Caro Franco,
due notti fa ti ho sognato. Parlavamo del più e del meno durante la pausa di un convegno, non saprei dire dove e quale né quando. Si intuiva che si trattasse di un convegno irreale, sebbene in presenza. “In presenza”: quanto ci abbiamo creduto, noi, nella presenza… Nel corpo, nella concretezza della vita, nel respiro delle piazze e dei borghi… Oggi sembra un miraggio riconquistato miracolosamente, mentre dovrebbe essere la nostra naturalità.
Una volta che eri venuto a Macerata, ospite da me per una tua lettura, il mattino dopo – prima di riaccompagnarti al treno – ci eravamo dilettati a toccare le pietre del centro storico. Anche io lo facevo, ovunque andassi: annullavo, o così ero convinto di fare, i secoli per rimettermi “in presenza” con chi forse in quello stesso punto aveva poggiato una mano per riposarsi o baciare la fidanzata con enfasi o salutare per l’ultima volta un ivi residente venuto a mancare: mi illudevo, pur conscio che non fosse così, che il contatto casuale rompesse il cerchio oscuro delle distanze e permettesse all’io di diventare un tu. Tu invece in quelle pietre a faccia vista toccavi il presente, le pulsazioni della nostra gente, il nostro humus che ti piaceva tanto.
Eri innamorato degli uomini e della vita semplice, Franco. Ti piacevano le persone, adoravi parlarci, dedicare il tuo tempo a storie comuni, a battute felici, a modi di dire, proverbi, gerghi. La tua poesia era intessuta di quotidianità; me le ricordo da prima che le pubblicassi, le Voci d’osteria che raccontavi, il grande Liber della tua lunga vita, e quell’angel che conservo nel cantuccio più privato e segreto come uno dei libri più belli che mi sono capitati tra le mani; il grande respiro che tutti ti riconoscono, il saper guardare “più in là” (Noventa) nasceva proprio da quella miracolosa piccolezza, da quei nascondimenti operosi, da quel privilegiare i semplici, lontano, il tanto che è sufficiente per salvarsene, dagli ambienti letterari.
Ricordo la volta che ci conoscemmo, ero poco più che ventenne. Al termine di un qualcosa che c’era stato all’Università e dove eri venuto come ospite (io curavo un po’ di ufficio stampa), durante il pranzo ti scusasti per non poter star seduto a tavola con noi studenti, ma promettesti di rifarti la sera a cena. E dopo cena – poiché legammo subito in maniera speciale – per accompagnarti all’albergo passammo in piazza Libertà: deserta, come era sempre negli anni ’80, e semibuia. E lì tu, in mezzo agli altri amici, mi abbracciasti forte dicendomi “Caro, caro, mi pare di conoscerti da tutta la vita!”. Io ero un po’ imbarazzato, non me l’aspettavo. Tu invece eri come il mio amico pittore Wladimiro Tulli: lui non aveva paura dei colori, tu non avevi paura dei sentimenti. Io ero ancora allo stretto con entrambi.
Il tempo ci ha permesso di familiarizzare: ho conosciuto bene tua moglie e incontrato un paio di volte i tuoi figli; Silvana era una donna eccezionale, di un’intelligenza e di una vivacità rare. Era stupendo vivervi contemporaneamente, c’era un legame che andava oltre, che faceva stare bene a guardarvi, a sentirvi bisticciare sulle sorti del gatto o sul da farsi di lì a breve; minime digressioni, perché eravate davvero una cosa sola che sollevava l’umore. Le volte che si è stati insieme – a pranzo a Milano o passeggiando sui lungomari adriatici (a Pesaro da Gianni D’Elia ma poi anche a Cattolica, dopo che per tante altre estati eravate andati in Salento) – sempre preferivo chiacchierare con lei. A te lasciavo in consegna i ragazzi che negli anni si erano cominciati a radunare intorno a me: chi meglio di te avrebbe potuto dar loro così tanto in così poco tempo? E io, nel frattempo, mi godevo l’aria marina e i ricordi di Silvana, ci fumavamo di nascosto da te una bella sigaretta e ridevamo a crepapelle, perché sia io che lei – come sapevi bene – avevamo sempre la battuta pronta. Poi, alla fine dell’incontro, quando i ragazzi trasognati e saziati entravano in una sorta di delicata consapevolezza, c’era sempre un po’ di tempo per noi due: uno scambio di sguardi, una serie di intenzioni leggere e forti, di consolazioni profonde, di incoraggiamenti taciti ma proficui, poche parole tue importanti e imperdibili. Con cui fare i conti, o a cui attingere, ancora oggi, a distanza di anni.
Una notte – dopo una delle tue letture, mentre ti riportavo in albergo – mi tenesti in macchina praticamente fino all’alba, per leggermi i passi salienti del tuo Carlos Castaneda, di cui ti eri appassionato. Alcune cose le sentivo prossime ai miei punti fermi, ma tante altre mi sfuggivano: troppo sciamano, Castaneda, per i miei gusti. Sicché, sopravvivendo al sonno incombente in forza dell’entusiasmo che manifestavi e che meritava comunque attenzione e rispetto, ti proposi invece la lettura dei Racconti di un pellegrino russo. Con sorpresa, mi rivelasti che già altri te li avevano consigliati, e ti ripromettesti di leggerli prima possibile (forse te li spedii per posta la settimana successiva, ora non ricordo bene). Eri un divoratore di libri, ma non alla maniera degli eruditi o dei neofiti: per te si trattava di incontri in carne ed ossa, anche se erano pagine. Ci ritrovavi dentro la tua storia ed anche la tua scrittura. Coglievi con freschezza e sapienza alcuni particolari che agli altri sfuggivano totalmente. E nelle nostre telefonate chilometriche, tra gli aggiornamenti sui reciproci stati di salute e quelli sulle attività degli amici che puntualmente mi incaricavi di salutare, mi confidavi quelle tue fulminazioni ulteriori suggerendomi i titoli da non perdere assolutamente.
Mi piaceva la tua umanità, Franco. Mi avevi conquistato con la tua semplicità, col tuo slancio leale. Ma anche con il tuo sguardo che sapeva rimanere fisso (senza che le pupille si muovessero) e mi pioveva dentro leggendomi. Lo facevi anche con gli altri: di moltissimi di quelli che ti presentai riuscisti a cogliere da subito, con assoluta precisione, gli intenti, le doppiezze, le povertà, le ricchezze sincere, gli affetti. In questo (anche in questo) eri speciale.
Nel 1996, quando avevo (già allora…) deciso di non pubblicare più libri di poesia, ricordo la tua reprimenda durissima affinché non sotterrassi colpevolmente il talento. Poi, quasi costringendomi a farti leggere le bozze di quel librino che avevo pronto ma tenevo fermo, pronunciasti la frase fatidica: “la prefazione te la faccio io. Lo mandi in stampa subito”. E io mi fidai, tant’è che – con altrettante decisioni successive di non pubblicare più – sono ancora qui. E ogni volta che dubito, mi ti vedo davanti. Più o meno in quel periodo, dirigesti a casa mia anche l’amico Nicola Bultrini, venuto da te a conoscerti per stima e richiesta di consigli. Gli dicesti che a Macerata c’ero io e che, per quanto lui vivesse a Roma, era pur sempre di Civitanova, cioè un marchigiano: perché tu, Franco, nella linea marchigiana ci credevi, ti convinceva. In effetti, le Marche hanno prodotto una notevole quantità di ottimi libri di poesia, nel Secondo Novecento e ancora oggi: penso a nomi come Umberto Piersanti, Gianni D’Elia, Eugenio De Signoribus, Francesco Scarabicchi, e prima ancora Paolo Volponi, il nostro Remo Pagnanelli; e ancora Guido Garufi, Leonardo Mancino, Germana Duca, Plinio Acquabona (dimenticatissimo e ingiustamente), fino a noi della nuova generazione (i nati negli anni ‘60) e quindi ai giovani e giovanissimi, molti dei quali ho tenuto – per così dire – “a battesimo” editoriale. Una terra ricchissima di esperienze e di emergenze.
Tu sei sempre stato aperto al nuovo, quanto contemporaneamente radicato nel fiume della tradizione: diffidente verso la Neoavanguardia, Dante era il tuo primo motore poetico, la folgorazione principale che originava il tuo sentire e ti permetteva di cogliere l’attendibilità del dire di ognuno. Poi una volta, a “ParcoPoesia” (festival curato dall’amica Isabella Leardini a Riccione, credo si trattasse dell’edizione del 2004), avvilito mi dicesti che “Il popolo ha tradito, ormai non c’è più niente da fare”. Tentai un’opposizione, ritenevo che non fosse così, che nonostante l’imbambolamento generale vi fossero margini di speranza per guarire la nostra generazione da certe fissità, da certi ammorbamenti e imbarbarimenti intellettuali e non solo. Con le parole di uno splendido volumone di Giuseppe Montesano uscito più di dieci anni dopo (ma conforta ogni volta scoprire che non si è soli a pensarla così), ribattevo che “Le opere di scrittori e musicisti e filosofi, quando raggiungono l’incandescenza sensuale e conoscitiva che hanno nei Maestri, sono una via concreta di fuga dal pensare e sentire da ipnotizzati: svelano come la menzogna delle parole imprigiona le nostre vite, ma mostrano anche come le parole in rivolta possono scioglierci dalla rete di una realtà spacciata come l’unica possibile da ipnotizzatori ipocriti e ipnotizzati consenzienti” (G. Montesano, Lettori selvaggi, Giunti, 2016).
Mi sa però che avesti ragione tu pure quella volta. Perché i consenzienti difficilmente acconsentono a dissentire, a rompere il proprio specchio di tranquillizzanti ed anestetiche banalità. Quante volte ci penso, quante volte ti penso…
Caro Franco, manchi da un anno ormai. Te ne sei andato in punta di piedi, nel sonno. Nella nostra ultima telefonata – sempre cordiale nonostante il dolore grande della perdita recente di Silvana, e sempre cara nella tua richiesta di venirti a trovare (cosa che non sono riuscito a fare, perché anche i miei vent’anni ormai sono diventati molti di più) – “mi raccomando, caro, non sotterrare la penna!”, mi hai detto ancora. Come se non mi ricordassi più di quella volta là dietro; e chi ti può dimenticare, maestro che non amavi essere chiamato maestro ma solo compagno di strada un po’ più grande, semmai fratello, senz’altro amico?
Negli ultimi anni soffrivi della perdita progressiva della vista, alla fine eri praticamente cieco, così mi dicesti quell’ultima volta che ci siamo sentiti. Non potevi più leggere, non potevi più scrivere, ed era per te una limitazione feroce. Ma continuavi ad andare ovunque ti chiamassero, perché l’argomentare era ancora vivace, e più ancora la luce del sentire, come la memoria – che grande regalo avere la memoria perfetta! – che ti consentiva di dire a mente le tue poesie più emblematiche. Così gli amici che ti incontravano ora a Bologna, ora altrove, sempre mi riportavano i tuoi saluti o portavano i miei a te; perché quando te ne sei andato senza avvisare nessuno, io non avevo ancora perso la speranza di riuscire a rivederti, a godere della tua presenza per almeno un’ultima volta. Lo stesso dispiacere ce lo siamo comunicati senza troppe parole anche con Giuseppe Rosato e Giovanni Tesio: incontri e sodalizi che permettesti proprio tu, a Colli del Tronto tanti anni prima, quando ci avevi coinvolti – con l’altro amico Luigi Manzi, che da troppo tempo non sento – nell’esperienza del premio che là si teneva e di cui eri presidente. Che ricordi felici, quanta bella e sana ingenuità!
Caro indimenticabile Franco, mi mancherà sempre il tuo abbraccio buono, il tuo conforto sincero, la tua totale libertà: di essere quello che sei sempre stato – dall’epoca militante nel PCI alla scoperta di Dio –, di chiamare le cose col loro nome, e di chiedere scusa quando ti accorgevi di avere sbagliato. Sei stato un intellettuale vero proprio per questo, tutti dovrebbero tenerti a modello. Sei stato soprattutto un uomo, prima che un grande poeta.
Pensa che le nostre scritture non si assomigliano affatto: mi sento “loiano” soltanto nel tuo modo di sentire, nel tuo cercare di comprendere, nella necessità di semplificarmi per rendermi diafano alla voce. Ma per il resto… tu hai avuto, nei tuoi versi, l’energia franca e solida del grande fiume Po, la distesa sterminata delle pianure, e alle spalle il mare Tirreno tra Genova e la Sardegna. Io sono un uomo di collina: il mio è un mare d’erba, un moto ondoso di terra. Stiamo arroccati sul pennone dei borghi, il nostro navigare è sognante, è piuttosto una reverie. Eppure le nostre storie si sono capite tra loro, le nostre parole hanno dialogato a lungo. È questo, secondo me, il più grande mistero della poesia (e della vita).