Marco Bini dopo Conoscenza del vento (2011) e Il cane di Tokio (2015) è giunto alla terza raccolta con New Jersey. Già negli esergo all’inizio del libro, il poeta, tramite le parole del fotografo Luigi Ghirri e del poeta Iosif Brodskij, ci preannuncia in che direzione andrà la raccolta: “Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia.” (Luigi Ghirri) e così il poeta russo Premio Nobel: “La poesia è la miglior scuola di insicurezza che ci sia.” Non è certo un poeta insicuro Marco Bini, ma il suo accostamento al verso è sempre umile e paziente, colto, raffinato senza però mai fare sfoggio gratuito della sua cultura e di certe “perle” seminate qua e là nella sua opera.
La provincia emiliana, modenese in particolare, è lo sfondo di molti versi come nota accuratamente il poeta Cristiano Poletti nella sua prefazione: “Un racconto, impossibile. La provincia è così: non si afferra, non ne prendi esattamente tutti i contorni. E lo sai, l’insicurezza è l’approdo che la poesia t’insegna. Sono queste le due colonne d’ingresso al libro, parole di Luigi Ghirri e di Iosif Brodskij. Ci salutano, ci dicono: forza, entrate, ecco il nostro–vostro New Jersey. Sa di Terra promessa, questo libro di Marco Bini, anzi di terra e di promessa, «mattone–memoria della terra» e promessa di vita, avvertita tanto da volere, un tempo e forse ancora, «che smettesse tutto quanto» e allo stesso tempo che davvero non finisse. Sentirete, tocca ognuno di voi questo bilico, voi che state per entrare. Vedrete, vi riguarda, se tentati come credo tutti lo siamo di narrare la nostra storia, la nostra benedetta terra.” La raccolta consta di sei sezioni più tre poesie che sono una sorta di antiporta da dove il poeta ci guida per mano nel suo viaggio, come nella prima poesia che apre il libro:
Dovremmo credere ai cartelli quando come costole
spalancano al cuore spazio per pulsare,
se l’alluminio rifrange in cifre la misura
del divario fossile che basta a sentirci persi
o vederli come sfregi verticali al modo che abbiamo
di sbirciare l’orizzonte del nostro New Jersey
ma senza ponti per il centro dove agglomerarsi
nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce?
Leggendo questi versi siamo subito proiettati lungo la via Emilia, nel cuore della Pianura Padana, ma il luogo nativo del poeta è solo una metafora di tanti luoghi dell’anima e della mente e potremmo benissimo essere introdotti in un altro luogo, magari nell’America di una canzone di Bruce Springsteen (citato spesso dal poeta di Vignola) che diventa un faro assieme ad altri poeti citati e su cui torneremo in seguito. Il finale davvero ci immerge in un altro posto, in una società post industriale che fatichiamo a riconoscere e mappare: “di sbirciare l’orizzonte del nostro New Jersey / ma senza ponti per il centro dove agglomerarsi / nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce?”
Di provincia si è detto ed é qui che il poeta ha le sue salde radici che lo legano al mondo circostante attraverso viaggi e poesie, una vita quindi in movimento tra strade statali che diventano l’orizzonte oltre il quale guardare per trovare una via che si fatica a comprendere:
Forse più la prima, specie quando le statali
affondano, si fanno radici, vengono a prenderci.
Le aspettiamo, si facciano avanti:
ci tengono a distanza.
Al capo estremo del tracciato siamo
dove ai giorni non si attaccano aggettivi,
siamo deposito e sedimento,
siamo i pezzi che nell’esplosione volano lontano.
Abbiamo citato Brodskij che sicuramente per Marco Bini non è solo un nume tutelare come poeta, ma anche come intellettuale e teorico di una certa poesia, di un determinato modo di accostarsi alla parola, al verso, alla realtà che ci circonda. Il poeta emiliano, negli anni, ha tradotto anche alcuni poeti aglosassoni tra cui il Premio Nobel Seamus Heaney che si rivela una presenza costante omaggiato anche in una poesia intitolata Ripensando a Heaney:
Se te la senti – e fìdati, si sente –
la carta avvolta stretta sopra i muscoli
guastarti ogni guizzo quando sbatti
contro il sabato e sfarsi poi in minuscoli
sforzi gli inutili ampere in accumulo,
prendi il volante e guida a capofitto
dove ogni curva alla via cambia il nome
e sali dove il cielo è un manoscritto
per il falco e i rami dopo il pioppo
del castagno e da sponda fa il crinale
allo scrivibile che si nasconde
fino giù all’orizzonte tuo mentale.
Da lì si vede proprio bene Modena
appena effondere dal suo respiro:
ne indovini le piazze nei collassi
in superficie e l’idea del raggiro
che fanno i fiumi a stringere e riaprire
la scheggia di pianura detta Emilia.
Scendi poi verso sera dolcemente
in folle: c’è un torpore che assomiglia
al cauto soverchiarti di un custode,
spicchio di sole in tasca, e c’è una lotta
con le ortiche fra i piedi pronti al salto
come le dita nell’acqua se scotta.
Del poeta irlandese Premio Nobel, in Marco Bini possiamo ritrovare un certo genius loci e un attaccamento alla terra oltre che ad una certa perizia formale emersa in tutti i testi in cui il labor limae del poeta è evidente, però, come scritto in precedenza, non diventa mai puro sfoggio intellettuale o formalismo, ma un’attenzione al verso e alla cura che non sempre sono così scontati in molti poeti contemporanei. Numerosi sono i luoghi emiliani citati dal poeta: Formigine (sempre da una foto di Luigi Ghirri), Modena, Castelvetro, Bologna, ma alla fine sempre bisogna ritornare a casa, da dove si è partiti, così come tanti sono gli attestati di ricerca di poesia in ogni angolo, di scrittura che diventa un lavoro artigianale, quasi un intaglio o un cesello: “spingetemi a frugare nel mucchio del visibile. / Diventate scrittura, accenti sul libro del mondo. / Parole: / fatevi scrivere, tenetemi in vita.”
Il poeta, come solo certi poeti sanno fare, non solo narra i luoghi del proprio vissuto, ma anche riflette sul presente attraverso il passato, lancia moniti e pone la sua attenzione sulle storture della realtà contemporanea e sulle tragedie della Storia nel timore che possano ripresentarsi come in questa poesia intitolata al Museo di storia tedesca:
Mi vedo come li guardo, con quale smarrimento
di ultimogenito gli ultimi vent’anni
che siano valsi la pena, lo sfasciume inquieto
come in attesa del colore, la salita
di gruppo sul podio prefabbricato della storia:
è lo sguardo di chi ha mancato l’istante dell’eclissi.
Vedo cosa accade quando il tempo alza il ritmo
e si raggruma in un punto esclamativo:
la frase dopo vaga in aria in cerca di registro,
è incessata riscrittura, come la città oltre queste stanze.
Il poeta pare smarrito davanti allo “sfasciume” di una società che sembra aver perso la memoria oltre che la bussola, dove tutto diventa omologato, piatto e banale, quasi triturato dagli eventi.
New Jersey è sicuramente un libro che va letto e riletto per apprezzare la perizia tecnica dell’autore, ma anche per intraprendere un viaggio nella nostra epoca che non smette mai di farci riflettere regalandoci uno scorcio padano che diventa universale.
Forse più la prima, specie quando le statali
affondano, si fanno radici, vengono a prenderci.
Le aspettiamo, si facciano avanti:
ci tengono a distanza.
Al capo estremo del tracciato siamo
dove ai giorni non si attaccano aggettivi,
siamo deposito e sedimento,
siamo i pezzi che nell’esplosione volano lontano.
*
Bologna città–stalagmite, fuori le mura
è quasi più acciaio che pietra.
Novecento puro la torre dell’Unipol impressa
dal logo liquido del sole
(Rothko, Gramsci, Montale tutti assieme)
nella calma minerale presidiata dai server.
Ci sono anche i fiori, ma nessuno li capisce
aggrappati ai terrapieni, al riparo dei guard–rail:
ci lasciano andare, non dicono niente.
Crinali di colline al ritorno, cielo, cose che non so.
Continuate a darmi limiti,
spingetemi a frugare nel mucchio del visibile.
Diventate scrittura, accenti sul libro del mondo.
Parole:
fatevi scrivere, tenetemi in vita.