La settimana scorsa è uscito, per i tipi di Industria & Letteratura, il nuovo libro di poesie di Matteo Pelliti. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, la prefazione di Alessandro Fo alla raccolta.
Somiglianze di famiglia è titolo che discende dalle meditazioni filosofiche di Wittgenstein, di cui Matteo Pelliti è studioso (il passo che più ci riguarda è forse proprio quello che si trova in epigrafe alla raccolta). Ma qui il concetto di Familienähnlichkeiten si mantiene strettamente aderente ai legami parentali, in una splendida silloge che si distende fra passato e futuro, assumendo il passo di un diario del presente in forma di lettera Agli avi e ai successori.
Il gioco delle somiglianze, delle «tare» ereditarie o comunque di ciò che si deriva dagli antenati e che in parte si trasmetterà ai figli e nipoti, diviene misura di eventi e di affetti, chiave di lettura del mondo che gradualmente si sposta dal particolare all’universale, perché la contingente situazione di uno specifico gruppo familiare si fa paradigma di ciò che può accadere, è accaduto e avverrà nei singoli ritagli di spaziotempo in cui tutti la Fortuna ci balestra. Così, due o tre dati che apprendiamo sul poeta, e cioè come egli erediti la stempiatura del nonno paterno e, per via matrilineare, la predisposizione a un’ernia, non sono che minute variabili, accidentalmente annotate (in piena consapevolezza della loro scarsa rilevanza) come simbolo di ‘cromosomi’ del mondo.
In Italia, «la burocrazia che traduce/ ogni vita in date e luoghi e numeri» (In coda da solo) si compiace di contemplare anche un certificato di esistenza in vita.
Esistere!… A tutti noi è in qualche modo ‘capitato’, senza che fossimo parte in causa nel decidere. Siamo entrati in un flusso, nel fiume delle «generazioni» che riguardano la nostra stirpe. E, una volta in gioco, possiamo mantenervici o decidere di uscirne (come nella dolorosa vicenda di un fratello e una sorella in Una famiglia), interrompere la catena, o invece ‘moltiplicarci’ e procreare. Ineluttabilmente siamo comunque esposti ad affrontare una serie di accoglienze così come di separazioni (Hai gli occhi di tuo padre) e di congedi, e a mantenerci di conseguenza in oscillazione fra la gioia e il dolore.
La raccolta di Matteo Pelliti coglie l’individuo in questo suo trovarsi qui e maturare la necessità di ‘accordarsi’ alla musica delle relazioni in cui è sorto e cresciuto e di quelle che lui stesso va a creare. Ecco pertanto la poesia farsi partitura di questo concerto. Innanzitutto – con le parole che mi ha scritto un giorno lo stesso autore (da confrontare con la poesia Alberi) – «ripercorrendo i rami del proprio albero genealogico che diventa, così, un edenico, e per tutti necessario, “albero della conoscenza di sé”». È quanto avviene nella prima sezione del libro, quella che, a un medesimo tempo, prende le distanze dagli ascendenti (tramite i pronomi del titolo: Essi, voi), e ricerca le possibili contiguità con il loro passato «esistere», consegnato adesso in primo luogo a vecchie fotografie («Prometto, prometto che più spesso verrò a trovarvi, a lucidare con gli occhi le foto di ceramica, a cambiare i fiori»: Agli avi). Ed è molto suggestiva la situazione consegnata alla foto di p. 28 e al relativo commento lirico (Sante), con il suo gioco di sovrapposte inquadrature di qua e di là dal vetro.
Gli «avi,/ navi di carta nei ritratti appesi/ in color seppia» (p. 47). Siamo di fronte a quei percorsi carsici e segreti che, accanto alle stempiature, e agli altri legati genetici con cui ‘di fatto’ essi rimangono in vita (Sotto il dominio degli avi), comportano potenziali malinconie e fragilità. E indirettamente vengono a istituire Il dovere della discontinuità:
il tentativo doveroso,
di non tramandare
gli sbagli, i vizi, i tratti, i tic
che noi riconosciamo
essere stati i batteri delle nostre famiglie.
[…]
fermare i virus silenti
che viaggiano indisturbati, e volentieri,
lungo gli alberi genealogici
(ansie, paure, ipocondrie,
pessimismi, sfiducie,
infelici meditazioni sul Sé
e sul Mondo, scetticismi vari…)
Compito nostro
è l’essere antibiotici
e setaccio di famiglie:
ri-tramandarti il Bene
fermando la coazione al peggio.
Per questo Pelliti, in quella sua già ricordata lettera, aggiungeva che quest’opera è anche «confessione di vulnerabilità, in una fase storica di vulnerabilità estrema e condivisa, praticata per ritrovare forza». Solo molto più avanti nella raccolta, quando ormai il lettore è interamente preso dal germogliare delle nuove vite, riaffiorerà un mandato di coloro che – in lunga catena – ci hanno messo al mondo (Resistere al buio):
Ma resistere al buio
è il solo compito che ci hanno consegnato
facendoci esistere.
Il libro ‘nasce’ nei giorni dell’inattesa e sconcertante pandemia di covid-19; e lo stesso Pelliti la registra trasversalmente in Una notte ho sognato il Covid. È una fase che non può non interrogare un padre, che ha portato nel mondo i suoi frutti e ora li difende e protegge premuroso lungo «adempimenti, compiti, debiti» di fronte ai quali trova se non altro appoggio nel «sostentamento familiare», inteso come «il sostegno, welfare interno, dei miei genitori» (p. 48). Ma il tema resta piuttosto sottinteso.
La ribalta è occupata, invece, dalla meraviglia del nascere, di quel venire al mondo che assume in questi versi i lineamenti di una trasvolata cosmica – forse da universi paralleli, se non addirittura da sfere metafisiche (Universi) – coi futuri Sara e Pietro a palpitare nelle loro astronavi-madre, lanciando deboli ma decisivi segnali attraverso le adeguate strumentazioni (Incontri ravvicinati del fenotìpo; Misure). È questo miracolo il segreto delle sezioni Mio figlio e Mia figlia. Vi troviamo ricalibrato nel pulsare di un’interrotta sequenza di «vi-vo» (La cosmonauta… russa) quel battito cardiaco che già Sylvia Plath fissò in icona nell’iterazione del suo «I am». Subito interviene una grande responsabilità, indicare un nome (Battesimo primo):
una volta per tutte!
Eredi di Adamo, noi scegliamo
per te la faccia sonora,
etimologica, bi o tri-sillabica,
monovocalica o meno
del tuo nome proprio,
ora proprio nostro e poi
proprio tuo, unica nel molteplice. […]
la firma che imparerai a tracciare
e nella quale scoprirai di rintracciarti,
e rintracciandoti nel nome rivedrai,
ancora e sempre, noi che lo scegliemmo.
L’intreccio dei suoni nella contiguità fra le parole è un tratto saliente della tecnica poetica di Pelliti (numerosi gli esempi anche in questa raccolta: oltre ai già riportati «avi navi» e «resistere […] esistere», basti ricordare il finale di Linguaggi prenatali: «prepara lo sgombero dal monolocale,/ senza bagagli, annuncia il “Parto”:/ partire è un po’ partorire»). Nel passo appena citato (così come in Sarà Sara?), l’intreccio s’intreccia a sua volta col tema del nome dell’individuo, e del dna che vi s’imprime, scrigno di memoria di chi per primo lo fissò nel mondo.
I figli sono: «i figli sono una nuova rifrazione prismatica di sé».
Così ogni figlio ti aggiunge un lato al prisma
tale che la linea di luce accesa che ti attraversa
riporta a una nuova rifrazione,
nuovo colore, ed è la luce di ogni nuova esperienza.
E mentre questi prodigi la arricchiscono e moltiplicano, la vita intorno richiede che le poesie, come sofisticati strumenti di precisione, registrino i piccoli grandi eventi (Sismogrammi):
a luglio, si è detto, sposiamoci,
per contagiare dell’amore chi ci guarda uniti,
per poi chiamarci con nomi nuovi
di marito e moglie, nuove custodie
di parole per noi custodi del volerci.
Fino all’Appendice, la pietas del poeta mira a includere ogni figura capitale del suo atlante familiare, come quel figlio che non è riuscito a nascere (Marco), non protetto dal suo «nome segreto» – che già configurava in parte un nuovo alter ego, essendo quello con cui più spesso viene confuso il nome dell’autore –, perché «la biologia/ segue le sue strade» (Senza titolo). E con delicatezza indugia sul ricordo di una fra le più amate, la zia Graziella, mancata proprio nei giorni, così intensi, del Natale. È la sezione dal bellissimo titolo Le ceneri di Gra, con la quale (cito ancora da una lettera dell’autore) Pelliti ha inteso «salvare il ricordo degli ultimi giorni di una parente molto cara e vicina, sondando i limiti stessi della parola poetica davanti alla sofferenza e alla morte».
Ma, come del resto impone lo scorrimento delle generazioni, il finale non può che essere ‘aperto’, e guarda ai figli come esponente «della tua forza», e a un’inesauribile possibilità – nel gioco dei rapporti – di «fare cambiamento di sé» (A mio fratello), in una impegnata tensione (Ringraziamenti) al divenire tutti insieme migliori.