Quarta intervista della rubrica curata da Gabriel Del Sarto. Qui, Qui, e qui le precedenti.
Partiamo dal titolo e dalla citazione di Furore, da cui è tratto. Quale significato ha quel romanzo per te, per la tua scrittura e per la tua visione del mondo? Te lo chiedo anche in relazione al fatto che so, per l’amicizia e la frequentazione ventennale che c’è fra noi, della tua passione per la narrativa americana e per le short stories in particolare. E mi pare che nel tuo libro lo sguardo epico che getti sulla provincia sia più vicino a certi americani che non agli scrittori di racconti italiani.
Hai detto tutto. Furore è semplicemente uno dei romanzi più belli e impressionanti che io abbia mai letto. Racconta la storia di una famiglia di ultimi con una forza e una memorabilità davvero epiche. In fondo, credo che la narrazione sia anche un po’ questo: consegnare a una zona di memorabilità una vicenda del tutto trascurabile, come quella di uno o più individui marginali. La provincia è un mondo strano, del tutto singolare (la provincia marchigiana, per storia e cultura, è diversa da quella veneta o da quella toscana, per esempio), ma allo stesso luogo universale: è popolata di vite infelici, marginali, eppure assolutamente degne, come le altre, di essere vissute e raccontate. Ho cercato di farlo con Le stelle vicine, chiedendo alla scrittura di farsi stile, non solo diegesi, perché credo che uno scrittore debba saper scrivere, non solo raccontare una vicenda, e che la memorabilità di un testo passi anche o soprattutto attraverso la strettoia dello stile, come sapevano benissimo Steinbeck e Faulkner, per citare due scrittori americani che non mi stanco di leggere.
Il primo racconto “Cinghiale” è un esempio perfetto, riuscitissimo, di come tu sia stato in grado di unire quello sguardo agli eventi minimi eppure universali, che accadono ovunque. Il finale sembra uscito direttamente dalla penna di un David Means d’annata, quello dei racconti straordinari di “Episodi incendiari assortiti”, quando l’io narrante, immobilizzato dall’evento di cui è testimone, può solo osservare come un tempo e un luogo (un Eden) crolli improvvisamente e definitivamente. Quel serale paradiso di paese, abitato per lo più da giovani maschi in cerca di identità collettiva, somiglia a uno di quei luoghi aggregativi che certa musica leggera (penso a Vasco Rossi, ma anche a un certo Ligabue) ha cantato molto bene. Mostri una notevole capacità, qui e in molti altri racconti, di calarti nei panni di chi vive un’età in cui l’identità si sta formando. Perché questa scelta? Quanto incide il tuo lavoro di educatore e insegnante? E come riesci a collocare questi eventi in uno sfondo senza tempo?
L’adolescenza è un fondale quasi immobile nella memoria di tutti noi. E’ il periodo in cui comincia a delinearsi con più chiarezza il nostro destino, la traiettoria della nostra avventura umana: il carattere si precisa o si complica all’improvviso, gli interessi e l’identità si palesano e ci aiutano a capire chi siamo e come vogliamo interpretare questo breve tratto di tempo di cui siamo fatti e che si chiama vita. L’adolescenza è stata cantata, raccontata, rappresentata praticamente da tutti (penso a un film meraviglioso come Stand By Me di Rob Reiner, che quando ero ragazzo mi colpì moltissimo). Probabilmente il mio lavoro di insegnante mi aiuta quotidianamente a ricordarmi di quanto sia importante questo periodo della vita, spesso travisato e dimenticato dagli adulti (anche se, francamente, mi domando come ci si possa dimenticare che adultus è il participio perfetto di adolesco, e che ogni adulto è dunque il punto di arrivo di un processo di crescita che fa parte, etimologicamente, di tutti noi). Nel libro però non ci sono solo adolescenti di oggi. C’è anche il contesto della mia adolescenza, della mia e nostra fascinazione verso un mondo in rapidissima accelerazione da cui, come cantavano gli Afterhours, abbiamo faticato a uscire vivi: è il mondo dell’esplosione delle discoteche e delle tv commerciali, dell’individualismo sempre più narcisista e sempre meno politico, della nascita e dell’ascesa del computer e delle tecnologie digitale e, d’altro canto, del bisogno forsennato di trovare un senso in tutto questo, di esperire le radici della nostra umanità nell’esistenza quotidiana, anche in modo tragico. Questa in fondo è una domanda “senza tempo”, come dici tu, ed è per questo che forse i miei racconti possono parlare anche a chi non ha vissuto quegli anni e quel contesto sociale e storico.
Questa è una parte della spiegazione, in realtà credo che ci sia anche dell’altro. Tu riesci a dare uno sfondo storico ma al tempo stesso assoluto, quasi eterno, ai tuoi racconti, perché hai un senso profondo, non banale, dell’epifania. Al di là delle mode e delle linee critiche che ciclicamente tendono a minimizzare i fatti che accadono al singolo, l’evento che irrompe nella biografia di ognuno di noi, portandola da una bidimensionalità (quella della cronaca senza verità) a una tridimensionalità (quella appunto di una verità possibile, anche se magari solo illusoria), lo conosciamo tutti. È come uno “stiramento” che la muscolatura della nostra esistenza subisce. Anche se non ti spezzi, ti fai molto male. Improvvisamente la tua misura, la tua taglia, è un’altra e l’adolescenza (nel senso del divenire adulti e non del rimanere infantili) è testimone di questi eventi forse più di qualsiasi altra età umana. È un fatto prima di sguardo e poi di tecniche, che hai affilato con la notevole produzione poetica che ha preceduto questo libro. Gli esempi si sprecano, ma a me piace ricordare il rettangolo di sole che dà li titolo ad uno dei miei racconti preferiti. Qua l’epifania non è l’evento traumatico che accade verso la fine del racconto, ma quello che osserva il narratore nella scena iniziale, dopo la partitella: i suoi amici che bevono e si schizzano alla fontana e un rettangolo di sole. Questo momento è un dipinto. Quanto conta la visione, il vedere, per la tua scrittura in versi e per quella in prosa? Ci fai capire come lavori per costruire un racconto come quello e come lavori invece, se ci sono differenze, per le tue liriche?
La visione conta moltissimo e tu lo sai bene, che sei un maestro di sguardi e di “epifanie private”, come sanno quelli che conoscono le tue poesie. Un rettangolo di sole è un racconto che solitamente piace a tutti, ed è l’unico – forse insieme all’ultimo – in cui non succede niente. Il centro focale è proprio la scena immobile che individui tu, che somiglia davvero a un dipinto: quella del ragazzo sudato che guarda i suoi amici nel sole del tardo pomeriggio e sente nell’aria il profumo delle robinie. Un attimo di perfetta felicità scaturita dal nulla, dal sentimento improvviso dell’esserci. E’ un racconto nato da un moment of being, lo chiamerei con Virginia Woolf, e che si oppone alla teleologia della narrazione con una trama. Già il genere del racconto rappresenta per me una specie di protesta nei confronti di questa imposizione generale e ormai introiettata. Io volevo però dimostrare che si può raccontare anche senza costruire una trama complessa e posticcia, o senza prevederla come primo dovere e conditio sine qua non per la scrittura. Ora che mi ci fai pensare, penso di essere tornato, con Le stelle vicine, a inseguire ciò che inseguivo nei miei primi libri di poesia: isolare un frammento di tempo, anche molto breve, e scavarlo per cercarne il significato, per coglierne l’effetto di radianza. Poi la poesia per me, in effetti, è diventata qualcosa di diverso: ha cominciato a dialogare anche con il pensiero, diventando anche un gesto intellettuale, critico (penso a Il numero dei vivi, per esempio). Forse Le stelle vicine, tra le altre cose, è il modo che mi sono inventato per tornare a interrogare l’esistenza in una forma più vicina a quella lirica, diciamo così. Sembra un paradosso (tornare alla modalità della poesia attraverso la prosa), ma in fondo non lo è più di tanto.
C’è un racconto, “L’ultimo saluto di Cattivik”, che risalta per tecnica, ritmo e, direi, verità. Una anziana scrittrice intrattiene dialoghi con Cattivik, personaggio di fumetti geniali, che molti della nostra generazione hanno amato. Anche in questo racconto dai voce dall’interno ai pensieri di un personaggio, l’anziana scrittrice che è anche la narratrice, che appare sconfitto dall’esistenza, pur avendo avuto un passato di successi (un premio letterario), ma lo fai accompagnandoci, come se la lingua fosse un piano inclinato fra i diversi livelli dell’esistenza, nel territorio della follia e della visione. Cosa vuoi dirci di questo testo? È importante sapere che la donna era stata una scrittrice? E Cattivik, chi è, cosa rappresenta?
Questo è forse il racconto più autobiografico, anche se deformato dalla mia immaginazione. Quella donna potrebbe essere mia nonna, che scriveva poesie (senza averle mai pubblicate, però) ed è morta dopo una grave malattia (un tumore al cervello) che le provocava delle allucinazioni. Io ero un adolescente, all’epoca, e vederla delirare lucidamente parlando a una persona immaginaria (che lei o mia madre chiamavano proprio Cattivik) mi ha molto colpito, come puoi ben capire. Quell’episodio e quel periodo mi sono rimasti dentro, così ho deciso di accoglierli e trasformarli nel personaggio di questa anziana senza nome, che per molti versi poi non corrisponde affatto alla figura biografica della mia nonna materna.
A parte queste tangenze con una vita reale, il racconto mi è servito anche per mettere a punto uno stile diverso da quello “adolescenziale” che contraddistingue racconti come Cinghiale, Un rettangolo di sole o La figlia del circo: mi interessava percorrere tutta la scala dei registri e misurarmi con la voce interiore di persone molto diverse e lontane tra di loro. Ecco perché è importante che questa donna sia stata scrittrice (al di là delle poesie che mia nonna scriveva nei suoi quaderni): è una donna istruita, riservata, che si esprime in un certo modo (per alludere agli atti sconci commessi da Cattivik, per esempio, parla di “schifezze”: non usa parolacce e disfemismi). Mettersi nei suoi panni e nella sua voce è stato difficile, ma molto interessante.
Veniamo adesso al racconto che più ho amato e che chiude l’opera, “La figlia del circo”. L’idea è forte, i personaggi anche. Questo testo aveva tutti gli ingredienti per diventare un romanzo o almeno un racconto lungo. Ma tu hai saputo limare, tenere dentro solo le cose essenziali per farlo restare compatto, senza digressioni o storie a corollario. L’ho letto come leggevo da ragazzo i romanzi d’avventura, con un grado di immedesimazione che mi ha colpito. In questo racconto emergono, insieme al valore delle biografie minime e dimenticate di tutti i tuoi personaggi, anche delle note di speranza, la speranza che dovrebbe avere ogni adolescente nei confronti del futuro. In che rapporto sei tu, con la speranza? Pensi che il finale di partita, come chiamo questo periodo storico, sia già scritto? Se no, quali opzioni può avere Mauro, il personaggio maschile, dopo il contatto con Yasmina, dopo che lei ha varcato quella soglia?
Ah, che domanda complicata e crudele… Provo a rispondere in modo sincero. Io sono padre e insegnante: non posso permettermi di non avere speranza. Non si tratta di una questione di superficie o di una posa, ma di una consapevolezza etica e direi anche politica. Non avere speranza significherebbe anche negare il futuro e la possibilità che il futuro sia migliore del presente nerissimo in cui siamo sprofondati. Ho molti timori, per quello che sta accadendo (pandemia, guerra) e per quel che succederà: ho l’impressione che, dopo qualche decennio di tregua (come la definiva già nel 1999 Antonella Anedda, in Notti di pace occidentale: «Ciò che chiamiamo pace / ha solo il breve sollievo della tregua»), i nodi del passato recente e remoto stiano tornando a presentarsi in massa al pettine (e anche quella che sembrava una tregua, se ci pensi, era solo un fenomeno apparente di superficie, perché le violenze sociali, su scala mondiale o locale, non hanno mai smesso di esistere, come dimostrano per esempio i 5,6 milioni di poveri assoluti che l’Istat ha appena registrato in Italia). Eppure sì, abbiamo il dovere di consegnare un germe di futuro a chi ci circonda e ha fiducia in noi. Il finale della Figlia del circo spalanca proprio quella direzione: Mauro ha una famiglia a pezzi, si sente uno sfigato, è timido, ma quel gesto di Yasmina, il calore del suo corpo, la sua vivacità “diversa” dalla melassa di noia e sciocchezze in cui vede sprofondare molti dei suoi coetanei e delle sue coetanee gli danno forza, gli garantiscono un’ipotesi di futuro, al di là di quella porta chiusa. Ogni tanto, agli incontri e alle presentazioni, qualche lettrice o lettore non particolarmente felice della brevità dei miei racconti mi chiede che succederà, dopo, a questi personaggi. Io rispondo sempre che ovviamente non lo so, e che se l’avessi saputo l’avrei scritto. Forse posso fare un’eccezione per Mauro. Sono certo che lui se la caverà: non so come, non so quando, ma con quel gesto finale Yasmina gli ha trasmesso una forza che nessuno era riuscito a trasmettergli prima. Tutti noi in fondo abbiamo incontrato una persona (o un libro, un pensiero…) così, e tutti noi speriamo di incontrarne un’altra (o un altro) al più presto.