il tuo nome è “colui
che-fiorisce-sotto-il-sole”
David Maria Turoldo
per la parola di porpora
che noi cantammo al di sopra,
bel al di sopra
della spina
Paul Celan
Fare della parola un varco, un fiore della sabbia e della cenere, un ponte sillabato dalla terra al cielo, il luogo dell’incontro con l’altro, la soglia delineata come un occhio perché l’Altro guardi a terra dal Suo Cielo: è forse in questo essere “occasione”, in questa estrema possibilità di contatto che la preghiera e la poesia si sfiorano. “Un santuario che non è separato da nessuna grata rispetto alla strada e alla casa”: così il mistico russo Pavel Evdokimov ha definito il Salterio, o Libro dei Salmi, centocinquanta liriche, che la tradizione ebraica ha chiamato “Lodi” (Tehillim), e quella greca “Inni da cantare con musica” (Psalmoi). Sono preghiere intrise di umanità, di sofferenza e di speranza, attribuite a Davide, ma che in realtà sono state elaborate lungo un periodo molto più ampio della vita del re, un periodo che va dal XII al III secolo a.C. In ogni caso, al di là di ogni considerazione storica o filologica, la figura di Davide, del re e soprattutto dell’uomo, sospeso tra gli abissi della colpa e della redenzione, tra le corde della supplica e dell’inno, della fionda e della cetra, permane come un paradigma nella filigrana dell’intero libro.
È da poco uscita per Aragno una nuova edizione dei Salmi, nella traduzione di Davide Brullo, poeta, giornalista e romanziere, che si è concesso ad alcune domande.
Qual è il significato dei Salmi per l’uomo di oggi, quale la loro attualità: per l’uomo di fede, ma anche per chi si avvicina a questi testi da un’altra prospettiva?
Devo dire – e non mi si perdoni la viltà – che non so più cosa sia ‘attuale’ né ‘inattuale’, categorie, entrambe, esaurite tra lo sbrodolio dei dotti, lo sciabordio dei colti. Non so neppure cosa sia l’uomo, tanto meno una fede, finché resto privo di fionda. I Salmi vanno danzati, tra urlo e sussurro, assunti come una regola, semmai: guai a discernerli con la vasta armeria della retorica letteraria. Infine, il mio è un lavoro offerto al fuoco: come osi penetrare nel verbo di Dio, da straniero, da filisteo dello stile, e uscirne indenne? Dunque, si devono leggere bruciando le pagine. In effetti, tradurre il testo sacro è un ossimoro: esso si può solo tradire, e per farlo c’è necessità di pratica, non di trame, e sapienza nell’immondo come nel mondo, e verticali di candore. Io, ammetto, non ho nulla.
Sono passati 10 anni dall’uscita della tua traduzione dei Salmi per Città Nuova: cosa è cambiato in te, se qualcosa è cambiato, nel confronto con questo libro? Cosa è cambiato nella traduzione?
Tendo a credere che ogni giorno sia l’ultimo, dunque dieci anni fanno circa 3650 vite. In ciascuna di esse, avrei tradotto diversamente ciò che ho tradotto. Questo lavoro da Giuda, dunque, mi ha garantito, per ossessione d’innocenza, di essere dannato per l’eternità. A volte, basta raschiare una virgola, alterare un punto per modificare il ritmo di un verso, il respiro di una frase – figuriamoci la Bibbia, razziata da così tante iene-interpreti, da tali traduttori carnivori. Eppure, quel testo è cadavere sempre splendente, che aggiunge carne – perciò: verbo – man mano che gliela sfiletti. Oh, sì, beato esercizio di macelleria sacra: lordi di sangue si esce dopo aver tradotto la Bibbia.
Il libro dei Salmi è stato tradotto da poeti come Davide Maria Turoldo e Guido Ceronetti. Ti sei confrontato con le traduzioni del passato? Che cosa propone la tua versione?
Per due anni ho diretto un liceo tutelato dai Servi di Maria, l’ordine cui apparteneva Turoldo: fu una esperienza sconvolgente, che mi ha sconfitto. Un frate mi ha donato il salterio di Turoldo; in cambio, ha voluto il mio – ma la sua topografia spirituale era ben più ampia della mia. Ceronetti l’ho amato, certo: fa della Bibbia un laboratorio alchemico, una angelologia in vitro; cioè, in fondo, un patibolo. Io non porto nulla; il traduttore, in genere, vomita verbi, è giusto che sparisca, neppure degno di stare sull’altare, al cospetto della lama. Uno sciacallo, ecco, che guaisce sperando di prolungare il livore della sera, che lo eccita.
Nell’introduzione al libro suggerisci un approccio alla parola dei Salmi: scrivi “i Salmi vanno svaginati, rivoltati per capirne l’ombra”; cosa intendi?
Tutto, nei Salmi, è luce; tutti i Salmi sembrano scritti sotto l’occhio meridiano di Dio, inscritti nel fuoco: anche l’abisso splende, perfino l’abbandono ha il cristallino in fiamme. Il grido e l’ode, l’orazione e l’insulto, nei Salmi, sanno tutti di mezzogiorno, di lame lampanti, di pane potente. Eppure, è tra i sospiri, i patimenti, i balbettii, le incertezze e i silenzi, le allusioni e le pie disonestà che vedo la bellezza dei Salmi; il pericolo, probabile, che il canto s’interrompa e con esso il percorso del mondo, l’estro di Dio. Un re, d’altronde, si mette in luce per sostenere la propria ombra e la Bibbia è un grande libro perché sovverte le attese: non sono mai i buoni a trionfare, i bovini della compassione, ma gli imperfetti, i traditori, gli imprevisti.
Leggendo l’espressione “svaginare i Salmi”, “rivoltarli fino a capirne l’ombra”, non ho potuto non pensare alla presenza dei Salmi nella poesia del XX secolo: non ho potuto non pensare a Paul Celan. Quanto, secondo te, Celan o altri poeti del secolo scorso hanno compenetrato le proprie parole della luce e dell’ombra dei Salmi?
A differenza di altri libri, che si citano e si consultano con dedizione da stiliti in metrica, costruendo a poco a poco il proprio canone privato nell’astuccio, i Salmi ci inglobano, vi abitiamo dentro. I Salmi sono la nostra casa: non c’è bisogno che tu li abbia letti, che tu li conosca, che tu abbia fede in qualche supremo. I Salmi ti celebrano comunque; anche se distruggi la casa, la casa è. Quanto a Paul Celan: ha salmeggiato fino a quel giorno, era aprile, in cui decise di gettarsi dal ponte Mirabeau, a Parigi. Era il 1970 e lo pescarono, disfatto, diversi giorni dopo, il tempo di un salterio.
Quanto la parola poetica è, nella tua esperienza, un atto “di fede”, uno sguardo rivolto a una “terra promessa”?
No, no, no… La poesia è cosa così piccola, come uno che intaglia una sedia con un coltello a serramanico, poi la offre al primo che passa per strada. Pura gratitudine – ed esecuzione in violenza – ti ammanta quando arrivano parole, giunte chissà dove, chissà perché, nel lavoro di essere un incavo, un anello, una grotta di legno, qualcosa che sappia far risuonare. Ecco, il poeta: tanto ritirato che tutto risuona in lui. Perché una parola, pietrificata su carta, suoni, bisogna diventare un pozzo, che è l’opposto della torre. Né fede né promessa: la poesia è per chi si schiarisce nell’anonimato, latitante, delinquente in verbi, e reclama ritirandosi.