Verso la fine del 2004 – credo fosse autunno, e la memoria purtroppo non mi aiuta coi numeri e le date – sull’onda degli incontri felici che la nostra “Ciminiera” veniva sigillando tra scrittori, musicisti, attori, artisti e architetti, mi venne forte il desiderio di raggiungere ed intervistare una grande interprete emiliana, di cui ancora oggi conservo gelosamente i vinili e i cd. Si trattava di Milva, la Rossa.
Il personaggio, perfettamente calibrato nel ruolo di diva anche ad opera del grande Strehler che l’aveva aiutata a reinventarsi oltre la canzone melodica verso i grandi maestri della canzone d’autore e del teatro del ‘900, mi pareva difficilmente raggiungibile, forse distante. Sbagliavo totalmente.
Presi accordi con la sua segretaria di una vita, Edith, con cui al telefono avevo spiegato il taglio della rivista e l’opportunità che la signora Milva vi apparisse, ero in attesa di un segnale di riscontro quando, qualche settimana dopo, vidi apparire un numero sconosciuto sul cellulare: non era Edith. Era Milva.
Aveva ricevuto “Ciminiera”, l’aveva letta con attenzione, si era complimentata e riteneva che – per una rivista così prestigiosa – non bastassero due domande e via al telefono, ma che fosse invece necessario incontrarsi: “dobbiamo parlare di tante cose…” – mi disse – “ci vuole tranquillità, un bell’ambiente. Facciamo così, se lei è d’accordo!” – lanciò l’idea – “se non le è scomodo spostarsi, ci possiamo incontrare a casa mia sul lago di Como: c’è una splendida vista, si può anche mangiare un boccone insieme, e vedrà che l’intervista viene meglio!”.
Questa era Milva. Una donna gentile, affabile, aperta, colta e naturale. Una donna ancora felicemente emiliana, a dispetto dei palcoscenici del mondo calcati, degli artisti con cui ha collaborato, del repertorio vastissimo e colto che ha interpretato. Addirittura con me, che – a parte i titoli letterari – le ero totalmente sconosciuto.
L’incontro non ebbe luogo: a ridosso dell’appuntamento telefonico per confermare, una colica renale micidiale con conseguente ricovero stoppò il mio sogno. Ma chiamando scoprii che anche lei – proprio gli stessi giorni – si stava andando a ricoverare per accertamenti: al telefono, sorridendo un po’ del reciproco fato avverso, Milva rilanciò: “Se rimane d’accordo col proposito, possiamo fare a primavera, coi primi caldi.” – “Rimango d’accordo sì, s’immagini… la mia Macerata non piangerà se mi allontano per un po’!” – e lei: “Bella Macerata, ci sono stata a cantare Brecht (ndr.: c’ero, stavo in prima fila in teatro). Veh, che bella piazza che avete!”.
Non siamo riusciti a mantenere il proposito, e me ne rimane il rimpianto. O forse ci siamo riusciti, in quello scambio di semplici battute tra Thanos Mikroutsikos, Giovanni Testori e il “mio” Sereni, tra Piazzolla e Vangelis: grandi artisti e semplici uomini; con lei in due battute si volava tra coliche, laghi, riviste, dischi e la “nostra” Emilia: “son fiol d’un carpzàan…” (sono figlio di un carpigiano), in quella curiosa complicità a distanza che nella sua brevità è valsa più di qualsiasi stupenda intervista. Bella davvero, indimenticabile, una persona così.