Qualche mese fa è uscita la raccolta Là Fuori, di Corrado Benigni (Valigie rosse, pp. 47, € 10): un’edizione-premio, visto che la piccola raccolta ha vinto l’importante Premio Ciampi Valigie Rosse 2020.
Dietro un obiettivo fotografico o finestra che sia, l’io di questi testi, si pone di fronte al mondo (o all’immagine del mondo), per tentarne una narrazione che dalla superficie, elemento spesso presente, si addentri nelle fratture, in quelle soglie che anche le immagini possiedono. D’altronde la finestra o l’obiettivo sono anche strappi che creano sguardo e che, convocando il mondo a raccolta, cercano di porre a tutti noi la domanda di senso, quella che ci può tenere uniti: chi siamo quando siamo insieme?
Per cercare di penetrare un po’ di più dentro queste parole sempre calibrate, a volte quasi algide, ho posto alcune domande a Corrado, in una sorta di intervista recensione che inaugura una nuova rubrica nella nostra rivista, non a caso chiamata Al Caffè.
Mi pare che tu abbia le idee chiare, dal punto di vista del progetto della plaquette. Si tratta, infatti, di un piccolo corpus molto compatto, come in molta della nostra grande tradizione, e per questo seduttivo. La vita ordinaria, il non senso, ma anche “il limite di qualcosa che non so”. In pochissimi versi, mi riferisco alla poesia iniziale, squaderni un intero programma, un micro-universo in cui il movimento più evidente è quello di un camion che passa. Quale mondo ci stai per rappresentare?
Intanto mi piace molto l’espressione che hai usato: “micro-universo”. Credo la potenza della poesia sia tutta qui, nella sua forza di miniaturizzazione, nella sua capacità di contenere mondi in pochi versi, in poche parole, nell’economia di un perimetro circoscritto, dove anche il bianco del foglio parla. Venendo alla tua domanda, in generale non c’è mai un progetto preordinato alla base di un mio libro, nemmeno in questo; quasi sempre però c’è un nucleo tematico che lentamente si coagula scrivendo, versi che si chiamano e si richiamano sotterraneamente, prendono forma in grumi di senso e immagini. Questo avviene anche inconsapevolmente, come un mosaico che lentamente si va componendo nell’atto stesso dello scrivere, ma solo alla fine s’intravede il disegno. In questo senso la poesia “fa” il poeta e non viceversa.
In “Là fuori” il mondo che sembra delinearsi (uso non a caso la parola “sembra” perché ogni lettore è libero di leggervi quello che crede e sente) è una realtà concreta, eppure vista con una luce paradossale, che ne deforma i movimenti e il senso. Prevalgono scenari di luoghi marginali, spesso della provincia, “in una terra senza viaggi e quasi senza movimento”, come ha scritto Paolo Maccari nella nota critica. Nella poesia che citi e che apre la silloge troviamo frammenti di una quotidianità oscillante tra routine e insensatezza (un camion che passa e solleva un foglio di un giornale sull’asfalto, un uomo alla finestra, corpi sopravvissuti alla loro ombra), che aprono a riflessioni sulla labilità dell’esistenza, in una “congiunzione luminosa di niente e tutto”, per dirla con un verso di Mark Strand. Direi che ancora una volta il tempo, l’attrito del tempo sulle cose e su di noi, è il tema di fondo di questi versi.
Hai usato la parola “rappresentare”, che è certamente affascinante perché rimanda all’immaginazione, e dunque evidenzia come la poesia non possa e non debba essere descrittiva. Ma in poesia l’immaginazione da sola non basta perché è astratta, sostituisce le cose e gli esseri con la rappresentazione, appunto, mentre la poesia cerca di incontrare la loro piena realtà, il loro mistero. In questo senso la poesia non è fatta per produrre e comunicare un significato, per enunciare dei pensieri: il suo compito è quello di consegnare alle parole la capacità di designare, provando così a restituirci un nuovo rapporto con il mondo.
Concordo. Certo il rapporto fra rappresentazione e realtà è uno dei punti chiave non solo di questa tua raccolta. Probabilmente, ma posso sbagliarmi, agisce nella tua poesia, la tua passione per la fotografia, il tuo approccio competente alla composizione e all’immagine che fissa la vita che si svolge. Cosa ne pensi? Ad esempio nella seconda poesia citi un cartellone pubblicitario, “una figura/dalla superficie di un manifesto strappato”. In questo fermo immagine colgo molta densità: la capacità di cogliere un dettaglio in cui la vita esiste, il richiamo alla superficie, che poi torna in altre poesie, il senso di precarietà e di rovina che si respira nella provincia ma anche in certe grandi città (penso a Roma, ad esempio).
Il mio rapporto con la fotografia è lontano dal concetto di “fissità”, dalla “ghigliottina” dei fotografi del momento decisivo.
In fotografia, come nella vita, c’è gran poco di definitivo, di pietrificato. Per Adorno la sostanza dell’arte era la sua stessa transitorietà. Può sembrare un paradosso, ma un bravo fotografo deve mostrarci questa precarietà dell’esserci, non certo cristallizzando l’attimo, ma reinventando nell’occhio e nella mente dell’osservatore un nuovo tempo, dove il confine tra vero e rappresentazione del vero è sottilissimo, perché la fotografia non è un’arte della superficie. In questo senso penso che la poesia sia sorella della fotografia: entrambe ripongono nelle immagini il potere e la capacità di attivare le nostre strutture percettive preconsce invitando il lettore o lo spettatore a entrare nel movimento che l’opera suscita in lui, e nello stesso tempo divenire cosciente della propria libertà di fronte a ciò che gli si presenta.
Forse anche per questo sono sempre stato affascinato dalle immagini di luoghi marginali, dagli spazi incompiuti o in rovina, da ciò che sta ai lati, dove di solito l’occhio tende a non posarsi pensando non ci sia niente da vedere. Endsites li ha definiti Lewis Baltz. Ho sempre trovato in questo una metafora della poesia stessa, come di qualcosa che nel mondo sta dietro, è marginale, minore, a volte informe, neonato o già distrutto, ma potentemente esistente. Molti di questi luoghi marginali sono presenti in questo mio ultimo libro, si tratta di “luoghi imprecisi”, anche se concretissimi, dove la realtà è mutevole e nasconde infinite possibilità per lo sguardo. Certamente la provincia è un teatro ricco di queste superfici “minori”, ma anche nelle città, nelle metropoli (penso a Milano, che conosco più da vicino) sono sempre più presenti questi spazi, che mostrano in modo meno evidente la morfologia della vita contemporanea. Questi fuori-campo sono per me pozzi di conoscenza e di fascino importanti, che spesso prendono forma nelle parole.
Superficie, che sia quella di un manifesto o di uno schermo, è una parola chiave del libro. Penso ad esempio a uno dei testi che più direttamente manifestano il tuo sguardo: “Siamo qui. Siamo su una superficie./ Siamo la superficie”. Cosa puoi dirci di più, su questa metafora? E quale rapporto intrattiene con un’altra parola che la evoca, quella “cornice” che, come dici nel testo a pag. 23, sembra contenerti? C’è come una sensazione diffusa, leggendo questa raccolta, di guardare attraverso uno schermo o un obiettivo fotografico, che però non solo registra il reale, ma ne scansiona le nervature. Come se tu giocassi su questo piano superficiale, bucandolo improvvisamente.
La superficie è il reale che scompare. Scompare perché esiste sempre di più un gap tra la realtà e il nostro modo di percepirla, in altri termini noi viviamo un’esistenza in differita poiché si è creato uno iato tra l’evento e il suo doppio: l’immagine. In questo sta, secondo me, il nodo cruciale del nostro tempo. Ecco perché l’atto del vedere è un tema così ossessivo in questo mio libro e più in generale nella mia riflessione poetica. La poesia oggi non può non interrogarsi su come la pervasività delle immagini condiziona il nostro modo di vivere, di percepire il mondo. Attraverso la poesia noi possiamo bucare questa superficie, leggere le sue nervature, come dici. Lo spazio di una poesia sul foglio bianco è per me come l’obiettivo di una macchina fotografica, o meglio, di un microscopio.
Quanto alla cornice è effettivamente una metafora molto presente nei versi di “Là fuori”. La cornice rimanda a un senso del limite, del perimetro: noi possiamo vedere solo una porzione di realtà e allo stesso tempo chi ci osserva percepisce soltanto una parte di ciò che siamo realmente. La poesia diviene dunque lo strumento per andare oltre quella cornice o se preferisci quell’inquadratura: “Vediamo attraverso le parole”, recita un verso del libro. Io sento, da scrittore ma anche da lettore di poesia, che un testo in versi è riuscito quando si stabilisce un equilibrio tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori “l’inquadratura”.
“Sulla superficie dell’immagine circolano forze misteriose” scriveva Flusser. Con questa cifra del mistero mi pare tu intrattenga un dialogo che innerva tutta la plaquette, tanto da arrivare a dire (in un distico molto bello): “Come sarebbe chiaro il mondo senza immagini,/ fatto solo di suono e silenzio”. L’inquietudine del rapporto con il reale e con l’immagine, la presenza di forze che sfuggono ad ogni categoria, mi pare sia ribadita anche nella scelta e nella giustapposizione delle immagini fotografiche, splendide, che accompagnano i testi. È un’impressione corretta?
La poesia si muove nelle zone non immediatamente rivelate e rivelabili, dentro e fuori di noi, arriva lì dove qualcosa sfugge alla nostra comprensione, alla nostra vista, ai nostri sensi, anche quando parte dal dato realissimo. In questo senso condivido quanto ha scritto Flusser a proposito delle immagini, che sono la sostanza della poesia. Più in generale esiste sempre qualcosa di sfuggente in ogni opera dell’ingegno umano, e dunque anche nella poesia, dal momento che nessuna spiegazione o interpretazione riesce a decifrarla compiutamente. Il verso che citi è centrale in questa mia raccolta. In quel distico è concentrata la mia riflessione sull’immagine, come qualcosa che si pone tra ciò che è reale e ciò che è percepito. Per questo le immagini ci affascinano, ma possono anche inquietarci. Oggi viviamo in un’onnipresente iconosfera. Soprattutto in rete esse circolano a folle velocità, non sono più presenze inerti, e la loro incessante energia cinetica le rende attive, furiose, pericolose…
Quanto alle fotografie di Olivo Barbieri che accompagnano i testi, la tua impressione è corretta. La scelta non è stata preordinata, ma è avvenuta solo alla fine, dopo avere scritto le poesie. Con Barbieri e il suo lavoro intrattengo un dialogo che dura da anni e insieme abbiamo realizzato anche una mostra. Nel libro, tra parola e immagine si stabilisce un rapporto dialettico: la prima suggerisce una visione rasoterra, dal basso, che parte anche dagli oggetti, per poi spostare lo sguardo verso l’alto, la seconda invece offre una visione aerea, che mette a fuoco gli elementi dall’alto verso il basso. In Là fuori l’incontro tra poesia e fotografia diviene una riflessione sul vedere inteso come attività immaginativa e conoscitiva, insieme. Tutto questo in opposizione al tumultuoso dominio delle immagini di oggi, che chiedono solo passiva ricezione e inerte consenso.
Un’epoca, questa, segnata da molte emergenze: sanitarie, democratiche, climatiche, relazionali. In fin dei conti la riflessione che fai sulle immagini a questo rimanda, come fosse una cartina tornasole. L’iconosfera spesso assume i contorni di una bolla protettiva, creata per non guardare oltre, per non bucare la superficie, per restare di qua e non andare, nemmeno con lo sguardo, là fuori. Vorrei chiederti se credi nella possibilità che la poesia, in quanto lavoro sul linguaggio, possa aiutarci a “purificare” quella parte di mondo che è il suo ambito: la parola. Certo, purificare è un verbo ingenuo, ciononostante non ne trovo uno migliore. Se sì, è possibile ravvedere nella ricerca di esattezza nei tuoi versi, questo rovello?
Il rischio è che sia quell’iconosfera a bucare noi, ad assorbirci definitivamente, con l’illusione di proteggerci. Il titolo del libro è dunque anche un invito ad andare oltre, là fuori appunto: imparare a vivere dentro il contesto della nostra vita sapendola guardare anche da fuori, sviluppando uno sguardo laterale ma ancora più votato all’osservazione. In questo senso la poesia (come la fotografia) è una grande “scuola di osservazione”: guardare un po’ da lontano ma trovarsi in mezzo.
Venendo alla seconda parte della tua domanda, più che di purificazione, parlerei di manutenzione della parola. Come ha detto Elio Pagliarani, tra gli scopi della poesia vi è quello di “mantenere in efficienza, per tutti, il linguaggio”. Oggi questo è più che mai importante. Sempre più spesso infatti le parole sono prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso sciatto e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per scrivere poesia, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. La poesia sottopone la lingua a una manutenzione attenta e continua, ripristinando la sua forza originaria. La ricerca di esattezza nei miei versi riguarda proprio questo: far aderire le parole alle cose, rispettarne la natura. Penso che dalla qualità delle parole, dal loro stato di salute, da come sono utilizzate, da quello che riescono a significare, possiamo cogliere molti segnali anche del grado di sviluppo di una società
Mi colpisce la questione della poesia come “scuola di osservazione”. Sembri, ma potrei sbagliarmi, richiamare l’attenzione sulla responsabilità del poeta di fronte al mondo e alle sue immagini, mondo da conoscere e contemplare soprattutto attraverso il diaframma della parola poetica. Questo compito, per niente scontato, ci dice qualcosa anche rispetto ad una tua posizione pre-letteraria (nel senso che propriamente precede la scrittura) di fronte al mondo. Ti muovi, in altre parole, su quel delicato confine fra ricerca estetica e volontà pedagogica di comunicare qualcosa che senti importante per gli altri. La fiducia che, per forza di cose, richiede un atto pedagogico per esistere, come trova spazio nella tua visione del mondo, a tratti così controllata, raziocinante e apparentemente lineare?
In una delle poesie del libro cito una parola greca: theorein. È un termine al quale sono particolarmente legato e sul quale ho riflettuto molto, direi che è la sintesi perfetta della mia poesia e della mia riflessione poetica di questi anni. Nella lingua greca questo vocabolo ha un doppio significato: da un lato indica l’atto del guardare, contemplare, scorgere; dall’altro significa: meditare, indagare, conoscere. Questa parola dunque ci dice che osservare è allo stesso tempo imparare, ovvero che la prima forma della conoscenza è l’atto stesso del vedere. In questo senso – come bene hai intuito – l’attenzione alle immagini, al “mondo come rappresentazione”, verrebbe da dire, non può non essere responsabile: avere una visione nitida delle cose significa avere idee chiare. E in questa messa a fuoco, la poesia può essere uno strumento davvero efficace, anche per la sua capacità di mettere in connessione mondi apparentemente lontani, facendoci vedere la realtà da prospettive nuove, svelandoci un’infinità di altri centri possibili da cui osservare.
Non so se la poesia, se la mia poesia, porti con sé anche un “atto pedagogico”…forse sì, non ci ho mai pensato. Certamente se è così, è preterintenzionale. Più in generale non credo in un fine pedagogico della poesia. Tuttavia la lingua poetica non è mai casuale, ma causale, capace di incidere sulle persone che la leggono, di cambiare il loro modo di vedere il mondo, di stare al mondo. Almeno per me, come lettore, è stato così. Infine chissà se la mia visione del mondo è davvero “raziocinante e controllata” come dici. Se lo è, questa visione deve avere prima attraversato il caos – pre-letterario, per usare la tua espressione – al quale la poesia può tentare di fare ordine.