Ha visto la luce sabato 26 settembre presso i locali del neo-rinominato Palazzo della Ragion Sommaria, della Chiesa della Misericordia e della Pinacoteca Comunale di San Severino Marche la mostra “Remo Scuriatti, fotografo e pittore”, evento tanto atteso dalla comunità artistica e cittadina a motivo dell’inesorabile fermo imposto dalla pandemia durante la passata primavera quando l’esposizione avrebbe dovuto esordire.
Sin dal piacevole pomeriggio inaugurale passato nella suggestiva cornice del Teatro Feronia e, subito dopo, nei luoghi adibiti all’esposizione, si sono voluti fissare i termini specifici per il riscatto di un’opera artistica, quella del Pittore, che, suo malgrado, per diverso tempo non è stata a dovere ed in toto ricomposta ed esposta.
La mostra si è prescritta come fine la riabilitazione del “settempedanissimo Artista” a discapito di quella damnatio memoriae che gli stessi settempedani, non certo con malignità d’intenti, gli ebbero – a ridosso ed anche più tardi, sul lungo periodo – tacitamente accordato. Appare invece chiaro, ora, il desiderio di redenzione di un uomo che fece della sua cittadinanza nel comune di San Severino la sua prima, autentica, quotidiana cifra stilistica di vita. La città torna sui suoi passi per riscoprire finalmente sfaccettature inedite di quel nemo profeta patrio che circa il profilo artistico pittorico fingeva di aver dimenticato. Sì, perché lo Scuriatti artista è stato da sempre tanto conosciuto fuori comune perlopiù come arguto e peculiare fotografo, quanto poco diffusamente ha risuonato la sua notevole componente di pittore dal tratto inconfondibile; la comunità locale ha così, pertanto, voluto sopperire a quel vuoto che ha lasciato dietro di sé la mostra del 2003 ad opera di Fabio Ionni sullo Scuriatti esclusivamente fotografo.
La mostra espone però, probabilmente per meri motivi di spazio, solo una minuta parte dell’immensa produzione fotografica e dell’altrettanto ingente produzione pittorica dell’Artista, quest’ultima peraltro con molta probabilità sparpagliatasi per la maggior parte allorché, post mortem, si scoprì che Scuriatti come ultima volontà – un colpo di coda non da nulla – volle lasciare in eredità alla comunità cittadina settempedana tutte le sue opere, lui che invece in vita aveva sempre preferito conservarsi in una signorile indigenza piuttosto che affidare e vendere i frutti del suo lavoro e le sue intuizioni a semisconosciuti o falsi estimatori.
Nato a San Severino nel maggio del 1900, già giovanissimo decide volontariamente che avrebbe trascorso tutto il resto della sua vita nell’amata città natale. All’età di venti anni, sicuro di ciò che il suo cuore vuole, non diviene insegnante come i suoi studi magistrali avrebbero imposto secondo la loro naturale prosecuzione, ma apre uno studiolo fotografico che gli permetterà costantemente di entrare in contatto con i compaesani e di osservare con un terzo occhio, quello dell’obbiettivo, la realtà che tanto voleva scrutare e conoscere. Vive all’insegna delle chiacchierate notturne tra amici, delle passeggiate-passerelle – con quel suo fare da bohemien e certe sue bizzarrie nel vestiario – in Piazza del Popolo, degli amori di una bella donna, di una festa di paese o di una rappresentazione teatrale in cui appare come macchia imprevedibile. Spera soprattutto in quelle visite attese nello studio presso il primo piano del palazzo che ospita il Teatro Feronia, affacciato sulla confidente piazza di paese, e trae forza ed appagamento nel contatto con la sua gente come uomo dal dialogo serio ed anche dalla chiacchierata alla buona.
Nella sua opera fotografica, trattata con estrema sintesi espositiva nei locali della mostra rispetto a quella pittorica – nonostante il titolo accordi l’epiteto di “fotografo” in equilibrata coordinazione sintattica con quello di “pittore” -, emergono il desiderio di avvicinamento ad un’umanità amica, a volti noti più o meno affabili, e la capacità di fare della fotografia stessa un mezzo potente per l’immedesimazione quasi teatrale dei soggetti in posa ed anche un momento ideale per il gioco con strumenti quali vestiti baroccamente adornati, perle ed orecchini sgargianti tipici del giorno di festa, mantelline di pelliccia, vistosi soprabiti. Ma la fotografia è anche ridimensionata a spazio del ritratto che diviene nelle mani del Fotografo un ritaglio privilegiato per la descrizione profonda, psicologica, di volti moderni, spesso profili, che dialogano con la realtà e che si svestono davanti ad una conoscenza più dettagliata di se stessi, sempre nel dialogo tra l’immortalatore e, appunto, l’immortalato.
Tuttavia negli anni ’40, inaspettatamente, alla sua vocazione fotografica si aggiunge una sincera predilezione per la pittura che, di qui in avanti, Scuriatti mai abbandonerà. Diverse le partecipazioni, quindi, a collettive e a concorsi a premi, ma quasi sempre collocati nelle vicinanze della sua terra, senza mai approdare a pubblico e critica nazionali o internazionali. Il passaggio dalla fotografia alla pittura non ha gusto di volo pindarico estemporaneo, ma di quasi atteso approdo come a voler trovare un valido cantuccio dove poter esprimere in libertà quello che i limiti del ritocco fotografico non permettevano. Porterà sempre avanti in parallelo le due attività, come simili dispiegamenti di una stessa anima, dando però una particolare importanza alla sua pittura.
Dei primi periodi figurativi, quindi, in cui emerge uno Scuriatti ancora indeciso sullo stile compositivo da prediligere, si ricordano certi esperimenti – perfettamente confacenti alla sua personalità eccentrica ed eclettica – che narrano la realtà nel segno del mito della romanità tipico di quegli anni, con inquadrature che hanno il ricordo del taglio fotografico (Tuffatore), ma anche gli approdi alla pittura paesaggistica che mai si allontana dal soggetto marchigiano. Sono questi ultimi i prodotti che spesso hanno inquadrato Scuriatti come pittore leopardiano, capace di trasfondere con il colore il lirismo nel silenzio agreste (Campagna marchigiana), le forti emozioni e il dolce naufragio nell’intersecarsi delle colline.
Dalla purificazione della forma e del paesaggio, infine, Scuriatti passa a più alti orizzonti, ascende ad osservazioni estatiche di panorami spaziali, di luoghi in cui la materia è esclusivamente lo spazio. D’altronde come raccontano il catalogo della mostra ed alcuni titoli delle opere esposte, Scuriatti subì incredibilmente il fascino dei primi viaggi alla scoperta dello spazio e di conseguenza l’incredibilità delle prime immagini extraterrestri. L’Artista si associa al rifiuto della forma posto in essere da tanta pittura della seconda metà del Novecento e si esprime nella poetica dell’informale credendo fermamente che la bellezza si possa compiere nello spazio. Non è un caso che Lucio Fontana, per certo lontano dalla poetica scuriattiana, ma principe scopritore di una dimensione altra, abbia scritto in una lettera datata 2 novembre 1949 a Giampiero Giani: «contemporaneo è l’ambiente spaziale» (Fontana).
Scuriatti crea allora un idealismo cosmico ed in esso si esprime con una poetica fatta di pura estetica galattica in cui, scartato del tutto il segno ed abbandonatosi egli finalmente solo al colore, dinamizza lo spazio con linee forza di tinta e di luce e si esprime liberamente dando voce – cromia – al suo sentire. La tela è una finestra, ora, aperta su un puro spazio in cui si innestano i giochi delle comete, degli asteroidi, delle forze cosmiche, dove la materia si è trasfigurata pur rimanendo concretamente vera nella luce.
Pertanto fino al 28 febbraio del prossimo anno l’invito all’immersione nelle atmosfere galattiche di questo appassionato genius loci, come nelle diverse effervescenze dei pittori amici di Scuriatti che sono in esposizione presso la Pinacoteca Comunale, è caldamente diffuso a chi predilige un genuino sentire, una schiettezza di sentimenti e toni, che nell’arte della fotografia e della pittura sa trovare ristoro e, spesso, mitica fuga.