che viene solo dall’alto, da Dio.
Più profondamente, però, l’opera di Resurrezione di Cristo ci spinge al di là della materia, ci porta (se ci lasciamo portare) ad elevare la carne della nostra umanità fino ad una piena trascendenza divina.
L’idea del Cielo mi angoscia, non ne afferro
(come potrei?) la consistenza. L’assenza
del tempo mi sovrasta e mi impaurisce.
Ma se avrò modo di fissarmi in Te,
di sentirTi parlare, di guardarTi
dritto negli occhi, che può importarmi del resto?
Sulla trascendenza la poesia ricerca l’idea, si accosta alla filosofia, alla teologia, perché cerca sostegno in scienze sorelle (anche se la modernità le vuole separate, ahimè!). Il poeta vuole afferrare la consistenza del Cielo … che è quel tenerissimo amore. Tutte naufragano in questo tentativo, anche la poesia.
Impossibile, infatti, è far entrare il Cielo nella nostra testa, parafrasando il grande Agostino. In questa impossibilità, però, si nasconde una fervida tensione, sia pur effimera. Teso, con il naso all’insù, sta il poeta, e ci riempie di domande: tra un verso e l’altro, infatti, troviamo moltissimi punti interrogativi, segno di una sincerità davvero umana, quasi pura, candida. Domande che spaziano, domande che creano spazi di senso, che riallacciano l’altitudine del Mistero con la nostra umanità attraverso la meraviglia.
Forse questa capacità di meravigliarsi del fanciullo che è in noi, che il poeta conserva e difende a prescindere, rappresenta il più corretto viatico per riscoprire la tenerezza di Dio e con essa la nostra tenerezza, fino alla tenerezza dell’amore fraterno, sorerno e infine integrale, completo, radicale che dà alle nostre vite sapore di eternità.