“Tagliarsi i capelli”. Un racconto di Giuseppe Rosato

 

Giuseppe Rosato

“Dovresti tagliarti i capelli”. Si era dunque già all’invito esplicito, per quanto condizionale. Prima c’era stato il suggerimento interrogativo (quando te li tagli i capelli?). Maturava perciò il tempo in cui doveva andarseli a tagliare sul serio. Un fastidio. Altro tempo perso. Più inutilmente di tutto l’altro? Obiettivamente no. Forse sotto sotto agiva il desiderio di mantenersi libero da uno almeno dei tanti obblighi. C’era però sempre chi glieli scambiava per pretesa di stare alla moda, quella ch’era soltanto una volontaria trascuratezza. Peggio chi gli trovava un’altra motivazione, di volersi in quel modo dichiarare poeta. Tu vuoi fare il poeta. Più di ogni accusa reale, questa gli coceva.

Eppure, guardandosi adesso nello specchio, mentre si asciugava la faccia, i capelli gli stavano bene, così lunghi. O forse così già non più: ma fino a poco prima di quel punto, fino a tre o quattro giorni fa: cogliendosi quasi per caso nello specchio dell’ascensore, si era visto in una inquadratura esatta, prima che zone troppo piene appesantissero l’insieme rendendolo lezioso e artefatto, e dopo che gli si erano rinfoltiti i vuoti lasciati dal taglio fresco sopra le basette e nel basso occipite, che mettevano in risalto la forma irregolare, un poco infantile, della testa. Ma a questo punto, dov’era arrivato, incominciava proprio ad essere tempo. L’invito della moglie, seppure non ancora imperativo, aveva il suo peso e le sue ragioni.

Pensò che sarebbe andato la mattina stessa, o al più tardi nel primo pomeriggio. Metteva intanto a posto gli attrezzi della rasatura, lavava senza toglierla dalla macchinetta la lama. Anch’essa stava sul punto di oltrepassare lo stato di grazia. Altro fastidio, ricominciare con una lametta nuova e subirne sul viso i capricci. Ogni lama andava sperimentata con cautela, occorreva quasi domarla, far sì che si adattasse ai percorsi. Ogni volta quella iniziazione gli costava qualche goccia di sangue, e qualche sgranatura continuava a prodursela poi qua e là anche la seconda, la terza volta. Soltanto dopo, tra la quarta e la quinta, la lama era al suo rendimento migliore. Che durava per parecchie altre rasature, migliorando anzi come se il filo invecchiando diventasse più docile.

Gli era capitato spesso di riflettere sulla cosa. Del resto che altro di meglio si può pensare, radendosi? Una lama poteva essere come un libro, un buon libro che non ti dichiara subito la sua disponibilità, alla prima pagina, quando ti sembra anzi del tutto nemico, barricato dietro ragioni estranee, incomprensibili. Ti si apre cosicché un poco alla volta, e in qualche caso all’improvviso, quando non ti accorgi più di alcun peso e ti trovi a dire: ecco che ci sono dentro. E da allora le pagine filano come se fossi stato tu a scriverle. Il libro può durare fino alla fine, la lama invece a un certo punto si rifiuta di andare avanti e devi allora domarne un’altra. Per quella lama il tempo era giunto. Sei alla fine della tua pista, si trovò a dirle, mimando il personaggio di un fumetto che leggeva il figlio e non di rado anche lui.

Dal barbiere ci sarebbe andato al ritorno dal centro, prima di pranzo. Avrebbe voluto farcela, per non intaccare già con quell’appuntamento il campo libero del pomeriggio. Avviata la macchina, si palpò nel taschino della camicia e ne tirò fuori un foglietto, gettandogli uno sguardo angustiato. Casa posta cambiali assegni banca università falegname. Pensò che doveva aggiungere barbiere, ma a quel punto ormai se ne sarebbe ricordato senza scriverlo. La sua repentina ma crescente paura di scordarsi le cose da fare. La sera un martirio, quando non poteva più fare niente e proprio allora la testa gli traboccava di scadenze, di impegni e appuntamenti anche minuti, anche trascurabili (a non tenergli fede non sarebbe successo granché, inutilmente cercava di ripeterselo per convincersene), che era certo avrebbe dimenticati al mattino seguente. Sul tavolo, che aveva trovato posto a fatica nella camera da letto, il foglietto quotidiano degli appuntamenti s’infittiva, fino alla sera. Talvolta si alzava dal letto per controllare, o un aggiungere un nome frettoloso, col primo strumento che riusciva a trovare. Ma penne e matite nella sua casa sparivano, si stregavano, con figli e compagni dei figli sempre a scarabocchiare fogli; doveva allora aprire l’armadio, il vecchio armadio della prima camera nuziale che adesso era finito lì nella casa del mare, e cercare la penna dentro la tasca interna della giacca, estrema riserva che non lasciava mai sguarnita. E la moglie caramente lo rimproverava, gli diceva che gli avrebbe ricordato tutto lei, che dormisse infine. Che la lasciasse dormire, voleva certo dire; e lui lo sapeva ma era più forte di qualunque proposito quell’appiglio alla memoria scritta, di qualunque tentativo di ragionarci su, di ripetersi che si comportava come un maniaco.

Alla fine di luglio, libero non da molto dalla scuola, aveva già, o ancora, le mattine piene. E per giunta di quelle stupide cose che mai avrebbe voluto far contare. Lasciò il vialetto della casa, varcò il cancello, sterzò a destra sul lungomare. A quell’ora la riviera era già quasi satura, fin là si portavano le macchine uscendo dal centro alla ricerca di un pezzo di spiaggia tranquilla, che non c’era. Parcheggiavano lungo il marciapiede, a stretto contatto, al sole. Rimettersi dentro dopo quattro, cinque ore doveva essere tremendo. Eppure tanti continuavano a farlo. Non dovevano avere alternative. Lui aveva trovato quell’appartamentino sul mare, ma era buono per i ragazzi, per la moglie, perché lui sembrava che non potesse fare a meno della città. Anche di questo la moglie lo rimproverava, ma era facile dirlo. Quei pensieri non poteva tenerseli appesi dietro per tutta la giornata, preferiva andarseli a scaricare subito, rimettendoci benzina e sudore, e bellissime ore di mare.

O di altro lavoro? La verità (la risposta) lui la sapeva, la teneva ben chiara. Quale lavoro altro si poteva mai fare in una casa così provvisoria, con i rumori dell’estate tutt’attorno, dalla strada e dalla spiaggia, e dalla casa stessa, zoccoli di bambini, giradischi dei ragazzi, parenti di continuo in visita, tanto, non era vacanza? Ma vacanza da che. Più ci pensava più gli veniva rabbia ma impotente, quindi un tormento, una pena. Vacanza da un mestiere ufficiale, la scuola, questo sì: ma quale vacanza mai consentiva l’altro mestiere? Nessuna, e per il semplice fatto che quel mestiere non lo faceva, non riusciva più a farlo, da tanto. Non ci si può mettere in ferie da un lavoro che non si fa. La riflessione gli parve buona, da annotare. Con l’abituale carica di autolesionismo di cui si rendeva volentieri vittima. Non riusciva a farlo, l’altro mestiere, e intanto ne soffriva, fino a diventarne nevrotico. Non riusciva o non voleva? Ed era perciò che si cercava alibi? Ragioni per evaderne, per perdere tempo.

F. Davoli, Vaso e finestra, 2018

“Ciao, mi stavo preoccupando”, l’amico impiegato della banca.
Aveva capito, o no? Finse di no, abbozzò un sorriso di attesa.
L’amico: “Non ancora ti vedevo, stamattina…”. E poi, quasi con serietà: “Tu frequenti troppo le banche, stai pigliando una brutta strada”.
Era vero? Tra due giorni sarebbe dovuto venire lì di nuovo per la rata del mutuo della casa. Che fosse quella la sua vocazione latente? Gli tornò in mente l’amico lontano di tanti e tanti anni prima, quando riceveva piccolissimi assegni per le collaborazioni a tutta una serie di giornali e giornaletti, umoristici, enigmistici, per bambini. “Il figlio dello cheque”, lo chiamava allora l’amico, parodiando, come in quel tempo tutti e due erano bravissimi a fare. Quanto tempo era passato? Adesso riempiva moduli, convertiva assegni, altri da spedire ne ordinava, al padrone della casa del mare, al fornitore della moquette per l’ingresso della casa di città. In quel tempo lontanissimo sentiva davvero l’imbarazzo di entrare in una banca, ma era forse che quegli assegni così piccoli si vergognava ad esibirli per il cambio. Se li portava a lungo in tasca, in attesa che si moltiplicassero ingrossando in qualche modo la somma globale, almeno. Ma era ancora un ragazzo, o poco di più.

In città, alle undici, il traffico dava spettacolo. L’estate era piena e per quella città fluviale il transito si obbligava sui due ponti, per autotreni, autocorriere, roulottes, automobili straniere. Oltre al traffico interno, s’intende. Farsi strada fino all’università, trovare un posto, correre dentro l’istituto, mettere tutte quelle firme per la chiusura dei verbali. Riprendere la macchina, sperando di non trovarci il foglietto del vigile per la sosta abusiva.

Il falegname aveva smarrito il bozzetto della porta da collocare tra la cucina e il tinello. Uno sciagurato del diavolo, che la stava portando in lungo da Natale, per quella porta. Rifecero insieme il disegno, ma occorreva prendere di nuovo le misure. Domani mattina, perché ormai per il falegname era tardi. “Professò, a mezzogiorno a noi arriva la fame”. Va bene domani. Appena in macchina avrebbe dovuto appuntarselo. Se non si approfittava dell’estate, che non si stava in casa, per far colare la campana di quella porta, c’era da star certi che per l’autunno e l’inverno sarebbe stato tutto al punto di prima. E quella porta ci voleva, un ospite non lo si poteva mettere a forza di spalle, per non fargli guardare dentro la cucina.

Nella cassetta della posta un avviso di raccomandata.
Un altro inconveniente della residenza estiva sul mare.
La raccomandata bisognava andare a ritirarla alla posta centrale. Dalle ore nove del dì seguente. Domani, allora. Doveva annotare anche questo, ora che sarebbe salito in casa a controllare, dare un’occhiata qua e là, portare una foglia di lattuga alla tartaruga.
”La signora sta bene?”, la padrona della rivendita di frutta e verdura sotto casa. “Tanti saluti”. E poi: “Niente, niente!”, quando aveva chiesto quant’è per lo spicchio d’insalata. Costava anche a lei, alla fruttivendola, la sua permanenza al mare. Le aveva sottratto belle migliaia di lire al giorno, era una famiglia che consumava, la sua, adesso a vantaggio di quel ladro di Tonino, il toto-negoziante del mare che vende tutto a prezzi da galera. La Bettina invece faceva buon viso a cattiva sorte, e aspettava con pazienza il rientro della sua famiglia dal mare, a settembre. “Vuole anche un pezzo di pomodoro? Alla mia tartaruga glielo do sempre”. Su per le scale, cercando di fornirsi un sorriso naturale ed esplicativo, per quelli che lo incontravano con mezzo pomodoro e un ciuffo di lattuga in mano.
La mattinata era andata, che vuoi più tagliarti i capelli.

“Devi tagliarti i capelli”, le disse puntuale la moglie al rientro, e dunque il pomeriggio non poteva lasciarlo passare. Si era all’imperativo. Sul presto (appena alla riapertura) sperava di non trovare gente. Ma doveva tornare in città, dal barbiere sotto casa, perché quello del mare l’avrebbe trovato pieno in qualsiasi ora.

F. Davoli, L’uomo che aspettava la primavera, 2018

“Mi taglio i capelli e torno. Vorrei lavorare un poco, oggi”. Il bravo della moglie. Il mezz’abbraccio consueto, di saluto. I bambini già sulla spiaggia, i ragazzi con gli amici, nel giardino della villa accanto. Via dal barbiere senza troppi intralci, a quell’ora calda. “Sono cresciuti un po’, dottore”. La solita frase di benvenuto, ma anche di “venuto tardi”. Anche ad uso del barbiere le ragioni note, la trascuratezza, la mancanza di tempo. “Non è che volete seguire la moda?”. Ma quale moda. Può darsi pure che stia pensando, il barbiere, che c’è un’altra ragione per lasciarsi crescere i capelli, di non sborsare i soldi per il taglio. Non può dirlo ma lo pensa. “Nemmeno i ragazzi ho più visto”. Sembra la conferma di quel pensiero. Anche per i figli capelli lunghi e soldi risparmiati.

Il fastidio di stare dal barbiere è anche questo, di dover impiegare quel tempo giocoforza scambiando con lui qualche parola. La volta scorsa gli aveva parlato della sua nuova moglie. L’aveva presa che non erano neanche sei mesi dalla morte della prima. Chissà di che cosa vorrà parlargli oggi. Invece tace. Per un buon po’ di tempo si sente solo il rumore secco e ritmico delle forbici. “Mi rubava perfino lo zucchero”, all’improvviso. Chi rubava lo zucchero? “Perciò l’ho dovuta togliere. Un’estranea in casa è la rovina. Io devo stare a bottega, non posso fare la guardia alla donna di servizio”. Ecco perché s’era dovuto risposare così presto, si capisce che tiene a giustificarsi. “Lo zucchero mica a scatole, che posso tenere le provviste di zucchero in casa, io?”. La tovaglia toltagli di dosso e scossa fa cadere una quantità impressionante di capelli.
Il difetto di questo barbiere è che quando ci si trova taglia e via, senza nemmeno pensare che lede al proprio interesse. “Mi si prendeva lo zucchero dalla zuccheriera, che quanto ce ne può stare, tre, quattro cucchiai, eppure se lo pigliava”.

Il taglio gli sembra eccessivo, si aggiusta alla meglio allo specchietto dell’automobile, con le mani. Il barbiere non lo pettina come lui vorrebbe e poi quando il taglio è fresco i capelli non gli si reggono. Ci vorranno almeno dieci giorni prima che la testa gli riprenda forma, meno male che non lo vedono le alunne. Ma quello è, intanto, il taglio che piace alla moglie. Glielo ricorda ragazzo, è chiaro, dei primi giorni in cui s’erano conosciuti e se ne andavano in giro così, a capelli scoperti, perfino sotto la neve. Allora i capelli lunghi non li portava nessuno, e poi il barbiere del suo paese usava la macchinetta col rialzo, mica andava per il sottile con la punta delle forbici.

“L’uccellino spiumato, il mio uccellino spiumato!”, infatti la moglie, felice davvero come una ragazzina, non appena rimette piede a casa. Egli se l’aspettava e si è preparato una specie di broncio. Per dignità, diamine. “Venite a vedere papà, papà con i capelli tagliati”. Anche la convocazione ufficiale, della sacra famiglia. E il più piccolo, con una delle sue uscite incredibili: “Papà nudo!”. Dai grandi, invece, il giudizio serio, e severo. “Papà, ti sta proprio male. Come ci hai pensato?”. La famiglia è questo, si trova a pensare. Non ne esci. Come fai a sottrarti, a fare cosa a te stesso? Hanno bisogno di te anche come cosa fisica, su cui saggiare i propri gusti e i propri pareri. Entra nella stanza da letto, guarda la scrivania da campo con la sua brava portatile, incomincia di nuovo a riepilogare. Domattina la posta, il falegname. Dopodomani…

Si affretta a trascrivere gli appunti su un foglietto, lo stringe tra i denti di una grossa molletta fermacarte.
”Ti metti a lavorare?”, la moglie, pronta per scendere sulla spiaggia. Dovrebbe sì mettersi a lavorare. Accomiata la moglie, si siede. Tira fuori dal cassetto il quaderno dentro la cui copertina solida viene infilando appunti di altro genere, progetti di opere diverse, o semplici annotazioni, primi versi di poesie. Cerca di concentrarsi. Sotto la finestra, nella piazzetta tra la casa e il recinto, si sono sedute le signore del piano di sopra. Sua moglie s’è fermata con loro, rinunciando alla spiaggia. Accosta le imposte, ma le voci passano. Le chiude, ma si sente mancare l’aria. Apre la porta. I figli delle signore del piano di sopra stanno nel soggiorno della sua casa, fanno un gioco coi fucili, ogni tanto qualcuno strilla che è morto.

Riapre la finestra lasciando aperta la porta, pensando che così le voci si mescoleranno perdendo di significato, quanto basterà a non tenerlo legato ad un filo di parole logico, a cui la mente senza volerlo va fatalmente dietro. A voci interne ed esterne si unisce il rombo del traffico sulla litoranea, che a quest’ora è cresciuto e fa le solite pazzie. Richiude tutto. Dovrebbe affrontare il saggio su quel narratore, s’è portato appresso anche qui i libri con le pieghette sui fogli che contano. Ma dopo tre anni bisognerà rileggere tutto, verificare le impressioni ormai invecchiate. Potrà farlo sulla spiaggia, questo primo lavoro di rilettura. Domani però, adesso la spiaggia è umidiccia, può fargli male al rene. Aveva promesso una conferenza sulla poesia molisana,  a proposito, agli amici del circolo di… Dovrà recarsi in biblioteca per documentarsi. È aperta, in questo periodo, la biblioteca? S’informerà. Oltretutto sono soldi, quelli là pagano e benino. Ma perché ricadere in questo genere di lavoro, che non ama?  Scrivere di ciò che hanno scritto gli altri gli mette malanimo. Lui deve scrivere per scrivere, cioè per dire cose sue, racconti, romanzi, tanta roba che ha in mente, che si porta nella testa da chissà quando.

Scrivere cose serie, scrivere seriamente. Ma occorre avere fiducia, prima di tutto nella propria salute. Incominciare un romanzo, che chiederà forse due, forse tre anni, presuppone la certezza di campare tutto quel tempo. Cinque giorni, sei, per scrivere un racconto filato, è invece plausibile trovarli. Ma domani mattina c’è la porta da assodare, e occorrerà rientrare. Una volta spezzata, la giornata è finita. Dopodomani la banca, per il mutuo. Bisogna anzi che se lo appunti, subito. Ma poi, comunque, il tempo tranquillo dovrà pur finire per venir fuori. Tanto, non è mica questione di oggi o di domani. Per queste cose non c’è urgenza. Sul foglietto degli appunti trova scritto giornale

F. Davoli, Amici al bar

 

 

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