“L’Olfactorium di Moira Egan costituisce un’insolita esplorazione della ekphrasis, della poesia cioè che elegge a musa un’opera d’arte reale o immaginata. In questo caso la musa non è un dipinto o una scultura; piuttosto, è incarnata dall’arte evocativa del profumo”.
Leggere la quarta di copertina di Olfactorium di Moira Egan, edito da peQuod nel 2017 e tradotto in italiana da Damiano Abeni,[1] di ritorno dal Musée des Beaux-Arts di Bruxelles, museo in cui è conservata quella Caduta di Icaro di Peter Brueghel che ha ispirato Auden nella composizione della poesia che, insieme al Self-portrait in a Convex Mirror di Ashbery, è una delle maggiori prove ekphrastiche della contemporaneità, ossia Musée des Beaux Arts, si rivela un’operazione tutt’altro che neutra. In primis perché leggere la parola ekphrasis dopo essersi fermati di fronte all’opera di Brueghel e averne sondato pigmento per pigmento i colori e le forme cercando in filigrana le parole del poeta riattiva quel senso di vertigine e di riflesso che si avverte quando la mente vola dalla pagina all’immagine mentale del dipinto e viceversa. In secondo luogo per l’odore incredibile e inspiegabilmente non nauseante dell’olio di frittura (alcuni dicono sia grasso animale, in ossequio alla tradizione belga) della patatine fritte che pervade la mansarda con le finestre aperte di chi scrive; l’ekphrasis di questo odore sarebbe una mirabolante pubblicità della nota friggitoria a pochi isolati da qui o, in alternativa, un referto medico ad alto tassi di colesterolo. In terzo luogo, per il fatto che questo odore, in strada e con la mascherina anti-Covid tirata su per nascondere la barba arruffata sotto di essa dopo un lungo tragitto in metropolitana, non fosse minimamente percepibile. Ci si aspetta, leggendo queste righe, una specie di cartellino illustrativo di vari profumi, una sorta di viaggio nelle etichette di profumi e deodoranti che a volte ricordano versi di D’Annunzio o di Baudelaire (che il futuro della poesia sia nell’igiene personale?). In realtà, chiuse le finestre, le impressioni ricavate sono varie. Visto che si parla di profumi e di odori, si seguirà il procedimento standard per la descrizione delle fragranze; note di testa (le più volatili e d’impatto, una sorta di biglietto da visita del profumo), note di cuore (il profumo si presenta e parla con voi) e note di fondo (il profumo dice qualcosa che non capite, vi resta qualcosa in mente, ci pensate, ritornate sopra quello che ha detto, magari lo chiamate per farvelo ridire e spiegare…oppure lo dimenticate).
note di testa
La poesia è qualcosa che ha a che fare con le parole. Lo diceva Mallarmé, fra gli altri, a un Degas che aveva tante idee, emozioni e fermenti nella testa ma che, al momento di scrivere, si arrestava di fronte al foglio. “Mio caro Degas, la poesia si fa con le parole!” era la risposta dello scrittore. Appunto, la poesia si fa con le parole. Ma è poi così scontato che la poesia fatta di parole debba trattare delle parole stesse? Mallarmé forse avrebbe detto una cosa simile, rimanendo però con un paio di dadi in mano che non abolivano il caso. Per alcuni intellettuali, e per alcuni studiosi del fenomeno dell’ekphrasis (in ordine sparso, Krieger, Heffernan, Hollander, Webb, Wagner…rimando a un bellissimo articolo sul tema di apparso meno di un mese fa su «lay0ut magazine» a cura di Anthea Grassano intitolato DON’T mind the gap. Sullo scarto fra prole e parole)[2] vale invece quello che W.T.J. Mitchell afferma in relazione al concetto di medium visivo: “Tutti i media sono media misti, con proporzioni variabili di sensi e tipo di segno”. Se per ‘medium’ si intende, nel senso più largo possibile, quello che permette a un’immagine mentale di farsi parola, pittura, scultura o altro, e se si dà fiducia alle parole di Mitchell, allora la poesia è un medium misto, qualcosa fatto con le parole ma non solo. Un esempio può essere quello che deriva da un’analisi empirica dell’atto della lettura; le parole hanno una consistenza grafica, le pagine hanno un profumo, i libri spesso si comprano (anche) perché hanno un determinato odore, così come il film sono fatti di immagini, parole, musiche, così come il medium musicale è fatto di onde sonore e di strumento ligneo, elettronico, digitale…L’atto ekphrastico si fa allora movimento intermediale, qualcosa che crea uno scambio fra media, un’oscillazione sensoriale che ha, al centro, il vuoto dell’esperienza, limite asintotico dell’arte.
Che nel libro della Egan ci si concentri sui profumi rende questo fatto ancora più interessante. Norman Bryson, noto critico d’arte e pioniere dell’intermedialità, in un suo articolo del 1988 apparso su “Style” e intitolato Intertextuality and Visual Poetry provava a sondare la correlazione fra immagini e parole a partire dalle teorie di Kristeva e Barthes sull’intertestualità. Il testo letterario, visto sotto l’ottica di Barthes, si presentava come una rete di richiami ad altri testi, una sorta di compenetrazione di citazioni e di rimandi ad altri autori che, invece di ancorare la parola alla referenzialità e alla realtà, la alleggeriva rendendola fluida, mobile, malleabile e trasformabile. Anche le immagini, se prese dal “punto di vista della vista” e dello sguardo si rivelano secondo Bryson mobili, fluide; la retina non trattiene le immagini per sempre, le assorbe e le rilascia, le prende come punti di partenza per sguardi ulteriori, per affondi incontrollabili. Immagini e parole fluttuano, rapidamente trapassano di forma in forma, evolvendo e modificandosi. La differenza fra le due forme sta nel fatto che le immagini (Mitchell parlerebbe qui di picture – immagine materica – e non di image – l’immagine mentale) hanno una imprescindibile componente corporale, un colore che è materia e che non può essere veicolato se non dal pigmento, dall’acrilico o dall’olio.
Le parole sembrano essere, da questo punto di vista, più simili alle essenze dei profumi che alle immagini; vengono ascoltate, assorbite, ripetute, rilanciate, modificate, decontestualizzate, possono distanziare e offendere, sedurre e appassionare. Possono, come i profumi, richiamare alla mente quello che non c’è più, ridare una sensazione a partire da un innato destino di caducità e di volatilità. Un’ekphrasis di un profumo sarebbe quasi un guardarsi allo specchio della parola, un odorare la scia di se stessa. O almeno di chi indossa la parola e parla il profumo.
note di cuore
Licheni, cannella, gelsomino, sandalo, pesche, zafferano, assenzio, garofano, uve, genziana, vaniglia, susina, ametista, cedro, coriandolo, pepe rosa, elicriso, cipresso, vetiver, pompelmo, arancia, lavanda, gerani, pepe, ginepro, giacinto, incenso, magnolia, fieno, limone, polline, ibisco, pera, narciso, zibetto, ambra, muschio, bergamotto, viola, iris, lavanda… entrare nella pagine di Olfactorium è fare conoscenza di queste note aromatiche – ancora, sembra che il profumo, per sua essenza, sia destinato a imbricarsi e a fare corpo con altre forme di sensibilità. Qui è la musica: la divisione percettiva in note di testa, di cuore e di fondo è quello che rimane di una lunga ossessione sinestetica dei primi profumieri, che avevano pensato (rimando a The Art of Perfumery and Method of Obtaining the Odors of Plants di G. W. Septimus Piesse, un trattato pubblicato a Philadelphia nel 1857) di dividere le sensazioni olfattive in dodici gradi corrispondenti alle note musicali e alle loro alterazioni – e di questi nomi antichi e segreti, da Mille e una notte. Sono presenti tutte le categorie olfattive, l’esperidata o agrumata, la floreale, la fougère, la cipriata, la boisée o legnosa, l’orientale o ambrata e infine la cuoiata.
La raccolta è un susseguirsi di fragranze e di boccette di profumo: la scrittura di queste poesie ricorda la pratica ekphrastica ma forse, più che di ekphrasis vera e propria, si potrebbe parlare della presentazione emblematica del profumo. L’emblema, nella sua forma classica di emblema triplex si presenta come un conglomerato di tre componenti; il titolo, l’immagine, il testo. Anche qui lo schema è lo stesso. Si presenta il nome del profumo, lo spazio tipografico tra il titolo e la poesia crea una sorta di cassa di risonanza in cui il lettore immagina di percepire gli odori del profumo indicato, entrando a fondo nella sua memoria olfattiva, e infine viene presentato il testo, che lega la memoria olfattiva della poetessa alla sua memoria personale, quasi intima.
Una poesia è dedicata a un profumo per ragazzi, Love’s Baby Soft, e a un incontro con un uomo (il primo?) che non va oltre lo spazio del desiderio del bacio a causa della protezione paterna: “Papà ringhia: ‘è ancora vergine’, e mi fulmina / con lo sguardo. Capisco. Era una domanda”.
I profumi unisex sono tanti in questa raccolta: Eau d’Italie, Paestum Rose, Jardin du poète. Due storie d’amore e una visita a un giardino. La paratassi è dominante, le frasi si sovrappongono l’una dopo l’altra e la struttura della poesia va intuita, più che ricostruita. Va seguita come le note di un profumo, nella loro successione e mutevolezza. Il disegno manca, il colore si fa materia e corpo: “Sono certa lo sapesse che il cipresso / è l’albero dei cimiteri italiani, morte incarnata / nel verde corpo di lance che puntano al paradiso. / Inspiro: vetiver vivace, pompelmo e arancia / così mordaci che vengo ricacciata / in un altro giardino in cui avevo imparato / l’amaro ossimoro del dolce frutto / succulento che m’era stato offerto, spicchio su spicchio; / il vago muschio nel calore del suo abbraccio; / la antiche mura di pietre sgretolate, e così la mia fiducia”). Lo slittamento dalla memoria olfattiva a quella personale non è sinestetica, ma metonimica. Un profumo ricorda un luogo, una persona, il portatore di quella fragranza, e i sentori, scivolando sull’asse del desiderio, ripresentano quelle immagini vissute. Non è un caso che, per il Roland Barthes che scrive la postfazione all’Histoire de l’oeil di Bataille, la metonimia sia la figura retorica più erotica.
I profumi per uomo sono quelli che, nella raccolta giocano più sul pedale della seduzione, che però non va intesa come corteggiamento animale, bestiale. I profumi scelti da Egan sono: Halston Z-14, As Sawira, Lagerfeld for Men, Baudelaire, Spicebomb, fragranze eleganti più che seducenti, affascinanti. La poesia dedicata a Lagerfeld for Men è il ricordo di un medico-angelo che salva un paziente (la sorella dell’autrice): “Entra il dottore, con una patina di lucentezza / in completo beige, arancia amara e cannella dolce. // Non è proprio il momento migliore per pensare / Dio mio quest’uomo ha un profumo adorabile, / con mia sorella in rianimazione al limitare / della morte o di un fato altrettanto orribile. […] Quel profumo, anni dopo, qualcuno lo regalò / a nostro padre. Io e mia sorella sussultiamo nel ricordare / quell’angelo splendido in ospedale”. Oppure, in As Sawira, un profumo della nota casa profumiera Penhaligon, la figura maschile che indossa il profumo è colta nell’atto di ricordare qualcosa. L’ekphrasis del profumo si fa ricordo del ricordo, e la trasformazione alchemica di queste memorie avviene tramite le formule magiche degli ingredienti: “Nel cofanetto che ha scolpito ci sono cose preziose: / olio di davana, pistilli di zafferano, un cucchiaio / d’argento con la fessura per l’assenzio; / qualche rosa essiccata, chiodi di garofano, fiori di gelsomino. / I miei ricordi dice, Dei bei tempi andati. / Sul secondo ripiano dello scrigno c’è incenso: ambra / e làdano e muschio, legno di sandalo. / E queste sono offerte, perché mi sembra, / cioè credo, che i bei tempi torneranno. Brucia dell’oud, / spiega che è la potente resina che si forma / quando miceti e marciume invadono l’agarwood”. Questo linguaggio quasi esoterico per il lettore eurocentrico (quanti di noi sanno che la mirra dei Magi è una resina, quanti capiscono a fondo gli unguenti che le donne portano al Sepolcro senza avere coscienza dei profumi e dei rituali che evocano? Quanto tutto questo ricorda Teilhard de Chardin, il “gesuita proibito” spedito per punizione in Cina costretto a parlare di pane a chi non mangia altro che riso, quanto la geografia può essere corpo spirituale…) si fa senso e parola.
I profumi da donna, infine (la Egan sceglie questi: Mira Bai, Poison, Magnolia Romana, Ce Soir ou Jamais, Tabu, Mon parfume chéri per Camille) sono ispiratori invece delle poesie più sensuali e dirompenti della raccolta, con un’attenzione al dettaglio erotico e sessuale della fragranza. Questi profumi sono alchimie disturbanti, veleni, Poison che infrangono Tabu, anche se in maniera autoriflessiva, quasi una profanazione triste, involontaria e mai perversa (“Pattugliavamo le strade, stivali neri, conne di pelle / attillate, giacche da biker. Violazioni portatili / e labbra di zucchero filato. Frutto proibito. // Sono certa che allora non avevo capito / la radice di ametista: ‘non ebbro’, apotropaico / contro l’Eccesso; né che il color porpora / prende il nome da un mollusco che secerne / una tintura cremisi ( e tutto il tempo, la soffice / vulnerabile creatura sta lì dentro profonda / e coccolata da una conchiglia così dura / che non si lascia penetrare quasi da niente. Granitica).”; “Fuggii a New York, lungo le strade sola, / correnti esotiche, neroli e chiodi di garofano. / Ci svegliammo il mattino dopo, dividemmo un’arancia. / Si chiedeva perché avevo pianto. Lui non sapeva”).
Il gioco intermediale dei profumi, il loro essere ekphrasis di ricordi e al contempo ricordi di corpi, mette in mostra che al centro dello sguardo ci sia, in fin dei conti, la mancanza che permette la parola, che la genera. Del profumo si avverte la scia, la cadenza che si stacca e deteriora, così come la parola che, se definisce e incardina, limita e disintegra la vita. Un’ekphrasis più umile, questa dei profumi, un’ekphrasis più umana, di sicuro.
note di fondo
L’odorato, l’olfatto, insieme forse al tatto, è un senso poco “catchy” per la riflessione filosofica, per la poesia, per il discorso comune. Annidato in altri sensi, vive come il mollusco nella conchiglia, escluso dalla triade hegeliana “vista – gusto – udito” o da quella mediatica “Netflix – Masterchef – X Factor”. Sembrano rimasti loro tre a giudicare dal fatto che le mani, di questi tempi, sono perennemente stordite da soluzioni alcoliche di varie consistenze, dalla gelatinosa alla liquida e che il naso, a differenza della bocca, sia coperto e nascosto(si può togliere la mascherina per mangiare, non per annusare i fiori). Una sorta di nuova era asettica, un periodo di “silenzio olfattivo”, per citare Alain Corbain. Lo storico della cultura che nel 1982 pubblicava le sue ricerche d’archivio sulla disinfestazione dell’aria dai cattivi odori fra 1700 e 1850 sotto al titolo Le miasme et la jonquille (edito in Italia da Bruno Mondadori nel 2005 come Storia sociale degli odori) si esprimeva proprio in questi termini. Il miasma, l’aria fetida, pestilenziale, l’odore di escrementi, di campagna (o meglio, di non-città) andavano aboliti in quel periodo. La lotta per l’affermarsi del concetto (più ampio di quello di Parini) di “salubrità dell’aria” passava per il concetto che “puzzare ti rende simile alla bestia”, più che per la cattiva qualità dell’aria. Quella c’è sempre stata, e c’è ancora. Ma il profumo, il Narciso che nasce dalla bestia scacciata, raffinata e ripulita nella pratica quotidiana della toilette personale, dell’igiene segreta del gabinetto, lui non lo si sente più di questi tempi. Questo profumo così pieno di ricordi, così simile alle parole della poesia dura il tempo di uscire di casa.
Bello allora trovare libri come Olfactorium che ricordano la pratica dell’ascolto, della degustazione dell’aria, della costruzione di piramidi, oltre che olfattive, di memorie, in cui si conservano i ricordi di quello che è stato e da cui trapela, a dispetto della loro tetragona impermeabilità, una scia lievissima di vita.
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[1] Il libro appare, nell’originale inglese, come la prima parte del volume Synaesthesium, edito da Encounter Books nel 2017 e vincitore del The New Criterion Poetry Prize nello stesso anno.
[2] https://www.layoutmagazine.it/dont-mind-the-gap-scarto-prole-parole/