Nuova Ciminiera inaugura oggi la rubrica Tana libera tutti, curata da Gabriel Del Sarto e Jacopo Curi, dedicata a scuola, educazione e pratiche didattiche. Il titolo di questa rubrica si basa sul senso etimologico del termine educare, ossia condurre fuori, per estensione stanare, con l’obiettivo di rendere gli studenti liberi pensatori. Infatti, se insegnare significa segnare dentro, l’aspetto più nobile della formazione non può che coincidere con la conquista della libertà di divenire se stessi. L’idea è raccogliere testimonianze dirette, soprattutto di docenti-poeti, per riflettere su tecniche, metodologie e aspetti relazionali con cui ci si confronta ogni giorno, concretamente, nel corpo a corpo con gli studenti.
(NOTA: a seguito di diverse critiche arrivate sull’articolo, abbiamo ritenuto importante specificare che l’obiettivo dell’ironia di Jacopo Curi è, in particolare modo, la recente Riforma degli Istituti Professionali, di cui qui potete scaricare della documentazione. Tale riforma, molto buona nei suoi obiettivi pedagogici, contiene delle problematicità importanti, come ad esempio il grosso numero di schede su cui formalizzare il proprio lavoro, a volte ripetitive, altre volto poco chiare. Oppure la confusione terminologica fra tutor/mentore/orientatore, tutte figure professionali che il docente dovrebbe essere in grado di ricoprire e assumere su di sé. Il rischio di diventare impiegato part time è alla base del tono un po’ paradossale e dello sguardo di questo articolo, che è bene continui a provocare, ma che desideriamo sia almeno compreso nelle sue intenzioni, che non sono contro la pedagogia o contro la necessità di progettare la didattica – citiamo solo due dei rimproveri che abbiamo ricevuto – ma contro la burocratizzazione di queste attività. Buona lettura.)
«Ho chiesto al meglio della mia faccia / una polemica di dignità»
Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà (Storia di un impiegato, 1973)
«Vivere è diventato un esercizio burocratico»
Ennio Flaiano
Quasi un secolo fa Mussolini desiderava una scuola popolare che penetrasse la coscienza delle masse, ma il fascismo non riuscì a raggiungere pienamente l’obiettivo ideologico del consenso perché, nonostante la censura, la repressione e le grandi adunate, l’elitarismo della riforma Gentile (1923) contribuì unicamente alla formazione della futura classe dirigente attraverso l’accentramento burocratico.
Nel dopoguerra l’intenzione di eliminare le scuole gentiliane e bottaiane si è intrecciata con goffe sperimentazioni i quali esiti attuali, malgrado i tentativi, tendono a coincidere con una nuova deriva burocratica ugualmente bieca e strisciante in ragione di un consenso non puramente ideologico, quanto inevitabilmente frammentato per l’evoluzione del panorama socio-politico italiano. D’altronde già negli anni ’60 e ’70 Pasolini notava in più occasioni (si confrontino, ad esempio, gli Scritti corsari) che la società dei consumi stava realizzando l’omologazione totalitaria che il fascismo aveva solo pianificato senza davvero innestarne il germe nel profondo delle coscienze.
Purtroppo il mondo dell’istruzione non è immune da tale meccanismo, anche se sembrerebbe navigare in direzione opposta in virtù del principio di autonomia, che avrebbe dovuto rendere la scuola meno centralizzata e di conseguenza meno burocratizzata. Tuttavia, per dirla ancora con Pasolini, dietro ai propositi si cela una falsa tolleranza: il pragmatismo illusorio e rassicurante dei protocolli si nutre di un linguaggio teatrale fatto di proclami mistificatori ed edonistici di libertà che contribuiscono alla creazione di un immagine buona, forte e decisa del partito o della coalizione di turno per vincere le elezioni, nei fatti riducendo il ruolo dell’insegnante a quello di un impiegato costretto ad aderire a dei modelli. È la solita storiella del gattopardismo: il potere dissimula e passa di mano autotutalandosi mentre i consumatori, in questo caso appunto gli insegnanti, cercano di orientarsi nel fumo diluitissimo che avvolge lo schematismo labirintico di pseudoavanguardie teoriche culturalmente omologanti di cui alla fine fanno le spese gli studenti.
In concreto cosa richiede oggi la professione di docente? La competenza impiegatizia di compilare cartelle al computer usando neologismi dottissimi ed espressioni visionarie quali imparare ad imparare, fantacognitivo, semplessità, docimologia, sapere sapiente, ricercazione preconfezionate dai pedagogisti. Questi zelanti ricercatori, arroccati in accademie coinvolte nell’assetto feudale del potere, riempiono di brume pagine di studi su strategie e metodologie didattiche da applicare a scuola. Nella quotidianità del docente il discorso si traduce nella mera trasposizione di concetti su tabelle modulari, i cui principi sono basati su liste di indicazioni fornite a livello europeo e da riformulare, come se fosse antani, a perdifiato. Il lavoro del docente consiste nel prelevare e ricalibrare queste indicazioni edificando monumentali e pleonastiche architetture retoriche da sofisti intorno a nomenclature rinverdite d’aspetto ma non in sostanza, nell’adattare i parametri aggrovigliandosi in ampio periodare ciceroniano dopo aver respirato l’aria fritta delle alte stanze per imitare gli idoli che le abitano.
Piani, unità d’apprendimento, progetti, griglie di valutazione, monitoraggi, Rav, Ptof, flick e flock (paraponziponzipó) servono per pianificare e avere un’idea di ciò che si sta facendo in nome della meritocratica produzione in serie (si vedano le prove invalsi), in nome dell’inclusione… nella catena di montaggio di aziende che competono per incrementare il numero delle iscrizioni. Certamente non si potrebbe procedere in base alla fantasia di ognuno, ma neppure seguendo le fantasie perverse di qualcun altro.
Così (per carità, non solo) i docenti trascorrono pomeriggi e sere sfatando il mito dello stipendio facile. E poi c’è la realtà. Le restanti 18 ore settimanali (finalmente!) si possono trascorrere a lezione con i ragazzi sviluppando piani e progetti mirabolanti (UdA multidisciplinari, culturali, professionali, spaziali, surreali, anali – eresia!) redatti con estrema cura e riportati sul pdf ufficiale con il logo della scuola, il codice meccanografico e la firma autenticata dove tutto magicamente si collega. Come se la Magna Charta fosse solo storia medievale inglese, la teoria della relatività solo scienza, Ford solo un imprenditore, Turing solo un matematico, Fortini un poeta senza presente. Come se il docente, svolgendo una qualsiasi lezione, non fosse capace di effettuare spontaneamente o estemporaneamente collegamenti con l’attualità, la Costituzione, le altre materie. Non basta farlo, è necessario scriverlo in una scheda.
Piuttosto il Ministero dovrebbe pretendere insegnanti autorevoli che leggano, approfondiscano, ricerchino affinché spalanchino gli orizzonti critici degli studenti e facciano venir loro sete. Giustamente per farlo è fondamentale essere competenti, ragionare e aggiornarsi, pur senza troppi fronzoli, su quello che propongono i pedagogisti in termini di regia. Pertanto si straparla di competenze per docenti e discenti: essere in grado di impiegare conoscenze (il sapere) e abilità (il saper fare) – ossia la capacità di applicarle, le conoscenze – per risolvere un problema. Eppure se non so e non so di non sapere; se non so fare – cosa faccio? Parafrasando di nuovo Pasolini, nel contesto scolastico si avverte sul piano esistenziale qualcosa che un potere totalizzante riduce in simboli, in atti puramente formali e inespressivi di asservimento. In uno dei tanti articoli polemici e provocatori, non a caso intitolato Aboliamo la TV e la scuola dell’obbligo (apparso sul «Corriere della sera» il 18 ottobre 1975), egli denudava gli onnicomprensivi automatismi sociali alla base della sua radicale critica: «La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero». Pasolini associa la qualità dell’insegnamento alla qualità delle nozioni, ai tanto demonizzati contenuti. La superficialità su questo tema si scontra con il tanto decantato lifelong learning (apprendimento permanente o continuo). Apprendere continuamente, per un professionista, significa approfondire e acquisire sempre più autorevolezza che – vale la pena ricordarlo – non è l’autorità. Gli stessi pedagogisti parlano dell’insegnante quale leader emotivo. Essere autorevoli vuol dire essere credibili, e non avere una qualche credibilità; significa studiare per possedere il sapere in maniera articolata e stratificata, primo indiscutibile presupposto per essere in grado di applicarlo in maniera non sterile. Ma come farlo se si ha tempo solo per riempire UdA, piani e progetti? Come farlo se conta solo partecipare a corsi di formazione su come svolgere la propria professione? Forse le università non offrono un’adeguata preparazione? I tirocini non formano gli strumenti dell’autocoscienza? Master e certificazioni hanno anche finalità non commerciali? Infine: i metodi utilizzati per selezionare il personale nei concorsi sono adeguati? Interroghiamoci preventivamente su questo, perché una volta entrati fisicamente in classe è diverso: significa condividere una vibrazione, un ossigeno che i ragazzi percepiscono e che nessuna strategia didattica potrà mai comprendere o sostituire; significa sentirsi nudi la prima volta, più sicuri poi, guardare negli occhi dolci, schivi, annoiati di un adolescente e iniziare a dibattere su un argomento, a commentare insieme un testo calandolo nell’orizzonte della propria esperienza. Sbrigandosi perché la cattività dei regolamenti impone scadenze legate all’impressione che bisogna avere della scuola italiana: è efficiente, funziona, sforna diplomati. Il pdf (almeno la carta si salva) lo dimostra. E l’importante è continuare. Se non sono burocratici, per le istituzioni i problemi sommersi non esistono, perché non sono ufficiali. I pdf sono ufficiali. Quelli devono essere a norma, frutti apparenti di stacanovismo individuale e riunioni collegiali che ricordano gli uffici di ciò che rimaneva di Winston Smith e del mondo descritto da Orwell in 1984: «Vi erano però anche giorni in cui si mettevano all’opera freneticamente, facendo ogni sforzo per riempire tutto il tempo a loro disposizione stilando promemoria lunghissimi che restavano comunque incompleti perché la discussione su quello che ritenevano essere il loro compito si faceva straordinariamente confusa e involuta, con elucubrazioni cavillose su questa o quella definizione, disgressioni sterminate, litigi.»
Se fosse possibile snellire le pratiche e disintossicare la comunicazione, avrebbe veramente senso impostare dal basso una riflessione sul sistema scolastico italiano, un’autoriflessione sul bellissimo e gratificante mestiere di insegnante. Non si tratta di illudersi che la scuola possa salvare il mondo, ma di non disilludersi e credere ancora in una scuola pubblica, gratuita e democratica; di non essere impiegati acefali e sentirsi liberi in un ambiente libero.