Comincia una nuova rubrica. Si intitola Di ritorno da “Ciminiera”. Ripubblicheremo gli articoli più belli della storica rivista cartacea di cui abbiamo ricreato le intenzioni con “Nuova Ciminiera”. Cominciamo con questa splendida intervista realizzata quasi vent’anni fa da un giovane Francesco Trasatti – all’epoca attore con Gigi Proietti e contemporaneamente redattore di “Ciminiera” – ad Annabella Cerliani.
Francesco Trasatti – Attrice, regista, sceneggiatrice, doppiatrice, autrice, presentatrice, insegnante di recitazione. Tutto questo è Annabella Cerliani. Nell’osservare questo lungo e straordinario elenco che la vede protagonista, la prima domanda mi sorge naturale: in che modo è riuscita ad acquisire così tanta esperienza, passando con facilità dal teatro alla televisione, e riscuotendo ogni volta sempre maggiori soddisfazioni?
Annabella Cerliani – In effetti potrei rappresentare un esempio, spero non antipatico, di “tuttologa”! Eh, eh! Il mio percorso professionale inizia a 15 anni, quando passai le selezioni per l’Accademia dei Filodrammatici di Milano. Pensa che mi presero nonostante l’età fosse molto inferiore a quella minima del bando; questo perché avevo una conoscenza dettagliata, e direi quasi maniacale, di un numero cospicuo di poeti, che lasciò stupita la commissione esaminatrice. La passione per la poesia era proprio congenita, avevo un piacere famelico per la lettura e sapevo a memoria decine e decine di poesie. In Accademia ho avuto modo di approfondire lo studio del teatro, della recitazione, e partecipai ai vari saggi e a tutte le rappresentazioni organizzate con noi allievi. Poi tieni presente che proprio in quel periodo nasceva la televisione; io non ero particolarmente fotogenica per il cinema, ma lo ero molto per la televisione. Inoltre sapevo le lingue, e questo mi aiutava parecchio. Mi indirizzai presto verso questo ambito, cominciai ad alternare il ruolo di attrice comica a quello di presentatrice televisiva e a lavorare nei grandi varietà d’intrattenimento di quei tempi. Miei partner di lavoro sono stati Ugo Tognazzi, Renato Rascel, Walter Chiari, Garinei e Giovannini, perfino Totò poco prima della sua scomparsa.
Quando poi quel tipo di show andò in crisi, attorno agli anni ’70 e ’80, mi sono dovuta “riciclare” e ho avuto l’occasione di fare doppiaggio o, più precisamente, la direttrice di doppiaggio. Anche in quel caso ho collaborato con nomi del calibro di Chaterine Spaak e Claudia Cardinale. Parallelamente ho iniziato a fare la sceneggiatrice e a lavorare in radio, presentando programmi in diretta, curando collegamenti esterni e intervistando gente comune. Come insegnante di recitazione ho debuttato invece facendo lezioni private ai “divi”; mi fu chiesto da qualche collega importante, che era in procinto di passare dal cinema al teatro o viceversa. Da allora ho affiancato a tutto il resto anche questo tipo di attività, finché con Gigi non abbiamo aperto il suo famoso Laboratorio di Arti Sceniche, nel quale sono rimasta ad insegnare per ben 17 anni.
FT – Com’è avvenuta la conoscenza con Gigi Proietti?
AC – Il nostro primo incontro è avvenuto un’estate di tanti anni fa in un night club. Il proprietario del locale era mio cugino, e mi invitava spesso nella speranza di conquistare qualcuna delle mie affascinanti amiche. Una sera, proprio lì, si esibì Gigi; io non potei fare a meno, al termine della sua performance, di avvicinarlo e fargli i complimenti, invitandolo a perseguire la carriera di attore. La sorte volle poi che, dopo pochissimo tempo, ci rivedessimo in televisione per realizzare assieme un programma per ragazzi. Da quel momento è nato il nostro sodalizio professionale. Sai, è curioso vedere come una persona così brava sia stata poco valorizzata dal nostro cinema. Ora i suoi film fanno milioni e milioni di incasso, e il suo ultimo lungometraggio “La Mandrakata”, ad esempio, ha riscosso un successone al botteghino; ma non sempre è stato così. La vita è fatta di periodi fortunati e Gigi, per parecchio tempo, ha ricevuto più soddisfazioni dal teatro che non dal grande schermo.
Un altro ottimo professionista e mio caro amico è Luca Ronconi. Di lui mi piace seguire le prove durante l’allestimento degli spettacoli, e devo dire che ho imparato molto osservando le sue regie. Ho specificato “seguire le prove” perché alle vere e proprie “messe in scena” è difficile sopravvivere: durano talmente tanto!! Eh, eh! Tuttavia una volta ho voluto vendicarmi e l’ho portato, a sua insaputa, a vedere una pièce teatrale di Peter Brooke della durata di ben 7 ore! Siamo dovuti scappare via perché non ce la facevamo più…
FT – Ormai quotidianamente capita di leggere o assistere a lunghi e partecipati dibattiti che hanno per argomento il basso livello qualitativo della televisione attuale. Dal reality-show al Grande Fratello, dal ruolo del servizio pubblico alla pubblicità, dalle veline alla fiction, nulla è risparmiato. In questo violento j’accuse al declino produttivo del piccolo schermo, il ritorno ad un vecchio modo di fare tv, tipico degli anni ’60 e ’70, viene spesso additato come unico rimedio in grado di farci tornare sulla “retta via”. C’è quindi un fiorire di ricordi, apprezzamenti e considerazioni sugli spettacoli d’intrattenimento di quel periodo, sulla professionalità di una Carrà a “Canzonissima” o di una Mina a “Studio Uno”. Grazie anche all’esperienza da lei maturata in tanti anni di lavoro, davanti e dietro la telecamera, mi piacerebbe conoscere la sua posizione in merito. Per evitare un’irreversibile caduta di stile dobbiamo davvero fare un passo indietro?
AC – Negli anni ’60 e ’70 c’era innanzitutto una concezione della televisione completamente diversa rispetto ad oggi: adesso lo show lo fa il pubblico, prima veniva fatto da professionisti. E poi se un qualsiasi funzionario di allora avesse osato mettermi quelle “mutande”, chiamiamole così, che vengono indossate ora in tv da sgambettanti ragazze, e mi avesse obbligato e dire tutte le stupidaggini che dicono, magari facendo una delle squallide televendite che vediamo tutti i giorni, beh, guarda… penso proprio che sarei riuscita a farlo licenziare! Io, che sono una femminista storica, inorridisco al pensiero di come si sono ridotte oggi le donne in televisione. Anche ai nostri tempi c’erano tante belle ragazze, ma perlomeno erano preparate e competenti. Sandra Mondaini era un’amore; per non parlare delle gemelle Kessler o di Mariangela Melato.
Tutte belle donne, spigliate, spiritose, professionali. Insomma, c’erano senza alcun dubbio dei diversi criteri di valutazione. Tuttavia capisco che i tempi cambiano, le esigenze pure, e nella televisione di oggi non disprezzo ad esempio il livello di certa fiction, come quella diretta da Capitani o da Sironi. Pensa che l’altra sera ero a teatro, seduta tra il Maresciallo Rocca e il Commissario Montalbano!! Quelle fiction a mio parere sono proprio stupende, e sia i registi che gli attori si sono meritati tutto il successo che hanno avuto. Dobbiamo dire la verità: gli sceneggiati di una volta non erano così belli e così ben recitati. Riguardo alle soap-opera, invece, c’è poco da disquisire: alcune volte sono davvero brutte, altre volte, se gli attori sono bravi, le ritengo anche accettabili. Comunque anche noi, al nostro tempo, facevamo degli sceneggiati che erano delle porcherie. Credo piuttosto che la vera crisi si sia toccata con lo spettacolo d’intrattenimento; lì spesso si mettono insieme gruppi di 15 o 20 autori e non si riesce a tirar fuori una battuta spiritosa o una cosa non banale in due o tre ore di programma. Pensa ad esempio a come è stata poco valorizzata, direi quasi sacrificata, la straordinaria Paola Cortellesi nell’ultimo programma di Morandi, abbinato alla Lotteria. Gli show di vent’anni fa erano spettacoli con grandi autori alle spalle; ricordo, durante un breve periodo di lavoro a Mediaset, il lavoro che facevamo per trovare personaggi carini e testi efficaci a Carmen Russo. La professione dell’autore è difficile e faticosa, il grande Enrico Vaime penso ne sappia qualcosa. Non voglio dire che è colpa delle nuove leve, intendiamoci, ma ritengo che gruppi troppo numerosi siano sbagliati, perché se anche c’è qualcuno in gamba, in questo modo non potrà mai riuscire ad emergere.
FT – Condivide dunque la preoccupazione di critici e intellettuali secondo cui non esisterebbero più gli autori di una volta…
AC – No, un momento. Gli autori ci sono, ma non vengono sfruttati. Non hanno il tempo di prepararsi e poi, come ripeto, sono troppi. Il problema è un altro: non si crede più nel varietà, in quello di una volta intendo, ormai tutti i programmi sono dei grandi minestroni. Naturalmente sono cosciente del fatto che ogni epoca ha il suo stile; ora va la mania dei format stranieri. Mah! Il risultato è che l’intrattenimento di qualità viene dirottato verso il teatro: Gigi da tempo si dedica a show teatrali di ampio respiro. Se li volesse portare in televisione forse dovrebbe abbassarne un pochino il livello cosicché le diverse fasce di pubblico presenti davanti al piccolo schermo ne possano fruire appieno. Ma non so quanto questo possa avere successo. Il fatto è che lo spettatore si è disabituato, si fanno varietà lunghissimi in cui non si ride mai, in cui non c’è mai uno sketch divertente e originale; ci sono dei climax di grande spessore, per riprendere l’esempio di prima, quando Morandi canta o la Cuccarini balla. Ma poi tutto il resto è come la besciamella che quei cuochi modesti mettono sulle loro portate, sperando di dare una spolverata di modernità a dei cibi che altrimenti rimangono insipidi. Secondo me si è perso pure il senso del ritmo, cosa che invece noi avevamo ben presente quando facevamo televisione: ogni cosa aveva proprio un suo ritmo interiore, dal balletto allo sketch, dal monologo all’ospite. Prima mi hai citato la Carrà: lei è davvero una
professionista, balla discretamente, canta con proprietà, è molto brava ad improvvisare, studia e si perfeziona continuamente, non ho mai visto nessuna lavorare tanto come lei. Allora ti rendi conto da te che il paragone con una simpatica ragazza, presa magari in mezzo alla strada, anche se bellissima, non regge. Eppure quante persone ci sono ora in televisione che lavorano più per colpo di fortuna che per effettiva volontà e preparazione. E così si instilla nel giovane il discorso che è tutto un caso; è come se si chiedesse ad un ventenne cosa vuole fare nella vita e ti sentissi rispondere che vive aspettando di vincere la lotteria! Chiameresti uno psichiatra! Ovviamente questo discorso della precarietà contagia tutto il mondo dello spettacolo, e dal teatro fino al cinema sono tutti degli improvvisatori. Qualche anno fa ho insegnato all’Accademia della Canzone di Sanremo e, di tanti ragazzi, il 90% componeva canzoni prima ancora di conoscere la musica. Nessuno che sentisse l’esigenza di studiare, di perfezionarsi, solo pochi lo facevano e guarda caso sono proprio loro che poi sono riusciti ad inserirsi. Spiegare che si deve studiare e che si deve avere pazienza non è un discorso vincente, perché il modello che viene proposto dalla “scatola magica” è un altro. L’idea di fatica non convince, e non per colpa dei giovani, ma perché è la televisione che decide.
FT – Se colpe si possono trovare, a cosa imputa la responsabilità di un simile collasso qualitativo?
AC – Mi rammarico del fatto che, quando la televisione commerciale ha cominciato ad imporre modelli di varietà più grossolani, la RAI non ha difeso un intrattenimento di valore. Il concetto secondo cui si propina ciò che vuole il pubblico, secondo me, non regge. Se la gente fosse stupida, fiction come il “Maresciallo Rocca” non riscuoterebbero tutto il successo che hanno. Allora vuol dire che la gente prende cibo avariato soltanto perché non gli si offre il filetto. Il ruolo del servizio pubblico deve essere anche quello di allargare il pubblico per certi spettacoli, di educare lo spettatore ad altri modi di divertire, deve fare quello che io chiamo “alto intrattenimento”, anche se ciò potrebbe in un primo tempo restringere la platea di fruitori. Poi, per fare un esempio, il teatro di prosa può anche essere definito elitario, e possiamo disquisire a lungo sull’uso di questo termine, ma un conto è se coinvolge 10 persone, e un conto se ne coinvolge 10 mila. L’aggettivo “elitario” rimane, ma la sua consistenza cambia notevolmente.
FT – Torniamo ai suoi mille incontri. Lei ha lavorato anche con il grande Nanni Loy. Che ricordi ha di quell’esperienza?
AC – Nanni era una persona di una preparazione pazzesca. Non aveva spocchia e soprattutto non ostentava mai la sua pur grande cultura; in questo assomigliava molto a Gigi. Abbiamo lavorato in radio insieme per parecchi anni. Siccome svolgevo io tutto il lavoro pratico della scrittura degli sketch e quant’altro, mi diceva che era l’unico momento in cui poteva riposarsi perché di me si fidava ciecamente. Soffriva a camminare e aveva dei problemi di schiena: pensa che nei suoi film ha girato parecchie scene da seduto, e quando doveva necessariamente stare in piedi si appoggiava su un supporto di legno. Quindi arrivava in radio sempre piuttosto stanco. Il suo strano carattere lo rendeva un uomo apparentemente difficile, ma se superavi la prima barriera di diffidenza trovavi una grande umanità. Io e lui litigavamo quasi tutti i giorni, ma è stato per me un grande amico. Con la sua visione amara della vita è stato davvero un precursore, una persona che non scorderò mai.
FT – Se dovessi chiedere cosa rappresenta per lei lo “stare in scena” di un attore, cosa mi risponderebbe?
AC – Lo stare in scena è un risultato a posteriori, una conquista che avviene col tempo. C’è sicuramente chi è più favorito dalla sorte, perché magari ha una simpatia istintiva o una vocalità che attira l’attenzione, come qualcuno che studia musica ma possiede già una sua dote naturale. Tuttavia non è detto che alla fine possa risultare più carismatica una persona con capacità meno innate di un’altra, ma che lungo un certo percorso si sia impegnata maggiormente. E’ comunque un processo lento dato anche, io credo, dall’imprevedibilità della vita. Sono stata grande amica di Domenico Modugno e il suo desiderio più grande in principio era quello di fare l’attore; recitare era la sua prerogativa, direi quasi una tigna. Poi sono state le
circostanze della vita che l’hanno portato a fare il cantante. C’è da dire che lui sapeva suonare molto bene perché il padre era un grande chitarrista e gli ha insegnato ad usare la chitarra in modo eccellente. Ma è stato successivamente che ha cominciato a capire cosa poteva derivare dalla musica. Quando ha iniziato a prendere lezioni d’impostazione vocale aveva già 26 anni. Se dovessi darti una definizione tecnica, direi che l’essere in scena è il risultato di tanti aspetti che si può cercare di scomporre, ma che sommati non danno mai lo stesso risultato. E’ una somma personale, magica, e non certo matematica. Gli addendi si possono facilmente identificare: una certa capacità di usare il palcoscenico, di tenere il fisico, di usare gli occhi. Ci sono attori molto bravi e preparati, ma che nella vita si rivelano poco interessanti, altri che invece sono disarmanti nella loro semplicità. Ti racconto questo simpatico aneddoto: anni fa passai uno splendido capodanno a casa di amici inglesi, chiacchierando con un giovanotto che avrei giurato essere un direttore di scena. Era una persona carina, semplice, elegante, con un bellissimo sguardo. Ad un certo punto della lunga conversazione mi chiese quale fosse la mia professione; gli risposi che lavoravo nello show-business e gli domandai di cosa invece di occupasse lui. Mi osservò con aria molto divertita e mi disse che anche lui lavorava nel campo dello spettacolo. Più tardi venni a scoprire che si trattava di Al Pacino! E’ una personalità molto piacevole, soprattutto per la sua tranquillità, il suo garbo, la sua simpatia. In un’altra occasione mi trovai invece a casa di un amico sceneggiatore premio oscar; ad un certo punto arrivò una bellissima signora che parlava francese, anche se con un po’ d’accento tedesco. Siccome non c’era la donna di servizio, mi offrii di preparare il tè. Fu a quel punto che, alzandomi, la vidi accavallare le gambe e gridai “Marlene!”. Non l’avevo proprio riconosciuta. La semplicità, la non ostentazione di niente, sono le carte vincenti dei grandi professionisti, senza alcun dubbio. Pensa che quando mi presentarono Ingrid Bergman persi completamente la testa per quanto era bella. Cominciai a balbettare in inglese, ma lei mi prese la mano e disse: “La prego, parliamo in italiano, che voglio esercitarmi”.
FT – Dal Laboratorio delle Arti Sceniche di Gigi Proietti sono usciti diversi giovani attori di successo. Penso a Nicola Romano, che abbiamo intervistato in questo numero di “Ciminiera”, ma anche a Enrico Brignano, Gabriele Cirilli, Chiara Noschese, Francesca Reggiani, Gianfranco Iannuzzo, per citarne alcuni. Dopo 17 anni, a lavoro concluso, che bilancio traccia di questa affascinante avventura?
AC – C’è grande soddisfazione ma anche tanta delusione. Noi personalmente ci abbiamo rimesso un sacco di soldi e mai nessun ente pubblico ha sborsato una lira. Se penso che ci sono miliardi del Fondo Europeo che sono stati per anni inutilizzati dalla Regione, mi viene la rabbia! Con tutto il rispetto per le scuole esistenti, Gigi ed io abbiamo un background artistico e professionale per il quale dovremmo essere obbligati, o per lo meno sollecitati, ad aprire un corso. Quando abbiamo deciso di chiudere i battenti, ci saremmo aspettati che qualcuno dicesse “beh, fermi, dai.. non fate così..”. A nessuno è importato nulla. Non è possibile mandare avanti una cosa di questo genere in modo gratuito; considera che davamo pure delle piccole borse di studio e acquistavamo i vestiti per gli spettacoli dei ragazzi. E allora se devo fare della beneficenza, beh… scelgo io il modo di farla, altrimenti diventa umiliante lavorare in questo modo. Dal punto di vista umano, invece, è tutto un altro discorso. Tanti sono gli amici che sono rimasti in ottimi rapporti con noi, forse anche grazie alla bontà di Gigi, che ha foraggiato le prime compagnie di attori usciti dalla scuola. I ragazzi a volte hanno potuto iniziare a fare esperienza proprio perché lui ha pagato di tasca sua le loro prime spese, voglio che questo si sappia. Tuttavia è chiaro che il rapporto cresce in maniera direttamente proporzionale alla disponibilità degli allievi. Per usare un’espressione di Gigi, “famo a fidasse”; ci deve essere disponibilità, fiducia reciproca, gusto del gioco e dello scherzo, altrimenti è difficile instaurare legami profondi. Escludo che si possa essere ottimi insegnanti per tutte le persone; io mi sento l’insegnante di una gran parte di alunni del laboratorio, ma non di tutti. Per alcuni forse sono stata solo un simpatico incontro. Il fatto è che molti ragazzi vogliono continuare a sognare; Gigi in questo è morbido, mentre io sono probabilmente più cruda. Ho un senso del reale che è scomodo, quindi con me chi vuole continuare a dormire ha purtroppo poche chances: o mi evita o si sveglia.