In occasione dell’ottantesimo compleanno di Umberto Piersanti pubblichiamo, in anteprima una nota di lettura, molto puntuale, dell’ultima raccolta “Campi di ostinato amore”, a cura di Ezio Settembri. Parti di questa nota confluiranno nel volume “Il mito ritrovato – La poesia di Umberto Piersanti”, in uscita nel mese di marzo, presso l’editore “Industria & Letteratura”.
Ci sono esperienze di poesia che è possibile distinguere immediatamente, non appena ci si imbatta nella voce del suo autore. Credo siano sempre più rari, oggi, i casi, come è quello di Umberto Piersanti, in cui la poesia è la voce del poeta. Qualche anno fa, ad una premiazione, Paolo Lagazzi ha fatto notare come l’urbinate, senza accorgersene, parlasse al pubblico in endecasillabi. Credo sia questa grande naturalezza della voce e l’autenticità della sua vocazione poetica a renderlo riconoscibile e ad imporlo all’ascolto di oggi. Chi volesse quindi familiarizzare con il ritmo del suo verso e con la sua dimensione lirica, ascoltandolo dal vivo si troverebbe in una condizione privilegiata. E’ pregiudizio diffuso quello per il quale i poeti non saprebbero leggere le proprie poesie. Un pregiudizio tutto fondato su un’idea del laboratorio del poeta come disciplina astratta, che ha bisogno di una rappresentazione sovrapposta che drammatizzi il suo corpo a corpo con la parola. Con il risultato di assistere a performances di attori che offuscano l’essenza della parola poetica con una recitazione a dir poco sopra le righe. Ecco, Piersanti rientra in quelle eccezioni (Ungaretti, Saba, Franco Loi, l’a me caro maceratese Filippo Davoli), in cui non potremmo trovare miglior interprete della poesia che l’autore stesso. Ci troviamo, così, ad ogni nuova sua raccolta, ad assistere al rifiorire di versi spontanei, che scorrono fluidi e senza soluzione di continuità, poichè altro non sono che la trascrizione musicale (seguendo il precetto di Caproni di una “poesia che non è musicale, ma è musica”) dei ricordi, di un “teatro di ombre care e necessarie” (Massimo Raffaeli) che ne hanno riempito l’esistenza.
Nell’imminenza dei suoi ottant’anni Umberto Piersanti ha dato alla luce una delle sue raccolte più complesse, Campi d’ostinato amore (La Nave di Teseo). Raccolta complessa e variegata, dicevamo, ma sempre fedele al timbro della propria voce e a quella di una vocazione, attraverso cinquant’anni, fortemente legata alla tradizione della grande poesia classica che affonda le sue radici nella linea appenninica partita dal Petrarca, come ha scritto in modo illuminante Franco Loi, passata per l’Aminta del Tasso, vero e proprio “livre de chevet” del giovane Piersanti, e discesa fino al canto di Leopardi e alla poesia “meteorologica” e neoimpressionista di Attilio Bertolucci. Una fedeltà che non si è mai fatta maniera o accademia, grazie ad un rapporto diretto con la contemporaneità e le sue inquietudini. Che è poi la cifra di una scrittura moderna o, se vogliamo, del rinnovo stesso della classicità del linguaggio poetico.
E’ nella tensione inesausta tra tradizione poetica, volontà eternatrice della poesia in un tempo assoluto, e malinconia nella realtà presente, mai totalmente rifutata, che va rintracciata la forza di un discorso di straordinaria coerenza, refrattario alle mode e alle avanguardie che avrebbero potuto influire su un poeta nato nel 1941. Ecco invece imporsi, se non già dalle primissime prove, ma almeno dalla seconda raccolta, Il tempo differente (1974), una delle maggiori personalità di spicco nel panorama italiano, certo il più isolato in quella linea ancorata alla tradizione, che dopo gli strappi vocianti delle avanguardie negli anni Sessanta e Settanta, alla lunga in Italia l’avrà vinta. Tanto da consentire quella straordinaria varietà e qualità di voci poetiche oggi in Italia, per non parlare del fenomeno felicemente anomalo dei poeti marchigiani, quantomai numerosi e validi, di cui Piersanti è capofila accanto agli altrettanto grandi Francesco Scarabicchi, Eugenio De Signoribus e Gianni D’Elia.
Natura e memoria, questi i due poli imprenscindibili coi quali l’urbinate si trova ogni volta a fare i conti, già a partire da quel “Ricordate…” nel primissimo verso d’esordio e dall’emblematica terzina “Ricordi la casa perduta tra i greppi/il sapore del fieno/e l’immensa famiglia contadina?”, anch’essa nella prima raccolta giovanile, La breve stagione (1967). Da quelle prime prove acerbe Piersanti ha tenacemente accordato lo strumento della propria voce modulandolo su un endecasillabo sì classico, ma spesso capace di contenere e far vibrare le proprie emozioni, le percezioni di una natura goduta appieno (perfino nei suoi impeti erotici), le ombre del ricordo e di un immaginario fantastico contadino ormai perduto. I temi cari all’autore rivivono in questa decima raccolta che costituisce davvero una summa dell’universo poetico nel quale l’autore si muove dalla sua posizione decentrata rispetto al linguaggio asettico o intorcinato delle avanguardie, e dal suo defilarsi nel “tempo differente”, che diede appunto il titolo a una delle sue raccolte migliori. Con le fughe nelle sue Cesane (i colli che circondano Urbino) o alla ricerca di un locus amoenus appenninico, la direzione di Piersanti è stata quella di convogliare i propri ardori, in precedenza coinvolti nella lotta politica e sociale, convogliarli nell’eros e nella natura; e successivamente, con la produzione matura e la trilogia di Einaudi (I luoghi persi, 1994; Nel tempo che precede, 2002; L’albero delle nebbie, 2008), convogliarli nei luoghi persi della memoria, dove fondare un’autonoma patria mitica e poetica. Sono luoghi precisi, non astratti: la natura e i paesaggi di quello che Alessandro Moscè ha definito il più grande poeta di natura del Secondo Novecento dopo Attilio Bertolucci, sono sempre ben riconoscibili, anche con una perizia botanica, di derivazione pascoliana, d’eccezione. Piersanti sa benissimo che “soltanto chi sa essere del proprio paese…può ambire ad essere universale” (L. Cavallo): la sua scelta non sarà mai, tuttavia, di gusto localistico o strapaesano, non ripiegherà mai nel bozzettismo o nella difesa della “piccola patria”; il filtro della memoria e del canto rende quei luoghi universali. A dominare l’universo dell’urbinate sono leggende di fate e folletti, dello sprovinglo, un diavolo contadino che sale sopra lo stomaco dei contadini mentre dormono; sono i racconti del bisnonno Madìo in giro con il suo biroccio, storie dal sapore antico come potevano essere quelle raccontate intorno a un fuoco e che appartengono a un mondo, ricordava lo stesso Piersanti, più vicino al Milleduecento che non agli anni Duemila.
Per addentrarci nell’universo percettivo dell’autore è indispensabile partire dallo struggimento e la malinconia che è dietro ogni composizione dell’urbinate: mi riferisco al pathos trattenuto, alla tenerezza non sentimentale delle poesie su Jacopo; la nostalgia del mondo dell’infanzia alle Cesane, un mondo perduto e vagheggiato senza nessun rimpianto di tipo ideologico, come poteva essere per Olmi o Pasolini, ma con l’amara coscienza dello scorrere inesorabile del tempo, un’ossessione alla quale Piersanti risponde con la tenace resistenza della poesia. Personalmente mi ha sempre affascinato poter passare dall’inevitabile tentazione di identificare gli scenari campestri di questa poesia con i miei ricordi d’infanzia e le estati nella casa di campagna di Loro Piceno, sulle colline maceratesi, in un paesaggio e un ambiente così simili; la tentazione di riconoscersi in una medesima tavolozza di colori, per poi sentire l’afflato universale che avvolge la casa in fondo al fosso, esattamente come universale è divenuto il Colle e il villaggio cantati da Leopardi, o Casarola e il Cinghio evocati da Bertolucci. E allo stesso modo avvertire sulla mia pelle quanto il mio passato, anche per me che non ho affrontato il passaggio epocale vissuto dal poeta urbinate; quanto le immagini delle mie estati in campagna siano irrimediabilmente perdute, solo evocate dal ricordo, e in Piersanti dalla poesia che quasi magicamente può farle rivivere. Immagini e luoghi che senza la poesia potrebbero scivolarci addosso quasi con indifferenza, ma che la trasfigurazione della memoria e del sentimento rendono mitiche. Un movimento, dal particolare all’universale, di cui vive tutta la Weltanschauung di Piersanti, una perenne tensione, profondamente classica, e dunque mai metafisica, ad abbracciare la totalità dell’esistente, partendo da un baricentro ben preciso, la casa in fondo al fosso.
Se volessimo compiere un excursus cronologico sulle dieci raccolte di Piersanti, irrinunciabili sarebbero anche i riferimenti all’attività cinematografica, soprattutto a quei film-poemi sulle Cesane tanto amati da Amelia Rosselli, in cui è possibile verificare l’efficacia mimetica dell’endecasillabo di Piersanti direttamente immerso nella natura. Tanto da portare il poeta a trascrivere direttamente la recitazione, involontariamente scandita da endecasillabi, in forma di poemetti all’interno di alcune sue raccolte. Fondamentale poi l’opera narrativa dell’urbinate, che ha sempre avuto uno strettissimo contatto con la Storia e con l’impegno culturale-politico del poeta (vedi soprattutto la polemica con le neovanguardie e il Gruppo ‘63). Ravvisando tempestivamente quanto l’impegno politico della sinistra più oltranzista sconfinasse nel fanatismo e nelle derive del terrorismo, e difendendo senza mezzi termini l’autonomia dell’arte e della letteratura, Piersanti ha incarnato fino in fondo il mito rinascimentale: la sua posizione non si riduce mai al ripiegamento intimista; l’urbinate si è infatti distinto per una fervida attività culturale.
E se volessimo individuare un filo conduttore tra la prima parte di questa esperienza di poesia, spesso colpevolmente ignorata dalla critica, e la produzione matura che va da Passaggio di sequenza e ancor più I luoghi persi (1994) fino alle ultime raccolte, il percorso di maturazione della poesia di Piersanti diviene quello di un “poeta di natura” che partendo da un’immersione totale nel paesaggio delle sue amate Cesane (“buttare la testa tra l’erba, godere fiori, sapori, odori”, parole dell’autore, da un’intervista) e da un rapporto fortemente sensuale, anche violentemente erotico con la realtà; man mano si libera di una visione superficiale naturalista/impressionista, per fondare una sua patria poetica, elevando i contorni così ben tratteggiati della campagna montefeltresca a quelli di un paesaggio universale.
Per evitare inoltre un’equivoca definizione di poeta dell’idillio naturalista (Piersanti, fra l’altro, non ha mai fatto della retorica sulla natura), una lettura profonda delle sue liriche permette di cogliere tutte le inquietudini della sua “Arcadia d’ombra”: Piersanti non è mai poeta dell’idillio naturalista perchè la tensione classica insita nella sua Weltanschauung è vòlta proprio a voler eternare attraverso l’arte, la poesia, il canto, quella vita e quella natura godute appieno ma soggette alla rapina rovinosa del tempo e della morte.
Ritroviamo una poesia attraversata da inquietudini laceranti negli struggenti versi che il poeta dedica al figlio Jacopo, affetto da una rara forma di autismo. Siamo nel punto più alto della produzione piersantiana: l’urbinate riesce a commuoverci raccontando senza sentimentalismi il difficile rapporto di un padre “schiantato” dalla condizione di estraneità al tempo e allo spazio del figlio, che “abita una contrada/senza erbe e fiori” (da Nel folto dei sentieri, la penultima raccolta, del 2015)
Campi d’ostinato amore è una raccolta “annunciata” dai numerosi inediti apparsi in rivista (in particolare su Poesia del giugno 2018 e nel recentissimo numero di settembre-ottobre 2020) o nel Web, i quali mi sembrano caratterizzati da due aspetti fondamentali, in continuità con la produzione precedente e con Nel folto dei sentieri, ma con alcuni elementi di novità e differenziazione. Innanzitutto in essi il ricordo assume i contorni sfocati di un passato molto lontano, quello dei giochi d’infanzia (Rubabandiera), anche crudeli (Antico gioco di primavera), e di un’ambientazione campestre che richiama più il tempo perduto de I luoghi persi che gli sviluppi successivi:
RUBABANDIERA
no, non con la gonna bianca
magari a pieghe fitte
il nastro azzurro di quegli anni
remoti,
remoti più d’ogni altra
immagine e vicenda,
ora solo ombre,
ombre le più sfocate
e sperse,
ma così morbide
e tenaci nella mente,
stava lei,
la forestiera,
dritta e stagliata
sulle torri d’Urbino
e la pineta,
con i neri calzoni
la cinta arancio
non guardo il fazzoletto,
non la raggiungo,
ma guardo lei,
lei che lo strappa
e fugge,
la più veloce,
scompare dentro il quadro
fuori dei giorni
Ottobre 2016
Il passato insomma appare indefinito, come se emergesse da una coltre di nebbia che ha il sapore dell’amarcord felliniano. A rafforzare questa sensazione i frequenti leopardismi: “primavera/brilla a noi d’intorno” (Primavera triste); “l’azzurro di marzo/tutt’attorno rischiara/e lo rallegra” (Quando volge il cammino); “non sai se la madre/s’appresta a consolarti/dell’esser nato” (Febbraio 1941); il ricorrere dell’aggettivo “odoroso”, che rende il sensismo di Piersanti così affine a quello di Leopardi. E forse più di ogni altro elemento appena considerato, c’è di nuovo il valore consolatorio della memoria, la quale trasfigura sempre ciò che si è vissuto, ciò che, in fondo, non è stato così idillico. Ancora una volta questa poesia rifugge ogni possibile vagheggiamento di un’età dell’oro. Finora l’urbinate non era stato mai così esplicito come nella nota di poetica o di pensiero poetante di Oggi a Camorciano, davanti alla casa antica:
no-rispondo a lei
che insiste su quei tempi felici
-non sempre giorni
e giochi
furono gentili,
ma non è questo,
per ogni generazione
c’è un’età immortale,
la mia è stata allora,
forse quel tempo è altro
della sua memoria
Va notato, sul piano stilistico, lo spezzettamento dell’endecasillabo caro alla stagione centrale della poesia dell’urbinate. Con la frantumazione del verso classico, musicale, la rapina del tempo si fa in Piersanti ancora più impetuosa, drammatica; eppure, leggiamo in Da un canto barocco, “la casa/che tu sai dissolta/nella nebbia degli anni/fluttua remota e pallida,/ma resta”. O di nuovo in Greppi:
greppi, greppi amati
più non salgo
tra voi
col vento in faccia,
anche sul piano
ora arduo è il cammino,
goffo e incerto
striscia il passo
sul terreno,
se tenta di salire
i greppi verdi
non s’inarca il ginocchio
ma si piega,
restano le erbe
e i fiori così distanti
solo un poco
conforta la memoria
dei greppi luminosi
e le vicende
così perse e remote,
così presenti
Anche in queste poesie il canto riesce a farsi strada tra la crisi, tra una memoria che “almeno un poco” può addolcire il presente («ah! questa infanzia/che negli anni s’inoltra/e ti pervade,/ossessiona i tuoi giorni/e un poco,/almeno un poco,/li consola», Terra di memorie); e sono anche i felici esiti delle sinestesie («vento azzurro»; «l’acqua del fosso/che odora di verde»; «l’aria/fatta nera e spessa»). Ma il canto resiste, tenace, anche perchè la poesia di Piersanti, pur nella versificazione molto nervosa, sincopata, mantiene la sua struttura classica, anche nei riferimenti, nelle citazioni (Foscolo, «questa bella famiglia d’erbe e d’animali»; Penna, «il mare è tutto azzurro»; Montale, «vola alto il falco», «tu non ricordi»; Pascoli, «l’estremo pigolio dell’uccelletto», «e l’alba che li attende/così lontana».
Alcune belle poesie come Dentro il Presente e La pula si soffermano sul “tempo nuovo”; ne La pula troviamo versi che insistono su una memoria capace di conservare storie, opposta alle storie che scivolano tra le mani dei giovani con i cellulari:
altri sono i miei anni,
come quelli dei vecchi
che sanno storie,
oggi le storie
i giovani le hanno
scritte su vetri
con la pelle confusi
dentro le mani
Tra le poesie dedicate al “tempo nuovo” se ne distinguono alcune composte a partire dalla primavera del 2020, e un gruppetto dedicate a Jacopo. Nel primo gruppo Piersanti riesce a parlare del nostro tempo e del triste periodo costretti nelle nostre case, sovvertendo la retorica diffusa da più parti in questi mesi, del risveglio della natura, dell’uomo che finalmente lascia spazio all’ambiente. Ancora una volta il grande poeta di natura rigetta la retorica sulla natura stessa:
Primavera triste
più d’ogni altra primavera triste,
il male di vivere non lo incontri
solo in quel che cede
e si dissolve
ma nel fiore che s’alza dalla terra
nell’albero che s’apre
a nuove foglie
solo una beffa
questo cielo azzurro
il vento lieve
il sole che tiepido riscalda,
primavera brilla
a noi d’intorno,
ma i campi sono deserti
le piazze vuote,
primavera brilla
a noi d’intorno
e t’entra dentro il sangue
e lo raggela
aprile 2020
Sono proprio i campi che l’urbinate trova deserti, innaturali, spettrali, e la natura stessa, insieme all’uomo, sembra ancora in attesa di un risveglio. In una recente conversazione il poeta ricordava che le limitazioni cui dobbiamo attenerci riguardano il respiro, il soffio della vita stesso:
e in quel tratto di cielo
che sconsolato contempli
mai le rondini
furono più fitte,
certo tu ami i cieli
e l’acque e le stirpi
dei fiori, dei selvatici
erranti per i campi,
ma non ti consola
anzi t’inquieta
e offende
questa primavera fuori stagione,
primavera bugiarda
che gli umani serra
dietro sbarrate porte
e di veleni insozza
persone, erbe e oggetti
è questo tempo tutto
fuori stagione,
un tempo che ti rapina
i giorni e l’ore,
e tu rimpiangi i suoni
che detesti,
i trapani nei muri,
l’acque scure,
il cielo polveroso,
i giorni inconsapevoli,
felici
d’un’altra primavera
che porti dentro,
dentro nel sangue
(Primavera bugiarda)
Devo riconoscere che mai prima d’ora ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un Piersanti così cupo, almeno nella produzione matura:
primavera crudele che s’inoltra
col suo riso sinistro
di cieli e campi,
di fiori,
d’acque azzurre
e venti lievi
da dietro le finestre
e stretti ai muri,
del sortilegio
s’attende la fine,
guardare un’erba
o un fiore
senza il male nascosto
dentro i colori
(Una strana primavera)
Gli altri riferimenti al “mondo nuovo” li troviamo nelle poesie dedicate a “Jacopo delicato/figlio che non cresce” (Antica casa). La tenerezza del poeta non è mutata, ma in questo caso il ricordo avvolge anche la vicenda del figlio in Jacopo ormai grande:
Jacopo quasi non ricordo
tu che cammini
in fondo alla piscina
tra le bolle
elfo inconoscibile
e distante,
o avanzi dentro i campi
d’Abruzzo tra sciami
di cavallette
e le distanzi,
o ancora fermi l’acque
che al tuo piede s’arrestano là
sotto il Conero
ai Sassi Neri,
ora possente e muto
mi fissi,
così lontano,
Jacopo non ancora nato
che ogni corso mutavi
ed un’intera stagione
mi rapinavi,
e dopo venne il male
che il tuo viso perfetto
appena, appena piega
ma non incrina,
Jacopo delle corse
e dei dolori,
Jacopo del riso
e dello sconforto,
sei nella vita
quella svolta improvvisa
che non t’aspetti,
la tragica bellezza
che i tuoi giorni inchioda
al suo percorso
Agosto 2019
La memoria del poeta corre ai momenti idillici prima che il male stravolgesse il volto e l’esistenza di Jacopo, ma anche all’amore faticoso che ha condotto Jacopo fino all’età adulta. Le vicende e persino le malattie di padre e figlio sembrano fondersi in un unico destino, nel destino di una famiglia ferita (il figlio chiuso nella stanza, il ginocchio del padre che deve rinunciare alle amate flaneries), ma unita (non vanno dimenticati i riferimenti alla madre Annie, destinataria anche di versi tra i più delicati); il canto di Piersanti si eleva con note di struggente sinfonia nella splendida Campi d’ostinato amore. In una conversazione Paolo Lagazzi individuava in questa lirica il vertice della visione cosmogonica di Piersanti; il poeta sembra vedere le proprie Cesane rispecchiarsi nelle galassie o sconfinare e congiungersi con esse. Mai come in questo punto possiamo riconoscere quanto Piersanti sia riuscito a rendere universali i suoi campi::
I cori che vanno eterni
tra la terra e il cielo,
ma tu li ascolti
Jacopo quei cori?
ho visto
il falco in volo
con la serpe
trafitta nella gola
dai curvi artigli,
l’estremo pigolio dell’uccelletto
che la biscia verdastra
afferra e ingoia,
tra i rami non s’aggirano
le ninfe,
un giorno le incontrai
in remoti boschi,
l’assurdo poco oscura
nevi e foglie
non scolora i bei crochi
nei greppi folti,
ma il tuo male
figlio delicato,
quel pianto che non sai
se riso, stridulo
che la gola t’afferra
più d’ogni artiglio,
questa bella famiglia
d’erbe e animali
fa cupa
e senza senso
e dolorosa
siamo scesi un giorno
nei greppi folti,
abbiamo colto more
tra gli spini,
ora tu stai rinchiuso
nelle stanze
e il mio ginocchio che si piega
e cede
a quei campi amati
d’un amore ostinato,
sbarra l’entrata
aspetto i favagelli
del febbraio,
tiepidi contro il gelo
sbucare fuori
febbraio 2017
Lo sguardo di Piersanti, dolce e colmo di un affetto mai gridato, si posa sul ragazzo, che ha ormai superato i trent’anni, si interroga su quanto Jacopo è riuscito a trattenere di tutti questi anni, su come abbia potuto crescere senza avere la percezione dello scorrere del tempo, quella percezione che ha dominato il senso della vita e della poesia di Umberto Piersanti già a partire dal “Ricordate” del primo verso del 1967.
Anche in Campi d’ostinato amore la poesia di Piersanti non cessa mai di esprimere attraverso il canto della tradizione lirica, quel sì alla vita che si oppone alla negatività ontologica di tanta poesia del Novecento. Rifuggendo ogni tipo di visione metafisica, spiritualista, ogni scorciatoia consolatoria o possibilità di salvezza ultraterrena; la poesia di Umberto Piersanti si inserisce nella grande linea della poesia creaturale che non rinuncia mai, ostinatamente, a cantare il suo inno d’amore per la vita.