Una nuova rubrica. Fatta a minimo due voci: una chat. Che vuol gettare uno sguardo nel “dietro le quinte” di ogni esperienza artistica o intellettuale. A cura di Filippo Davoli.
Si comincia con Ludovico Peroni e la sua opera sperimentale “Il sognatoio”, il cui cd è stato appena pubblicato.
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Filippo Davoli – Ludovico, sei un folle. Solo tu potevi concepire un’opera in nove scene partendo da una mia poesia. Che poi non sai: quella mia poesia, quando l’ho scritta, a me ha recato una sensazione di dolcezza e non di spavento. Come un sogno… per questo, una volta di più, mi ha fatto specie che tu abbia chiamato l’opera “Il Sognatoio”…
Ludovico Peroni – Spavento?!? Macché spavento! Tu Filippo nella mia musica vedi spavento? A me quella poesia ha ricordato l’infanzia, pura e sincera, anche nei giochi dal significato terribile. La stessa infanzia che vedo negata al personaggio immaginario de Il Sognatoio…
FD – Esatto. Sono i grandi, che rielaborano la semplicità e si fanno degli spaventi nel cervello. È così. Ecco, un po’ da sempre – anche prima de Il Sognatoio, intendo – ho avuto netta la sensazione di una speciale empatia con te. I nostri linguaggi sono diversi (almeno fino a quando non mi deciderò a riportare in luce il mio punto di partenza, che era nella musica e non nella poesia), eppure io sento una straordinaria sintonia con te.
In genere, non so dire perché, i bambini familiarizzano con la morte. Con gli angeli, per esempio. È naturale, per loro. E alcuni – i santi e i poeti – continuano anche da grandi. Pensa a Franco Loi! Ha intessuto un dialogo potente con la concretezza della carne e contemporaneamente con l’angelo, a cui ha dedicato uno dei suoi libri più belli. Ma non voglio mettermi in questo, sennò non si finisce più: Rilke, Dante… no, non conviene. Non in questa sede, almeno.
Raccontami Il Sognatoio: ci sto dentro fino in fondo eppure ne so poco. Dietro le tue quinte, almeno. Raccontami la genesi di questo gioiellino…
LP – Sorrido perché dico sempre che “odio i poeti”, ma amo la poesia…
Mi ritrovo a parlarci, spesso la notte, e mi comunica sempre qualcosa. A volte questo “qualcosa” è una musica. Anche per questo lavoro è stato così, con la tua poesia.
Però, non so perché, mi riportava all’immagine di un bambino ebreo che, per la prima volta, ha ascoltato un discorso di Hitler. Secondo me per il bambino è stata un’esperienza affascinante e terribile allo stesso tempo. Un po’ come quel tuo gioco…
FD – Spero che tra i poeti non odi pure me… e poi non sai quanto mi suoni familiare l’accostamento che fai. Certo, c’è da dire che hai avuto l’incommensurabile fortuna di imbatterti in un ensemble di musicisti coi contro-c. che te le appoggiano tutte… sto riascoltando proprio ora l’opera intera. C’è una sintonia fantastica tra tutti. Tra tutto. Un piccolo miracolo di grazia. Non mi stupisce che te l’abbiano premiata ovunque.
LP – Vedi: voi poeti esagerate sempre! Ha ricevuto solo un premio, ma del quale vado molto orgoglioso: “Teatro musica e Shoah” del Centro Romano di Studi sull’Ebraismo. E per una partitura così sperimentale è stata davvero una sorpresa!
Ps: No che non ti odio, lo sai
FD – Pre scriptum: certo che lo so. È che non ricordavo come si chiamava il premio…
Tu sei un po’ come me, “cotta e magnata” si dice da noi, come sai. Sei rapido, istintivo. Un “animalone” con un intuito formidabile, un “inventore” nell’accezione latina. Eppure con un controllo rigidissimo, quasi cinico, della materia da lavorare (la musica, una sua trama, anche una sua minima pausa). È un procedere tipico, per me che faccio più o meno lo stesso con la scrittura. Ma magari ai lettori sfugge completamente, questo doppio registro della composizione…
LP – Sì, forse è vero: la composizione, come processo, rimane un’arte oscura. C’è ancora l’idea della “divinità che ti parla”. Però, come dici tu, è come con le parole: c’è un livello di grammatica e sintassi che bisogna conoscere, c’è un suono che si deve seguire e intuire, un livello simbolico e di significati che si può scegliere di comunicare o meno. Però sono del parere che a parlare non devono essere concetti troppo astratti: la musica è qualcosa di concreto che deve, letteralmente, toccare chi la ascolta. Per questo cerco sempre di far provare un’emozione; magari la stessa che provo io nel comporla.
A me piace molto ad esempio la parte di te che trovo nelle tue poesie: attaccato al passato, ma senza malinconia; vicino alle cose semplici che, attraverso le parole, risplendono di una luce nuova…
Come ci riesci?
FD – In realtà non ci riesco. Diciamo che si dà. Però non bisogna equivocare, perché ovviamente a monte c’è sempre una inesausta curiosità che spinge a incontrare i libri altrui e a farsene saziare oppure a farsene interrogare, è come un dialogo perenne che non si sazia mai del tutto ma spinge sempre a incontrare nuove voci nuove esperienze nuove tracce. Anche se le opere magari appartengono ai classici, non sono necessariamente ed esclusivamente nuove in senso temporale. Poi ci sono anche periodi molto lunghi di silenzio in cui la voce viene ruminata e si incarna nella quotidianità, offre Quando meno te ne accorgi delle chiavi di lettura, di interpretazione del reale. Ma non è mai un progetto studiato a tavolino, una strategia per così dire, bensì tutto si dà come dicevo all’inizio, si dà da sé è come una chiamata, una vocazione.
Se non si dà questa chiamata, ci si può appassionare per motivi culturali intellettuali. Ma se si dà la chiamata, lo studio diventa una responsabilità, una necessità, per poter offrire al sentire occasioni adeguate di scrittura. Verrà poi il momento di scrivere? Non lo so. Estote parati. Bisogna tenersi pronti.
Per te con la musica è la stessa cosa?
LP – Non saprei dirti: non sono così ordinato da avere un procedimento standardizzato durante il processo creativo.
Sono abbastanza onnivoro, disordinato e sono un insaziabile amante di quello che chiamo lo “sviluppo trasversale”.
FD – Che sarebbe?
LP – Beh, praticamente si traduce nell’interessarsi di argomenti e campi dell’umano che spesso sono lontani o complementari al tuo diretto campo d’azione. Un po’ come vedere i problemi dall’esterno, come un perenne outsider.
Ho sempre adorato poter sentire una casa con gli occhi di un musicista, progettare una composizione con la testa di un poeta o vedere la musica con il cuore di un architetto!
FD – Anche per questo, probabilmente, ci assomigliamo. Tu non lo puoi sapere, ma uno dei ricordi migliori della mia prima giovinezza è legato alle lunghe chiacchierate notturne col mio amico Marco, tra poesia e architettura (lui studiava Architettura)… Vedere una casa di Le Corbusier con gli occhi di un poeta e una poesia di Vittorio Sereni con gli occhi di un architetto… Era avvincente, scoprire quelle prossimità… E poi è divenuta anche la linea di poetica di “Ciminiera” cartacea e di “Nuova Ciminiera” a seguire. Ma torniamo alla tua opera…
LP – Hai ragione, non divaghiamo troppo che poi si fredda il caffè!
FD – Come hai lavorato con l’orchestra? Dalla partitura alla chironomia, per capirsi.
LP – La scrittura che ho utilizzato per l’opera è “aperta”: cioè ci sono delle parti scritte rigidamente e delle parti più interpretabili, fino ad arrivare a momenti in cui l’improvvisazione prende il sopravvento sulla scrittura.
L’improvvisazione è guidata da una mia gestualità con una propria grammatica: così tutto l’ensemble produce improvvisazioni nelle quali si percepisce uno sviluppo guidato da un pensiero definito e direzionato. I tempi e gli interventi risultano così coesi e protesi verso un unico intento comunicativo.
E qui sta la particolarità del lavoro di QRO: produciamo musica sperimentale, ma in una forma accessibile e piacevole anche per i “non addetti ai lavori”.
A te, che so che non ami molto l’estetica post-moderna o la musica contemporanea, che effetto ti ha fatto ascoltarci?
FD – Sono due cose diverse: la musica contemporanea ha prodromi in epoca tutt’altro che post-moderna. Risponde anzi ad un’esigenza, almeno teorica, di rompere un cerchio, di valicare un limite: che da un lato può rappresentare una tentazione serissima, ma dall’altro è anche un anelito a scevrare la musica da ogni codificazione pregressa, sia pure creando inevitabilmente un altro tipo di codificazione. Però è un interessante processo, che richiede soltanto un ascolto più centrato (insieme a qualche motivazione estetica in più). La contro-epopea post-moderna, invece, a me pare piuttosto furba… e per questo mi convince poco…
Per quanto riguarda te, voi, senza esagerare ma a me pare che abbiate operato una sintesi importante tra quel superamento della forma e l’armonia che è invece propria dell’umano e dalla quale scaturisce la bellezza: il problema dell’ascoltabilità, che è anch’esso una rottura del cerchio, sigilla – nella resa pratica della tua partitura – una sorta di riuscito ritorno alla carne, una sintesi compiuta, e in maniera attendibile, efficace.
Questo lo dico sia da ascoltatore occasionale che da ascoltatore implicato: funziona. Credo sia la strada giusta. Finalmente.
LP – Cavoli! Non ti facevo così informato su questi versanti musicali! Io conoscevo la tua passione, viscerale, per Mina il jazz la popular brasiliana e per il cantautorato…
FD – Ti ricordo che sono allievo di Claudia Colombati e mi sono laureato in Storia della Musica…
LP – Mi fa molto piacere riuscire a intessere un discorso, una linea di ascolti, che possa riunificare delle sensibilità musicali così, apparentemente, distanti. In realtà io non ho mai fatto nulla se non per un’urgenza espressiva, per un desiderio profondo di comunicare. A volte ho fallito perché quel desiderio era molto “autocentrato”, quasi narcisista. Mi piacerebbe trovare qualche volta nell’arte quella vocazione all’altro, alla società, a una sorta di bene comune, che da qualche decennio si è proprio persa. Per molti questa suonerà quasi come una dichiarazione politica, ma io la vedo più come un’esigenza tanto umana…
FD – Come suonerà per gli altri non lo so. A me dà soddisfazione, perché anzitutto è una dichiarazione di poetica che condivido pienamente. Credo infatti che sia il vero “quid” non solo dell’arte, ma della vita stessa: rompere il cerchio, “intromettersi in un retrobottega”. Proprio come stiamo facendo noi adesso…