Nella notte del 25 settembre 2002 Emilio Tadini muore nella sua casa milanese di via Jommelli dopo una lunga malattia. Scrittore, drammaturgo, poeta, critico d’arte, pittore di riconosciuto valore, Tadini è stato uno degli artisti più significativi ed originali del secondo Novecento, una figura poliedrica, per certi versi rinascimentale, un intellettuale completo che non ha mancato di confrontarsi con i problemi e le sfide del suo tempo, mantenendo in ogni circostanza un’ammirevole autonomia e libertà di pensiero, scevra dai condizionamenti ideologici e indifferente ad ogni compromesso col mercato.
Nato a Milano nel 1927, dottore in Lettere Moderne all’Università Cattolica di Milano, Emilio Tadini esordisce con il poemetto La passione secondo San Matteo, pubblicato nel 1947 su Il Politecnico di Vittorini. Il desiderio, in questi primi anni, è quello di diventare scrittore: Tadini scrive poesie (due poemetti, Storia di un soldato e L’oratorio della pace confluiranno con la Passione nel volume Tre poemetti, 1960), collabora alle riviste Cinema Nuovo di Aristarco e Inventario di Luigi Berti, legge con passione Eliot, Pound, Joyce e Céline (in seguito Gadda) e si dedica alle prime traduzioni (Faulkner, Mardi di Melville, La certosa di Parma di Stendhal, pubblicata nei classici Garzanti).
Nello stesso tempo, frequentando il caffè Giamaica di via Brera, Tadini si avvicina al mondo della pittura, prende parte ai dibattiti (il panorama di quegli anni era dominato dal confronto tra il Realismo e l’Informale) e stringe amicizia con Valerio Adami e Bepi Romagnoni, per i quali scrive dei testi. La pittura, iniziata come attività collaterale, comincia presto ad acquistare importanza fino a diventare, grazie soprattutto all’interesse del primo collezionista Tancredi e del gallerista Marconi (nel 1965 le opere di Tadini, insieme a quelle di Adami, Schifano e Del Pezzo inaugurano lo Studio Marconi), l’attività principale, speculare e parallela alla letteratura, di cui riprende e sviluppa alcuni presupposti in nome di una ricerca pluridisciplinare che restauri il vecchio sogno delle avanguardie di un Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale.
Comune è l’ideale etico, innanzitutto. Tadini non ha dimenticato la lezione del neorealismo e non ha rinunciato al confronto con la realtà, la contemporaneità. Evitando ogni intellettualismo o evasione estetizzante, le sue opere chiamano lo spettatore ad una riflessione attenta e mai scontata sui temi di più stringente attualità (soprattutto, nei primi anni, la guerra, in seguito, tra gli altri, il problema dell’emigrazione e dell’emarginazione nelle metropoli), senza dimenticare le domande fondamentali della condizione umana.
In secondo luogo, su di un piano prettamente estetico, le due attività di Tadini sono orientate al cosiddetto realismo integrale. Seguendo la lezione di Lukács, l’artista aspira a superare ogni superficiale opposizione tra realismo (allora rappresentato in pittura da Guttuso) e spiritualismo (l’Informale di Vedova, Burri, i Nucleari a Milano) per risolvere «in espressione tutte insieme le funzioni dell’uomo in ogni particolare momento della sua storia», servendosi di un linguaggio ricco e stratificato ispirato alla prosa di Gadda e Céline e alla ricerca figurativa delle avanguardie storiche (il cubismo e il surrealismo in particolare).
Negli anni Sessanta tutti questi spunti vengono confermati e acquistano una giustificazione esistenziale. Fondamentale è la lettura di Lacan: Tadini interpreta in termini di distanza le relazioni che l’uomo intrattiene con il reale, vi legge una serie di sforzi tesi a negare e superare la condizione fondamentale della vita umana, la solitudine e la finitezza. Venendo al mondo, ogni bambino esperisce una perdita, il distacco traumatico dalla madre: terrorizzato dalla sua condizione di individuo e nostalgico dell’unità prenatale, per tutta la vita il bambino tenterà di recuperare questa totalità, negando la propria condizione. È questa, secondo Tadini (si veda il fondamentale saggio del 1998 La distanza), la radice delle religioni, delle ideologie e delle filosofie fondazionali: esse mirano a nascondere all’uomo la solitudine ontologica della sua condizione, esorcizzano la distanza annientando il «sé faticoso» dell’individuo in nome di un sistema simbolico assoluto e trascendente che pretende di ricomporre la totalità originaria, compensando il soggetto «della perdita di un’Età dell’Oro». Con accenti diversi, non è dissimile il significato dell’edonismo contemporaneo, della proliferazione dei messaggi mediali, il trionfo stesso del virtuale: nell’epoca del pensiero debole, in un contesto dominato dal tramonto delle ideologie e dalla crisi del Sacro, l’uomo non si rassegna alla propria condizione e colma il vuoto, la distanza, consegnandosi ad un oblio collettivo che esalta l’istante e il patetico e umilia la dignità tragica della condizione umana.
Agli occhi dell’umanista Tadini, tutte queste soluzioni sono insoddisfacenti perché finiscono col far perdere di vista la realtà e le responsabilità che questa comporta. Allettato dalle seducenti promesse dei sistemi fondazionali o frastornato, per usare un termine heideggeriano, nel regno del si, l’uomo si trincera dietro il proprio egoismo, nega se stesso e l’Altro e si condanna ad una solitudine davvero straziante, una distanza incolmabile. Compito di un’arte etica, impegnata, di conseguenza, è quello di svelare, anche grazie al comico, tali mistificazioni affinché l’uomo ritrovi la propria dimensione e, in una serena accettazione dei propri limiti, si adoperi a costruire nell’hic et nunc del presente i propri valori, colmando con la carità e l’ascolto la distanza che lo separa dal Prossimo.
Tanto la letteratura quanto la pittura di Emilio Tadini rispondono a questo compito: al di là delle sperimentazioni linguistiche legate alla neovanguardia del gruppo ’63, il primo romanzo Le armi l’amore (1963) trasforma l’eroe risorgimentale Pisacane in un uomo fragile, insicuro, timoroso di un rapporto con il Prossimo e pronto a difendersi dalla vita attraverso la letteratura, la parola, così efficace nel colmare il silenzio e nel tenere a distanza l’Altro.
Più sottile il procedimento seguito in pittura: ispirandosi alla pop britannica (Jones, Kitaj), Tadini dipinge secondo associazioni in parte inconsce oggetti marcati da grossi contorni neri e isolati l’uno dall’altro da grandi spazi bianchi affinché l’attenzione dello spettatore sia deviata sulle relazioni e, di conseguenza, le distanze intercorrenti tra queste figure. Interpretando questi rapporti, è possibile poi ricostruire una storia, anche se ambigua, spesso suggerita dal titolo: così, Vita di Voltaire (1967-1968), primo ciclo di una certa importanza del maestro, rappresenta il fallimento del mito della ragione incarnato dal celebre filosofo illuminista, L’uomo dell’organizzazione (1968) denuncia l’alienazione imposta dalla società dei consumi, Viaggio in Italia (1970) interpreta in chiave esistenziale il gran tour seguito nel Settecento dai giovani aristocratici, Angelus novus (1978) visualizza le “tesi della storia” di Benjamin. Altre serie sono più autoreferenziali e sono dedicate alla storia e ai materiali della pittura: così, Color & Co (1969) allinea su fondo bianco dei vasetti di colore, mentre Museo dell’uomo (1974) allude al museo parigino dove si sono formati alle “culture altre” Picasso e Matisse.
Questi temi, che abbiamo sommariamente descritto, ritornano nelle opere degli anni Ottanta e Novanta, nelle quali si segnala però uno scarto stilistico piuttosto evidente. In un contesto dominato dalla crisi delle ideologie e da un generale “ritorno all’ordine” (la “poesia innamorata”, il cosiddetto “romanzo postmoderno”, la transavanguardia in pittura), obbedendo al contempo ad un diverso sentire personale, Tadini comprende la necessità di un rinnovamento e adotta una forma più accattivante, forse meno intellettualistica e più emotiva, certo più vicina alla sensibilità del grande pubblico.
Così, per quanto riguarda la letteratura, Tadini rinuncia allo sperimentalismo de Le armi l’amore a favore di una scrittura agile ed estroversa e rinnova un genere di grande successo come il giallo contaminandolo con le riflessioni esistenziali. L’opera (1980), La lunga notte (1987), La tempesta (1993) hanno la struttura della detection e raccontano la ricerca, tragica e comica allo stesso tempo, di una verità che continua a sfuggire e che non si lascia afferrare che per brandelli. Protagonista dei tre romanzi è un complessato cronista mezzo cieco, allegoria evidente dell’Omero della tradizione, incaricato di volta in volta di risolvere un caso di omicidio, di rintracciare il tesoro della Wehrmacht e di spiegare il comportamento di un pazzo, Prospero, barricatosi in casa per resistere all’ingiunzione di sfratto. In nessuna delle tre occasioni il cronista viene a capo dell’enigma e il suo fallimento dimostra i limiti insuperabili della ragione umana.
Questa stessa tematica è alla base, oltre che della raccolta di poesie L’insieme delle cose (1991), del monologo La deposizione, scritto nel 1997 per il Teatro Franco Parenti di Milano e portato in scena lo stesso anno da Andrée Ruth Shammah e nel 1999 da Giuseppe Arena al Teatro Bellini di Casalbuttano. Il testo teatrale, unico nella produzione di Tadini, ancora una volta è un giallo e narra con uno stile appassionato ed emotivo la storia di una donna accusata di aver assassinato sette amanti: la mancanza di una sentenza e le contraddizioni della donna impediscono, ancora una volta, di scoprire la verità.
Sul piano figurativo, Tadini riprende e illustra questi spunti su tele che ricordano da vicino le atmosfere incantate di Chagall e i trittici di Beckmann. Sullo sfondo di grandi campiture di colore, in un mondo carnascialesco e incantato in cui i palazzi sono come scossi da onde telluriche e i personaggi danzano sospesi in un cielo libero da ogni legge gravitazionale e prospettica, l’artista milanese rappresenta la condizione dell’uomo moderno, visto come un profugo privo di certezze (il ciclo omonimo del 1987 si ispira ai contemporanei massacri in Bosnia) all’interno di una realtà caotica e a-centrata, infinitamente complessa e irriducibile a qualsiasi semplificazione. Profughi (1987), Il ballo dei filosofi (1993), Oltremare (1995), da ultimo Fiabe (1995-2002) sono tappe di un racconto organico e coerente in cui Tadini, con l’abilità del contastorie, aiuta lo spettatore a prendere consapevolezza della propria condizione e lo invita ad assumersi le proprie responsabilità, senza evasioni metafisiche o estatici abbandoni nell’attimo.
L’ideale etico di Emilio Tadini può essere sintetizzato dal comportamento di Mario, protagonista di Eccetera, il romanzo pubblicato postumo nell’ottobre del 2002. Al termine di una notte passata in compagnia di tre sconosciuti in giro per le discoteche della Lombardia, il ragazzo prende consapevolezza dei propri limiti e della vastità del mondo e, rinunciando alla fuga, decide di aspettare nell’alba del nuovo mattino l’incontro con l’Altro. Questa immagine, così poetica, ci aiuta a comprendere il filo rosso che unisce la pittura, la letteratura e gli interventi critici di Emilio Tadini e anticipa il sopravvenuto incontro dell’Autore, negato ma inconsapevolmente perseguito nell’arte e nella prassi della vita, con il Tutto.