Incontri e riflessioni. Un brogliaccio

di Riccardo Canaletti

Solo di recente sono tornato alla poesia. Tornato senza essermene mai andato davvero, ma tornato perché ho degli occhi diversi. Negli ultimi due anni avevo tolto di mezzo molte false distrazioni, tra tutte l’amore. Nelle mie poesia non accampavano più molte cose che ora sono tornate. Nel corso di questi due anni ho vissuto l’amore fuori dalla poesia per poi riprendere la penna in mano (e le mani sulla tastiera) e solo ora sono pacificato con tutto questo. Il cattivo vizio di fuggire la banalità, mi ha impedito di concentrarmi sulla banalità del bene. Ma la poesia mi ha aiutato. Forse ho iniziato a comprenderne la forza, il freddo disarmante, quello che ti mette di fronte le cose. E questo perché l’amore che vivo mi ha aiutato a comprendere cosa la poesia sia. Della mia ragazza invidio moltissimo la sua capacità di crearsi un mondo quando legge. Qualche giorno fa parlavamo di un nuovo libro di racconti di Zafòn, e mi diceva che alcuni luoghi erano gli stessi dei romanzi che aveva letto anni fa e ancora poteva ricordare le stesse sensazioni che aveva vissuto al tempo. E i ricordi delle letture non sono diversi dai ricordi dell’esperienze vissute fuori dalle pagine. Così aveva vissuto almeno una vita in più, quelle nel libro. Ho pensato se fosse mai capitato anche a me. E mi sono venuti in mente alcuni poeti che hanno plasmato la mia sensibilità, i miei occhi e le mie orecchie. E ho notato che non erano solo poeti vivi, ma persino poeti che avevo conosciuto. Così la mia vita si è legata, in qualche momento, alla poesia, e mi sono potuto immedesimare pienamente con quello che i miei poeti potevano sentire. Le vite rimangono separate, ognuno ha la sua, ma leggere quelle poesie fu come sbirciarle dallo spioncino, e rileggerle oggi è sbirciare sulla mia stessa vita.

Davide Rondoni

Il primo poeta contemporaneo che abbia mai letto è stato Davide Rondoni. Il suo Vorticosa, dipinta (2006) era amplificato dal timbro della sua voce che risuonava nel Cappellone dei Maestri del Trecento a San Nicola da Tolentino. Il mio primo incontro con un poeta, e questo poeta diceva:

È ora di tornare.
Di lasciarsi il racconto alle spalle
e negli occhi.

Di riprendere la via tra le colline,
prima che scenda dura
compatta la tenebra sull’auto
che come barca o lupa cercherà la grande via
che costeggia il mare,
dove c’è il grande traffico a correre
a urlare.

È ora
di lasciare e di non lasciare
il popolo che non smette di guardare.
E che è qui ancora,
stasera
tra l’andare e il venire di queste colline,
nella Marca dolce e poi
più oscura.
Nei giorni che vanno con il respiro.

Che è qui,
noi, con quale magone dentro
con gli occhietti sopra alle braccia
nel grande vento della pittura,
noi che passiamo e chi sa se lasciamo
una buona traccia,
e dice: Madre,
e dice: Nicola
state con noi, qui dove la vita
ci ferisce, ci commuove e vedi,
vedi come vola?

 

Mi ero avvicinato a lui alla fine della lettura, ci eravamo spostati in un salone con un rinfresco. Mangiai ancora della sua poesia pochi mesi dopo, con L’amore non è giusto (2013), un saggio poetico. In quel testo avevo letto idee che divorziavano con l’immagine idealizzata che mi ero fatto della poesia. C’era una carnalità che era diventata nel 2016 un imbastardimento (La natura del bastardo, 2016). Questo imbastardimento l’ho trovato nella mia vita più volte, a più riprese. E ora l’amore è un farsi carne, un una gratuità che si testimonia con lo sforzo, l’energia spesa, la responsabilità. Così ho iniziato a imparare ad amare.

Qualche tempo dopo andai a una presentazione del libro di un amico di mio zio. Un poeta. Il libro era La specie dominante (2014) e il poeta era un omone dal viso gentile, Nicola Bultrini. Nicola parlava pacatamente e senza troppa retorica, non cercava di sviare nessuno, e la poesia era solo poesia. Solo poesia. I versi erano un lavoro di rifinitura, in cui cercavi di asciugare i concetti, per lasciare qualcosa da raccontare. C’era una poesia su tutte che mi aveva incantato:

Nicola Bultrini

 

Scivola sicuro lo scafo
sull’acqua immobile. La notte
di luci e temporali
e le campane sull’ultimo parlare.

Una coppia abbracciata sopra al ponte
immagina la foto, incerta sullo sfondo
la stessa ripetuta mille volte.

Ma aiutami a tornare dove sei.
Mi sono mosso impercettibilmente
un giorno dopo l’altro.
Però ti scrivo come posso
Altri mi osservano passando.
Ignari
mentre brucio nello sguardo.

 

Mi tatuai in mente due termini in particolare: ‘impercettibilmente’ e ‘posso’. Sapevo che avrei dovuto essere delicato se avessi voluto scrivere, delicato ma mai insincero, avrei dovuto scrivere come potevo, e magari raccontare qualcosa. Lasciare che gli altri, leggendo, potessero star dietro a qualcosa in più che un semplice filo di pensieri. Erano i doveri nei confronti del lettore, quei doveri di cui Nicola iniziò a parlarmi quando quella stessa estate iniziai a tartassarlo, perché volevo imparare a scrivere. Non è vero che la poesia non si impara, perché come la vita la fai, la smonti, la ricostruisci. E quindi, come la vita, per fartela amica devi passare molto tempo a frequentarla. Quando smontavo dal lavoro stagionale, chiuso l’ultimo ombrellone, andavo sotto al suo, un po’ sudato, con qualche foglio stampato in tabaccheria, e mi facevo cancellare a penna (rossa!) il troppo. E ce n’era davvero tanto. Oggi continuo a parlare all’infinito, a volte Jessica si perde, però è solo l’essenziale. Un essenziale lunghissimo da spiegare. Però, ti parlo come posso.

A presentare il libro di Nicola c’era un signore con una giacca chiara e gli occhiali spessi, il viso arricciato in una smorfia sorridente. Veniva da Urbino e aveva una pila di libri in mano. L’angelo che era con lei si chiamava Annie, lei mi avrebbe accompagnato alla stazione tutti i giorni che serviva, quando incontravo Umberto Piersanti per farmi dettare le sue idee e le sue poesie. In quel periodo uscì Nel folto dei sentieri (2015) e me ne regalò una copia. Dentro c’era scritto:

Umberto Piersanti

 

tu attraversi padre la bufera
come l’eroe
il fuoco dei palazzi,
la cenere che cade
e che s’addensa,
e non un vecchio
ti grava sulle spalle
ma il figlio che t’afferra
e tace e trema,
sa che la neve
copre le tue ciglia
e il gelo ormai ti blocca
sangue e fiato,
dal fosso poi risale
un riso o un grido,
un’anima ci segue,
forse è dannata
ma tu non temi
le anime ed i vivi,
il gelo che s’incrosta
sui capelli,
i rami che a noi cadono
d’intorno,
tu sai dov’è la casa
e la raggiungi
l’antico che c’aspetta
sulla porta,
il vino e le castagne,
il fuoco alto
e tra la neve
ora ti rivedo,
immobile sul greppo che sprofonda,
subito t’incammini
e vai lontano,
sorpassi Scotaneto
e Camorciano,
le orme più non scorgo
sul gran bianco,
ora tu lo sorvoli
senza sfiorare
di quella casa padre
ho nostalgia,

ma alla tua spalla stretto,
del fuoco che c’asciuga
e ci ristora,
nessuna fiamma s’è mai
più alta alzata

 

Quando lo sentivo parlare mi trovavo intorno a un falò in cui si beveva succo di melograno o tè caldo con limone, e sentivo qualcosa che sembrava essersi perduto. Avevo la sensazione di partecipare di una storia che non avrei potuto vivere. Un senso di estraneità consolatorio. Capii così che bisogna vivere dentro e fuori dalle cose, avendo memoria senza avere nostalgia. Una cosa che mi è capitata di recente andando a vedere un affresco della Scuola bolognese del XVII secolo all’Abbazia di Fiastra. Memoria di un volo cui si pensa all’arrivo senza nostalgia. E la poesia è un po’ questo ricordare e una volta che si è ricordato non piangersi addosso.

C’è un ultimo poeta che conobbi poco dopo gli altri. lo anticipava sempre una nuvola di fumo e una risata da corvo. Aveva il viso simpatico e indossava i sandali. Faceva passi brevi e mi invitò a sedermi a un bar che ora ha chiuso. Mi passò due tre libri suoi, salutandomi così: “Ciao, cocco”. Io ho ricambiato il saluto e aperto uno di questi libri:

Filippo Davoli

 

Il groviglio dei secoli come in un pugno
teso alla terra. Sì, è di terra la voce
dell’angelo incarnato, che dal gorgo
con le mani levate, agitando l’azzurro
come una bandiera di carne e di croce
spera e barcolla. Non cogli,
occhio che ascolti da una medesima terra,
che quella voce è la tua?

 

Era Come all’origine dell’aria (2009). In questo caso l’intreccio con la vita di Filippo Davoli è stato talmente solido che non posso non immaginarmi il suo viso quando leggo le sue poesie. In pochi giorni mi raccontò tutto di lui (io tutto di me), mi portò a Smerillo per un incontro di poesia e per mangiare gli spaghetti con il pesce cucinati da chi ci ospitava. Facevo da accompagnatore curioso insieme a Mina, che ci perseguitò piacevolmente per tutto il viaggio. E tra le montagne, appostati su un belvedere con un altro amico, Michele, mi disse: “Riccardì, il poeta deve sparire”. Ecco che è arrivato l’ultimo tocco, la tensione delle corde che suonano finalmente. Il poeta, Riccardo, deve sparire. Non l’io, non la storia, non la vita. Il poeta. E l’ho capito vivendo. Jessica ha fatto sparire il poeta senza far sparire la poesia, così come io ho potuto conoscerla.

Ecco che la mia vita deve molto alla poesia, almeno tanto quanto lei deve a lettori come me (credo). Ed ecco che tra l’incarnazione di ciò che desidero, la storia che racconto con la mia voce, lo sguardo al confine e una presenza che si disfa, ho conosciuto la mia poesia, nelle parole degli altri. E senza falsi intellettualismi ho pure capito perché mi sono innamorato. Per non dover mai dire a parole mie quanto sia grato a chi mi salva. Ma farlo, con le parole di tutti.

Luca Morici, “Rivelazioni”
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