Su poesia, cazzate, frustrazione e amicizia. Una nota a Quanti di Flavio Santi.

(Quanti. Truciolature, scie, onde, 1999-2019 è il primo libro della nuova collana “Poetica”, edita da Industria & Letteratura, curata da N. Scaffai e G. Del Sarto. Il libro può essere acquistato solo sul sito dell’editore, cliccando qui)

Riccardo Frolloni

Mi annoia quasi tutto, sarà il periodo, la pandemia, i pesantissimi saggi che sto leggendo come processo di smaterializzazione. Non leggo poesia da mesi, forse solo un Nooteboom. Nasce questa nuova collana, riconosco i curatori, e la speranza è dura a morire: Flavio Santi, ricordo questo nome legato ad alcuni studi fatti durante la tesi, uno dei pochi nomi a ripetersi in diverse antologie tra i due millenni, poi più poco, niente.

Per pigrizia, alla prima lettura salto sempre la prefazione. Chiara, la prima sezione, cita Einstein e i quanti di luce. Mi getto rapido sul testo, forse più che pigrizia è delirio di onnipotenza e totale fiducia nei miei mezzi, o il gusto sadico di distruggere, di farla finita presto:

Era stato il telefono,
quando la pioggia
era tutta ormai
spaesata tutta, a partire
dalla finestra amara
tra le venette
degli stipiti.
Era stato il telefono,
quando si infilava
come serpe tra
i nostri orecchi.
Era stato questo
uso del verbo
imperfetto.
La corrente
elettrica
passa per
i fili, dici che
ci possa aumentare
il voltaggio d’affetto?
Poi la pioggia
– sillabando –
sdrammatizzò.
Quella stessa.

Santi e Loi

Qualcosa non mi torna. Bella, strana però: le ripetizioni; «questo/uso del verbo/imperfetto»; e più di tutto «il voltaggio d’affetto», mi stona, mi dico: che c’entra? troppo, troppo. Leggo oltre e ritrovo questo patetismo, il suo reiterarsi insistente, quasi imbarazzante. Ma perché? Mi confonde, dato il resto, ovvero, tutti quegli elementi freddi, chiari, violenti quasi, ma anche l’uso del ritmo e del verso, non sono qualunque, non sono raffazzonati. Non può cadere così, all’improvviso, casualmente. Non manca la delicatezza, la naturalezza, spiazza, l’amore non è mai facile dirlo. Mi torna in mente la sconcertante fragilità della poesia di Penna, che non sai mai come prenderla se non così, tutta. Poi una poesia come scritta da Pessoa sulla finzione del poeta e una poesia in dialetto che parla di un incontro, una polaroid insieme a Franco Loi, questo sorride, Santi è un giovane poeta aduna cattedra, sembra un po’ timido, forse felice. Punctum: quei microfoni, quei libri coi segnalibri, la bottiglia di acqua minerale, ma anche il volto sfocato del giovane poeta, li riconosco, mi commuovono.

Torno indietro. Voglio leggere cosa ne pensa Scaffai, parla di «canzoniere “scanzonato”», come nei quanti «il discreto è anche continuo», e della relazione tra parole e cose, di come queste sono «segnacoli». Ricomincio dalla seconda sezione, e cambia tutto. Memorie dallo schermo di vetro, cita Don DeLillo: “Non ricordo altro che il televisore lassù, appena sotto il soffitto, rivolto verso di noi”, ricordo il gigantesco Mivar a casa vecchia, leggo:

Come stando al citofono
i nubifragi non fanno paura e l’acqua scola
fra le ringhiere metalliche
e si mescola
alle parole – dentro
al citofono – arrivando
dal fondo suoni di cartone lacero.
Così arriva
la televisione
a Napoli, nel ’55, a dicembre: lo comunica il giornale,
San Giuseppe e i buoi.

Seguono una serie di doppi in confusione: vero/falso; dentro/fuori; reale/virtuale; lirica/macchina o umano/macchina o noi/loro, gli «elettrici», ma anche natura/uomo; ieri/oggi; distante/prossimo. Come in un «bazar archeologico» [Celati], una serie di didascalie, un eccesso straniante, Scaffai scrive «tra polemica e elegia». Sono pochi i poeti che riescono a rendere necessario un eccesso, penso a certe poesie di Luigi Di Ruscio. Quando invece, la terza sezione, Lapidario degli incipit, ci porta nel cimitero del poeta, un eccesso al contrario, lo scarto inserito, come un ready-made, il riciclaggio dell’incompiuto, l’omesso: una poesia inizia e finisce così: «Signori, è morto Agnelli…», e una serie di puntini a dire il sospeso. L’ultima è Oltre, giustamente, come Dopo di Pagnanelli: una prosetta e una nota finale (che «si autodistruggerà in 10, 9, 8…»): «Non esistendo più, temo, un “reale” pubblico della poesia (ma questo l’aveva già intuito Paul Valéry in tempi non sospetti), non posso che concepire la poesia come profondo gesto di amore/amicizia». Mi devo fermare, devo ricalibrare, riflettere. Questo libro, lo rileggo, torno sui versi, sulle scelte lessicali, alcune immagini impressionano, alcune idee ritornano, ci ripensi, ma anche solo alcune parole.

Dopo alcuni giorni di riflessione, è Natale e non sembra per niente, è Capodanno e potrebbe benissimo non esserlo, mi sento stanco. La noia e la stanchezza mi trascinano verso il disprezzo, per la poesia e i poeti ovviamente:

«Detestare le poesie può quindi essere o un modo di mostrare, al negativo, la poesia come ideale – cioè un modo di esprimere il nostro desiderio di esercitare quelle capacità immaginative, di ricostituire il mondo sociale – o una reazione rabbiosa contro la semplice idea che un altro mondo, un’altra scala di valori, sia possibile. […] I grandi poeti sfidano i limiti delle poesie reali, sconfiggono strategicamente o quantomeno sospendono quella realtà, a volte smettono del tutto di scrivere e vengono onorati per il loro silenzio; i pessimi poeti lasciano inconsapevolmente intravedere un barlume di possibilità virtuale grazie alla loro assoluta incapacità; i poeti d’avanguardia odiano le poesie perché restano poesie invece di diventare bombe; e i nostalgici odiano le poesie perché non fanno più ciò che loro, a torto, sostengono facessero un tempo».

La copertina
(foto di Alessio Bongiorni)

Così Ben Lerner in Odiare la poesia, e mi dico: basta con le cazzate. «Cazzate» è un termine tecnico, come già ricorda Guido Mazzoni, e rimanda alla riflessione di Harry Frankfurt sulla logica della discussione culturale contemporanea, che è destinata a moltiplicare le idee approssimative, i concetti generali rozzi, in un’epoca nella quale la divisione del lavoro, la complessità e l’aumento delle conoscenze specialistiche rendono impossibile cogliere ragionevolmente il senso dell’intero. Così in poesia: tutti quei maldestri tentativi di superare la banalità, la ricerca affannosa dell’interessante, del colto. Come se non fossimo dei poveri cristi, come se non sia una guerra fra poveri, come se sia un tabù. Perché mi scandalizza il patetismo di Santi? Questo dire «tu, io», il rivolgersi alle macchine, alla tv, e poi alla stessa poesia, agli escrementi di questa. Perché sono oberato di cazzate, di cazzate poetiche. E sarebbe solo frustrazione (nobile sentimento) se la cosa non generasse un problema maggiore. Nell’abbondanza di cazzate diviene difficile riconoscere il vero dal falso, il bello dal brutto, diviene un problema estetico, e tutte le categorie mancano, e tutte le versioni sono buone, contro ogni principio di non-contraddizione e strizzando l’occhio al bipensiero. La frustrazione permanente nei confronti della baraonda è un problema. Non dico che sia qualcosa che riguardi Santi, non lo conosco personalmente, ma torna il silenzio fra quelli che hanno scritto poesie e poi si sono dati alla prosa, immersi in questa, avuto i loro successi, e poi sommessamente tornati ai versi, a volte come per gioco, altre volte, appunto, come gesto, e i risultati si vedono. Per chi studia la poesia recente diventa un problema l’automutilazione, il mutismo deliberato: «Non esistendo più, temo, un “reale” pubblico della poesia (ma questo l’aveva già intuito Paul Valéry in tempi non sospetti), non posso che concepire la poesia come profondo gesto di amore/amicizia». Forse è proprio questo che fa emergere il libro di Santi, il «gesto profondo», la lontananza da quella chimera del pubblico della poesia, che molti ancora rincorrono e che invece è solo lo spaccato di «amici» che si ha su Facebook, ben scelti. Altra riflessione: la differenza tra la parola «amicizia» usata da Santi e gli «amici» dei social, una differenza sostanziale utile, forse, anche come scala di valore per l’analisi della poesia stessa.

«Ma non scrivi più poesie?».

No, rispondo. Non ne scrivo più. Però ne ho scritte molte che non sono mai confluite in un libro organico – uscite su riviste, antologie, online, lanciate persino da un aereo. Tra quelle sono state scelte queste – residui, trucioli, frantumi di un’era che per me è geologica. (Quella della scrittura di poesia, intendo, perché la lettura, interpretazione, traduzione di poesia prosegue ed è vitale.)

«L’unico discorso legittimo è quello della perdita; prima cercavamo di rinnovare ciò che si era esaurito, adesso cerchiamo di resuscitare ciò che è defunto», scrive Goldsmith. Allora sembra vitale questa poesia, la poesia di Santi: quelle storture erano, sono fastidiose e belle, reali, del “paese reale”, nostre davvero, da resuscitare.

 

Flavio Santi

Flavio Santi (1973) vive in campagna tra il Pavese e la frazione friulana di Codugnella. Traduce autori classici e contemporanei, e insegna all’Università dell’Insubria di Como-Varese. Ha scritto diverse raccolte di poesia, tra cui Rimis te sachete/Poesie in tasca (Marsilio, 2011), Mappe del genere umano (Scheiwiller, 2012). Ha scritto vari romanzi, tra cui L’eterna notte dei Bosconero (Rizzoli 2006), Aspetta primavera, Lucky (Socrates, 2011, candidato al premio Strega); e di recente la serie gialla dell’ispettore Drago Furlan, La primavera tarda ad arrivareL’estate non perdona (Mondadori 2016; 2017).

 

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