È un libro, questo, che fa prillare sulla sedia di interesse e curiosità chi come me, e come comprensibilmente il suo autore, è stanco della poesia lirica contemporanea come ennesima variazione minima su formule predisposte all’espressione, con un vago alone di mistero, dei propri casi personali. Già solo il titolo basterebbe: I popoli scomparsi, e in effetti tutta la raccolta presenta in successione, come nei diorami di un museo di storia o delle cere, popoli estinti, assimilati o oppressi a partire dall’uomo di Neanderthal e accanto ad essi una serie di figure sociali e professionali, come ad esempio i Samurai, gli Ussari, i barilai, a vario titolo eliminati dalla storia del progresso.
Questa è, direi, l’orizzonte tematico che intesse il libro di Gallerani e la raccolta può infatti essere vista come una narrazione in miniature poetiche della storia dell’umanità, che non a caso si conclude con una poesia di forte carica visionaria intitolata I superstiti. Senza dubbio si tratta di un progetto, finalmente ambizioso, di una poesia che sottintende una visione del mondo e di una rottura con il novecentismo di scuola che prescriveva, tra l’altro, il divieto di immedesimazione da parte del poeta e metteva al bando la poesia storica; quello di questo poeta di pochi versi e di presenza misurata è senz’altro un atto coraggioso di riapertura di nuove possibilità espressive per la poesia di oggi.
Come accade spesso però si scopre che quello che oggi è nuovo rispetto a ieri echeggiava in qualche modo la
settimana scorsa: si resta infatti convinti a lettura compiuta che se i riferimenti di Gallerani sono certamente gli italiani del Novecento della lirica più meditativa e in vario senso “storico-politica” (e penso a Fortini, a Sereni o a Raboni oltre al Montale di cui questo poeta è anche studioso), i padri dell’idea sono certamente certi romantici e parnassiani e un certo tardo ottocento soprattutto francese. Qualcuno ricorderà le “piccole epopee” e gli affreschi storici che Victor Hugo allineava nella Leggenda dei secoli a descrivere l’arco della storia umana dalla Genesi alla fine del mondo, o i Poemi barbari di Leconte de Lisle che assieme ai Poemi antichi costruiscono lo stesso arco e nei quali è già evidente il percorso di distruzione degli stadi anteriori che la moderna società borghese significa, o i Trofei di Hérédia, che già nelle soluzioni formali si avvicinano al Novecento di cui I popoli scomparsi non può non tenere conto, sostituendo al profluvio di versi descrittivi e narrativi la compostezza e l’essenzialità del sonetto. In Italia queste posture non hanno mai conosciuto un loro grande momento, cioè non hanno prodotto nessun autore di rilievo, sono riscontrabili in certo Pascoli (specialmente in quello latino e nei Conviviali) e in certo D’Annunzio, anche se nell’uno non vanno quasi mai oltre la variazione sul classico (il classicismo greco-latinizzante è la malattia endemica degli scrittori italiani) e nell’altro spesso diventano pretesto di enfasi nazionalistica; per tutte queste ragioni agli occhi del lettore odierno un libro come quello di Gallerani risulta straniante.
La matrice di questa poesia è certamente radicale se non propriamente marxista e, ci mette sull’avviso la postfazione di Cangiano, fortemente debitrice a una visione benjaminiana della storia: si intende ovviamente il Benjamin di sul concetto di storia per il quale l’angelo della storia è spinto in avanti dalla tempesta del progresso, ma ha il volto rivolto all’indietro e vede accumularsi una serie di rovine su cui vorrebbe piangere lacrime di pietà: precisamente schegge di queste rovine sono i popoli di Gallerani e di pietà è intriso il suo dettato poetico; si veda un esempio:
I martiri
Nel tempo antico e incerto del Vicino Oriente, la casta degli interpreti era conosciuta sotto il nome di dragomanni, mediatore tra le ambasciate in lotta e tra le fedi, con i quali le delegazioni europee giunsero fino alla città assira di Nimrud, sul fiume Tigri.
Tra miraggi di roseti
e giardini di getsemani
lungo un mondo cretto e sconfinato
consumarono gli anni migliori
a battere dromedari
che rispondevano a linguacce
agli intestarditi dragomanni.
Passavano a fianco di colossi alati
delle precedenti ere, rovine
dei caldei timonieri di stelle.
Eunuchi li guardarono entrare
come untori nei villaggi di Nimrud
memori del pascià sfigurato dal vaiolo.
Tentarono guarigioni, ogni sorta di miracoli
i primi martiri paleocristiani
nascosti e protetti da piccole cappelle
di pietra, spoglie e povere
come essi immaginavano la vita
prima della crisi mistica, nella morte.
Con tutt’un impero alle calcagna
dovettero sfuggire tra le rapide
per un boccone di pane.
Unica compagnia il muso
ancora imbronciato di un mulo,
il mare asfittico e monti scoronati
senza cime di tavole, né rivelazioni.
Così di pericolo in pericolo
cogli occhi colpevoli al cielo
resistettero sempre vicini
abbracciati al loro Dio.
L’essenzialità del tratto poetico coglie gli scomparsi ora in un gesto paradigmatico, ora in un tornante
della storia, più spesso come qui in una posa che vorrebbe trasmettere la nota dominante, il significato di quella scheggia ad uno sguardo retrospettivo. Possiamo misurare le scelte di Gallerani sui suoi testi: si sente in alcuni versi che avrebbe potuto esserci la voce del poeta epico, allontanata talora con durezza o con bruschi abbassamenti di tono. Dei suoi predecessori Hugo avrebbe speso qualche centinaio di alessandrini sui leoni colossali, Leconte de Lisle non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di attribuire tratti umani a questo Dio dei dragomanni e forse di porlo in aperta antitesi ai «caldei timonieri di stelle». A Gallerani, in questo sì, grande e sobrio poeta materialista, tutto ciò non interessa come occasione di poesia, il punto focale è dove deve essere: sul pezzo di pane.
Della stessa volontà di asciuttezza è figlia la metrica, mai trasandata ma neanche così rigida e lavorata da far sembrare che debba fornire un sostegno alla poesia: spesso riecheggiante i versi della tradizione (endecasillabo come misura massima, settenario, novenario) più che i versi lunghi solitamente impiegati per soggetti storici; una netta preferenza per le soluzioni di sapore gnomico e per l’uso della spaziatura strofica per sottolineare il momento dialettico nel dettato poetico (soluzione, questa, che da Brecht in poi è diventata quasi d’obbligo nei poeti che conoscano la dialettica filosofica).
Un esempio da gli Ussari
Inutili all’evolversi dell’arme
scomparvero nelle catacombe
agli ultimi dispacci d’Ungheria
quando apparvero gas, carri armati e fanti,
fili spinati che li intrappolavano
sotto la tormenta degli shrapnel.
Qualcosa di loro sopravvisse
tra le avanzate e ritirate nel disordine,
nei cerchi disegnati nei cieli francesi
…
In poche parole tanto un tempo interessava l’esotismo, la capacità di rappresentare mondi e civiltà distanti nello spazio e nel tempo, l’erudizione (che resta però una componente essenziale anche dell’ispirazione di Gallerani) e la narrazione della storia dei vincitori e della distesa del progresso, quand’anche in versione positivistico progressiva, quanto ora interessa allo sguardo del poeta la storia dei vinti e le ideologie che essi hanno espresso. Si potrebbe in sostanza dire che la maggior conquista estetica di questo libro è quella di saper riproporre la poesia storica attenuando le caratteristiche che le sono proprie quando (quasi sempre) è scritta da vincitori e apologeti dell’esistente. La debolezza è semmai nel cedere a volte all’idealizzazione del passato e alla trasfigurazione metaforica di pose e ideologie: ci si incanta facilmente di fronte a sistemi alternativi a quello esistente o esistito ma non basta pensare che furono i Romani e non i Piceni a fondare un impero per renderceli simpatici o moderni o addirittura per fare di loro un simbolo di resistenza, e giustamente la sola immagine onesta possibile che il libro ci fornisce è un groviglio di ossa.
Nonostante si senta da anni la necessità di un libro così e che quindi vorremmo fosse letto, comprato, discusso e potesse ovviamente richiamarne altri molti punti, specie in merito alla tenuta letteraria, rappresentano a mio parere più una timida ipotesi che qualcosa di compiuto: se si legge il libro per intero lo schema diventa alla lunga meccanico e, in certi esiti meno riusciti, anche noioso. Sarebbe stato forse più saggio impostare in questo modo una singola sezione e non un intero libro oppure, secondo la soluzione già praticata da chi ha tentato imprese di simili proporzioni, dare ad ogni quadro un contenuto narrativo, un movimento espansivo. In questa sequenza di brevi istantanee sulle civiltà scomparse si coglie chiarissimamente il senso teorico e la profonda riflessione di Gallerani, ma dopo 40 pagine di popoli che s’incalzano l’un l’altro neanche il poeta migliore sfugge all’impressione di assistere allo script di una puntata di Voyager.
Intendiamoci, chiaramente si tratta di una questione di libri: come un tempo gli Accademici di Francia nei loro studi allineavano ponderose bibliografie positiviste o storico-filologiche, assieme ad atlanti e cimeli delle colonie, così anche oggi Gallerani (come tutti noi!) scrive il suo libro di versi alla scrivania del suo studio e con una biblioteca che si vede manifestamente ricca e sarebbe assurdo aspettarsi diversamente, ma questo deve far riflettere sul fatto che non sempre la giusta teoria produce versi migliori delle teorie sbagliate e pensare che basti aver letto Benjamin e Said per non essere, e lo dico nel senso migliore, tecnico e alto della parola, un parnassiano di sinistra sarebbe un po’ sciocco, in effetti come pensare di essere più furbi del nonno solo perché si è nati dopo.
Resta secondo me insuperata, anche nell’espressione di quel senso della storia come «grande mattatoio», secondo l’espressione hegeliana, che I popoli scomparsi ha così vivo e razionale, la grandezza poetica del colloquio tra sant’Erinn, e l’ultimo bardo Murdoch nel Bardo di Temrah o la lucida profezia del disincanto del mondo e della laicizzazione della società che Odino lancia come un’invettiva contro la nuova religione e contro Cristo nel Runoia di De Lisle.
Non bisogna però essere troppo precipitosi: non si può imputare a Gallerani di non aver saputo eguagliare risultati che forse non lo interessano o che non tiene nella nostra stessa considerazione, né di non aver fatto quello che ancora non si sarebbe potuto fare; del resto tutti i paragoni con Dante, Omero, Shakespeare, sono persi in partenza e quindi sarà meglio una volta di più ricordare come questo libro spicchi assolutamente nel panorama contemporaneo come la promessa che non saremo tormentati solo da canzonieri.
Vero è che anche questo poeta, quando ragione e talento si uniscono e quando il timore della poesia (giusto e sano timore degli infiniti e stupidi vaneggiamenti su poesia e poeti) cede un poco all’impulso della storia che ci ricorda che in qualche modo dovrà finire, ci consegna dei versi di rara potenza, dei quali sicuramente vorremo vedere il seguito:
I Superstiti
Dalle caverne dei monti
i figli decimati nella rotta
scivolando scendono
sui dirupi di ferro, a trincea
del cielo resiudo.
Si calano dove il pascolo
fu fulminato da una scarica fredda,
una luce breve e tremenda
che negli ultimi giorni scemava,
dava pace negli strappi/
Alle pendici, dove inizia il guado
con le capanne più isolate, i letti diroccati
il legno è carbonizzato, il sentiero
scomparso in una valle lunare.
Vedono già dal bosco
i tonfi dei pini crollati, il terremoto
e in pianura le cicatrici dei campi incoltivati,
le orme rimaste impresse
nell’ombra surreale delle strade
e seguendo il canale, fino al mare,
che si ritira con le sue carcasse,
lontano avvertono l’intermittente
tempesta della folgore.
Il firmamento sopra brilla
senza ragione e non distingue
nell’oscurità immensa tra le sabbie
una notte qualunque dal ricordo
di un’altra, oltre le finestre
senza arredi e stanze illuminate.
Ma a gruppi sparsi non s’arrendono,
scavano una casa in ogni luogo.
Al bagliore della lampada
strappano spazio vitale al diluvio
e a cadenza, nascono e si nascondono
di nuovo tra le suppellettili.
Modulano futuri propositi
che corrono di bocca in bocca.
Ballano al ricordo di noi.