La riedizione per Crocetti de I luoghi persi, con la pregevole introduzione di Roberto Galaverni e una strenna di 12 poesie inedite, costituisce un momento di importante ricapitolazione per una delle esperienze poetiche più rilevanti di questi anni. Il successo di pubblico e di critica ottenuto da Umberto Piersanti con Campi d’ostinato amore, raccolta del 2020, ha reso quantomai necessaria questa ristampa. Si tratta del titolo più fortunato della produzione di Piersanti, che conta ormai ben dieci raccolte. Titolo fortunato, sul quale si concentra lo stesso Galaverni, essenzialmente, a mio parere, per due motivi. Innanzitutto perchè ha rappresentato una svolta decisiva nel percorso (e per la conoscenza di Piersanti stesso, con l’esordio nella bianca Einaudi) dell’urbinate, in quella evoluzione da una prospettiva descrittivista, un paesaggio ancora fortemente naturalista, impressionista, all’elaborazione di un mito personale, la fondazione di una personale patria poetica. Il titolo migliore, dunque, perchè in esso, Piersanti, con una poetica forte in netta controtendenza rispetto alla scomparsa delle poetiche negli autori contemporanei, delinea la mitografia agreste di una civiltà scomparsa, la civiltà dell’infanzia del poeta, nato nel 1941; quella civiltà dove il poeta ha imparato a percepire il mondo. Una civiltà, ha sempre ricordato lo stesso autore, per molti aspetti più vicina al Medioevo che al Duemila.
Natura e memoria, questi i due poli imprenscindibili entro cui muoversi per giungere al cuore della poesia dell’urbinate: vitalismo naturalistico e memoria evocativa leopardiana.
Il vitalismo naturalistico attraversa tutta la sua opera: una natura mai meramente decorativa, anche nelle descrizioni più diffuse, ma il cui palpito segna profondamente le vicende degli uomini, al punto che non è improprio parlare di una perenne personificazione della natura in Piersanti, non nel senso di un naturalismo organicistico di matrice romantica, ma del materialismo laico di Leopardi. Nell’urbinate, tuttavia, la natura, che può essere anche crudele, non si presenta mai come “matrigna”: l’uomo è sempre in connessione, in comunione profonda con essa, tanto da trovare in essa rifugio, occasione di fuga e di riconciliazione col mondo. Non dimentichiamo che la natura è teatro del “tempo differente” e della ricerca dell’istante perfetto (il “fermati, sei bello” goethiano) al di fuori del tempo, da vivere con la donna e con la natura stessa:
bianco sul lungo gambo l’asfodelo
la primavera accende che qui tarda
ai domestici elisi t’accompagno
alle mie rose chiare nella macchia
che benchè spente sento dentro l’aria
e t’ho goduta avevi come sempre
il tuo corpo possente al tronco avvolto
I luoghi persi costituiscono il vertice della ricerca poetica di Piersanti perchè l’endecasillabo, dal vedere estremamente fisico della raccolta precedente, Passaggio di sequenza, giunge all’elaborazione di un mito dai contorni più visionari, ma più potenti. Questa l’evoluzione del mito rispetto all’esuberanza vitalistica, gli esiti coloristici della sua produzione precedente. L’urbinate, che ha quasi sempre piegato ogni mezzo espressivo (poesia, cinema, narrativa) alla ricerca di una propria misura e identità intorno alle colline delle Cesane, ha compreso che i luoghi delle proprie origini e vicende emotive sono irrimediabilmente persi, nel tempo e nello spazio (Piersanti è un poeta di grande movimento, nello spazio fisico e della memoria), recuperati, salvati solo nell’illusione della memoria e della poesia. Se il pensiero potrebbe andare alla regressione antropologica di Pasolini, la poesia di Piersanti si allontana dal poeta di Casarsa: non c’è la stessa lacerazione storica, il rimpianto di un mondo perduto. Ne I luoghi persi la malinconia che pervade i versi scaturisce dalla condizione umana di finitudine; non a caso Piersanti guarda ai grandi classici, ai poeti universali per eccellenza, Leopardi e Pascoli. Tema fondamentale, classico, presente in quasi tutti i titoli delle sue raccolte è quello del rapporto col tempo, parte integrante della poetica e del profondo sentire dell’autore. L’inevitabile trascorrere del tempo può essere combattuto e fermato solo dalla poesia, sia quando essa cerca di eternare gli attimi appena vissuti sia quando diviene poesia della memoria, capace di evocare e rendere vivide vicende più o meno lontane. Il rapporto profondo si stabilisce proprio con l’età più lontana nel tempo, l’infanzia. Un’infanzia bucolica e georgica, in cui l’ambientazione campestre sembra assumere i contorni dell’idillio: Piersanti bambino e ragazzino di città ha potuto contemplare la natura senza conoscerne le asperità; può godere della campagna attorno alla casa della nonna Fenisa, racconta di non essersi mai occupato dei lavori agresti, tranne accompagnare il cugino a parare le pecore. A quattordici anni legge per la prima volta l’Aminta del Tasso, lettura che si concilia perfettamente con il paesaggio (paesaggio marchigiano che è stato definito da Guido Piovene il paesaggio bucolico, pastorale per eccellenza), che resta nella memoria del poeta fino a divenire “luogo dell’anima” e “patria poetica”.
La poesia di Umberto Piersanti parte dall’esperienza ed è sempre proiettata verso l’esterno: l’urbinate si è sempre dimostrato un poeta di grande movimento; centrale è la dimensione del viaggio e anche quella del cammino. Ma restiamo alla concretezza di questa poesia, alla sua plasticità: la natura di questo poeta rifugge ogni ricorso ad elementi psicanalitici, non si addentra nelle profondità dell’inconscio, e non vi troviamo nessuna tensione verticale metafisica. Ugualmente, per lo spirito classico che ne è guida ideale e al quale questa poesia tende, non concede nulla al sublime, nè al sentimentalismo romantico.
Il lirismo terragno e il corpo a corpo con il tempo sono caratteri di inevitabile prossimità con la poetica di Bertolucci, il più grande poeta di natura del secondo Novecento e primo esponente di quella che Lagazzi e Galaverni hanno definito la linea creaturale della poesia italiana. Ciò che è evidente in Piersanti è il fatto che la malinconia non derivi dall’impossibilità di vivere, denominatore comune di tanta poesia del ‘900, bensì dal contrasto tra l’intensità vitalista e la coscienza di venire progressivamente strappati ad essa. Una Weltanschauung che parte sempre da un sì ostinato alla vita, ma trova la sua “Arcadia d’ombra” (felice definizione di Emanuele Trevi) nel percepire la rapina rovinosa del tempo, nel sentire per sottrazione.
Tra i momenti più alti della prima sezione, Muta il mio tempo cambia la vicenda:
oggi m’inquieta il tempo che m’attende
le sue opere e i giorni che non vissi
che non conosco e trovo per la strada
di questa età di mezzo già sgomenta
che senza consultarmi mutò il corso
questa vicenda lunga come la vita
forse cambia chi viene e non conosco
io nell’attesa sono come sempre
in giro sui miei colli nella cerchia
e poi vado lontano e qui ritorno
L’insicurezza e l’inquietudine proviene dalla nuova situazione familiare e dalla nascita imminente di un figlio: nell’urbinate il richiamo alle responsabilità sociali segna la rottura dell’incanto nel tempo differente e la fine del tempo magico dell’adolescenza.
La prima sezione Per tempi e luoghi si chiude con La capanna del presepio, dove per la prima volta compare il figlio del poeta, Jacopo, al quale il padre si rivolge con tenerezza mentre lo vede giocare nella vasca da bagno o raccogliere brecce; un padre desideroso di narrargli vicende lontane e favolose; ma già a conclusione del testo un’allusione dolorosa al futuro che attende il figlio (“ora so che m’hai tolto/dalle preghiere”) ci dà un’anticipazione del rapporto drammatico che è al centro delle poesie più toccanti dei libri successivi.
Nella seconda sezione, In fondo al fosso, fin dal primo componimento, L’anima, troviamo degli elementi irrazionali, oscuri, delle figure dai contorni magici e fiabeschi, che costituiscono una componente fondamentale del Piersanti maturo, a partire da questa sezione fino al libro successivo, Nel tempo che precede:
L’anima
io non avevo mai capito
da dove l’anima viene tra gli spini
ma l’anima è piccola, fatta d’aria,
passa tra gli spini e non si graffia
Il risvolto dionisiaco del mondo classico, apollineo di Piersanti non proviene da una formazione letteraria fiabesca, ma attinge direttamente ai racconti e alle leggende contadine che lo affascinano fin dall’infanzia. Il poeta delle Cesane riporta alcuni racconti del bisnonno Madio e della nonna Fenisa, ma più che salvaguardare la memoria di quei racconti intende mantenere quell’attitudine, le potenzialità immaginative di quel mondo, al punto di reinventare storie inedite nella sezione successiva, Cespi e fiori, che vede ogni fiore protagonista di una vicenda fantastica. E’ il panismo naturalistico che ha come protagonisti fate, folletti e lo sprovinglo, il diavolo contadino delle Cesane, che come altre anime e divinità dei boschi possono essere fonte di meraviglia o di spavento. Così all’interno del preciso erbario pascoliano troviamo un immaginario fiabesco di derivazione nordica. Del resto la stessa natura, a partire da questa raccolta più che in precedenza, non è tanto la natura lussureggiante di D’Annunzio e la stagione di riferimento non sembrerebbe quella del rigoglio primaverile o di una fulgida estate; l’originalità del poeta delle Cesane sta anche nella capacità di liberare le energie latenti di un paesaggio autunnale o invernale.
Interessante notare lo scarto tra queste poesie, composte tra la fine degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, e i dodici inediti in appendice che si aprono e chiudono con due poesie dedicate allo spazio mitico dell’infanzia in compagnia di un’ava, probabilmente la nonna Fenisa. La maggiore lontananza dai luoghi delle origini sembrano amplificare il tono elegiaco del verso di Piersanti che attraversa ricordi di giovinezza (“Vent’anni” e “Quel giorno all’osteria”) e d’infanzia (“La peonia e il calabrone”), senza tralasciare il confronto diretto con il proprio tempo, osservando le ragazze a Urbino come nel periodo dell’adolescenza, o avvertendo la durezza degli ultimi due anni di pandemia.
In un raro momento di esitazione del poeta, che sembrerebbe arrendersi a un romanziere di successo francese e all’ennesimo critico della poesia di “natura”, viene ribadita l’ostinata fedeltà alla memoria lirica:
e quel piatto che fuma
ce l’hai accanto,
senti l’odore
e il fumo
sulla bocca,
non c’è memoria
che lo trasfiguri,
è vero, più vero
di quest’ora presente
e forestiera
Una delle poesie più rappresentative, forse in assoluto la più bella de I luoghi persi, è Nel tempo che precede, che dà anche il titolo alla raccolta successiva:
madre ch’eri fra tutte la più gentile
persa con le tue amiche in fondo al fosso
lunga la treccia sul tuo corpo snello
scende fino alla vita, nell’acqua chiara
hai camminato scalza, scosti le brecce
dentro la tana il gambero s’appiatta
d’intorno sono i colli che tu speri
di sorpassare un giorno, non sai la meta
guardi il greppo che pende e ti sovrasta […]
[…] prima che nascessi furono insieme
stavano tutti là presso l’aiuola
a pescare castagne nel caldaro
ora mancano tutti, manca una casa
solo prima di nascere l’ho avuta.
Il senso profondo del ritorno al “tempo che precede” può essere compreso solo, a mio parere, se lo si lega all’archetipo della tensione al ritorno nel grembo materno, in un’ottica esclusivamente poetica, ancora una volta depurata di significati psicanalitici che non interessano il poeta delle Cesane. Tutta l’opera di Piersanti è intrisa di una malinconia leopardiana, di una universale nostalgia per la vita, ma che grazie alla poesia non toglie amore per la vita, lo accresce.