Ci aveva introdotti il comune amico Riccardo Canaletti. Me ne aveva colpito sin da subito l’educazione d’altri tempi. E – sebbene soltanto via chat – la delicatezza d’animo, ben diversa dal bailamme polemico in cui s’era volentieri fatto travolgere, scatenando irette rabbiette nervetti e altri piccoli fastidi ostinati nell’ambiente (non solo giovanile) delle patrie lettere virtuali. Era il 2018, e da subito avevo intuito che aveva una marcia in più: gli partiva dal fondo di un’interiorità ricchissima e difficilmente governabile. Al leggere i suoi versi, poi, mi veniva da chiedergli e richiedergli quanti anni avesse: perché non erano versi di un poco più che ventenne. Un acume, uno scavo, una precisione che si riscontrano – quando va bene – in una penna matura di anni e di esperienza, in lui prorompevano con semplicità, la più difficile e solida delle qualità. E mai banale, anche questo va detto: alla musicalità rapida e infallibile del verso, si univa una capacità incisoria di rara bellezza. Sì, doveva essere tumultuoso il magma che gli si agitava dentro. E che peraltro dissimulava come poteva attraverso una brillante ironia, insieme ad un’attenzione estrema e strenua nei riguardi della più umana debolezza: era un ragazzo tenero e affabile, scoperto e per questo attaccabile, limpido al punto d’alimentare il desiderio di difenderlo.
Gabriele Galloni ci ha lasciato per un arresto cardiaco a soli 25 anni.
Oggi possiamo ricordarne i bei libri, tenercelo come punto di riferimento di una generazione in formazione, che invece in lui già si delineava con rara nettezza, con eccellente maturità.
A me tuttavia questo ragguardevole patrimonio non basta. Li avrei voluti incontrare da vicino, quegli occhi che parlavano da foto straordinarie. Avrei voluto abbracciare almeno una volta l’altro Gabriele; quello dietro il personaggio che ammiccava e provocava; che anche in questo era vero, ma cercando forse in questa maniera un contatto che lo sottraesse al “vuoto minuto per minuto” alimentando una celia, un lazzo, e che invece puntualmente gli consegnava indietro moralismi bigotterie e distanze.
Non era facile capirlo, come tutti i pochi che hanno quel quid in più. Intimoriva molti anche il modo in cui approcciava i morti, il modo in cui intervistava la vita in prossimità del suo ultimo destino. A me invece non creava spavento. Tutt’altro. S’era stabilita da subito una connessione forte, tra noi due. Anche se soltanto virtuale. Aveva cominciato lui mandandomi suoi versi inediti; avevo replicato io proponendogliene di miei. Leggendolo, si capiva quanta biblioteca aveva alle spalle; la sua naturalezza perfetta poggiava su uno studio capillare, generoso, tenace. Era un fatto d’amore. Per me Gabriele non aveva la sua età, era molto più maturo dei suoi coetanei. Anche per questo, probabilmente, con lui mi sentivo alla pari: capiva perfettamente e con rapidità cosa volevo intendere. Me lo segnalava commentando anche qualche mio intervento critico con parole di ammirazione e gratitudine. Io – come chi mi conosce sa bene – l’ammirazione non la cerco ed anzi mi infastidisce un po’. La gratitudine la sento sempre eccessiva, se rivolta a ciò che scrivo. Invece la consanguineità la reputo preziosa; e con lui, sia pure attraverso quelle poche ma indimenticabili battute, questa prendeva corpo con grande franchezza.
Che ci resta di lui? A me la percezione di una grazia capitatami lungo la via; un incontro mancato che tuttavia non mi mancherà più. A tutti, un piccolo testamento luminoso di versi e prose; con buona pace dei suoi instancabili noiosissimi detrattori (anche post mortem!): anzi, credo ne siano – loro malgrado – proprio essi, una conferma ulteriore.
Ti sia lieve il cammino nell’azzurrità, Gabriele.
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Il dubbio, quando succedono certe cose, è tra dire e tacere.
C’è un momento in cui è il silenzio: totale, inespresso, inesprimibile. Poi questo si comprime, prende forma, si avvita, e le parole premono, esplodono, infine prevalgono.
E sia.
Tra le altre cose i social ci offrono l’opportunità di conoscerci, seppur virtualmente: basta scambiare qualche parola in chat. Così quando sono usciti, qualche mese fa, i nomi dei finalisti a un premio a cui avevamo partecipato entrambi, Gabriele mi contatta per un “in bocca al lupo”. Poco tempo dopo, in pieno luglio, rientrando in macchina da una gita in una località delle mie Marche, mi si apre davanti una marina blu intenso oltre una specie di terrapieno con davanti un prato, di un verde pallido; una tamerice in mezzo. Passo, faccio inversione, torno in quel luogo, parcheggio. Scatto una foto, la mando a Gabriele.
Era tutta lì la sua estate, la sua luce: bassa preludeva il crepuscolo, ma diffusa come fosse lo zenit – metafisica. Erano lì gli elementi trasfigurati che avevo trovato nelle sue poesie. Era il ricordo di un altrove.
Lui – felice – ringrazia e mi manda L’estate del mondo.
Siamo una comunità di scrittori e lettori. Una comunità di persone, di esseri umani. Ricordiamo Gabriele Galloni: un poeta, un ragazzo.
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Gabriele è stato tra i primi ragazzi che ho conosciuto nel mondo della poesia. La sua era un’esuberanza che trapassava la chat e portava a domandarsi se si stesse parlando con qualcuno di reale o con una figura immaginaria, a cavallo tra un rocker e un comico da locale noir. Dovevamo incontrarci a Riccione, anni fa, ma bucò appena partito da Roma. Ho sempre pensato fosse una scusa. Poi venne a Bologna a studiare, per poco. Anche lì non ci incontrammo mai, forse per colpa mia. Ho odiato terribilmente la sua poesia, tanto che ne scrissi per qualche rivista. Odiavo sentire parlare dei morti, soprattutto in quel modo così familiare, così puntuale. E forse odiavo quella poesia perché temevo, come temo, la morte in ogni sua forma. Lui mi ha risposto così: “È stato un grosso equivoco. Comunque, pace?”
Il suo ultimo libro era bellissimo, l’unico che abbia davvero amato. Era così con Gabri, ami qualcosa, qualcosa no, non c’è spazio per sentimenti intermedi. Ci siamo visti solo una volta dal vivo, era una promessa. Abbiamo dormito a casa di amici, grazie ad Alberto Pellegatta e all’antologia curata per TAUT insieme a Massimo Dagnino. Milano in quei giorni era tutta da camminare, prima fino alla galleria d’arte, poi a casa la sera. Chi ricorda quella notte, Francesco, Simone, Roberto, Augusto, sorride pensando a Gabri.
Ne parlai molto con Antonio Merola, un fratello di Roma mio e suo, ma che negli occhi ha una forma di incanto diverso per la letteratura, più sano. Gabri no, era avvelenato dai suoi idoli, dalla sua musica, dalla sua poesia. Quando ti parlava sembrava farti domande senza ascoltare le risposte. Camminava strano, per quel che ricordo. Ma scriveva come se corresse. Qualche giorno fa gli dissi che non vedevo l’ora di rivederlo, di passare una serata con lui e Anto. Perché il secondo mi ha dato l’affetto di un vero amico e l’umanità di uno scrittore d’amore, il primo la curiosità di un artista appartato, non sempre centrato nel suo fuoco. Gabri ardeva. E ho sempre pensato che servisse proprio questo, l’equilibrio tra una profonda presa sul mondo e un’aerea alienazione da tutto. Ho sempre pensato che servisse avere vicino gente come Anto e Gabri. Ma solo Gabri, no. Perché un po’ avevo paura. La sua immagine aderiva con quella dei suoi libri a tal punto che pensavo di odiarlo proprio perché lo temevo, come temevo e temo la morte. E infatti di Gabri temevo la sua posa da rockstar convertita, da maestro zen un tempo uomo fuori dalle righe.
Ora non ci si rivedrà. Credo ancora di avere ragione su qualcosa che gli dissi ai tempi delle nostre discussioni: con i morti non si parla, perché dopo non c’è niente. Quindi mi terrò stretto i pochi ricordi dal vivo, i tanti post sempre presenti sulla mia bacheca. Ricorderò che non era il più bravo della nostra generazione, anche se di certo era più bravo di me. Ma era il più vivo tra i poeti della nostra età, quello che più di tutti confondeva se stesso con i suoi eroi. E forse per tutta questa vita che ha comunque affrontato di traverso, nei suoi libri, lo ringrazieremo tutti. E anche se forse un po’ lo odio, capisco che anche in questo caso non ci siamo davvero capiti. È stato un equivoco, di certo. Comunque, pace?
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«Ogni cosa ha il suo tempo sotto il cielo;/ sii giovane con me prima che un’altra/corrente ci separi – o ci risvegli.»
Gabriele, siamo stati giovani nella corsa della poesia. Come dimenticare le lunghe passeggiate sotto i portici di Bologna, a parlare di Rolfe, Khayyām, e quella perfetta quartina di Penna che ci piaceva così tanto:
«Tu morirai fanciullo ed io ugualmente./ Ma più belli di te ragazzi ancora/ dormiranno nel sole in riva al mare./ Ma non saremo che noi stessi ancora.»
Faccio nostro un pensiero di Ananda Coomaraswamy. Come si eterna l’uomo? A ciò possiamo dare la risposta tradizionale nelle parole di Jalāl ad-Dīn Rūmī e di Angelus Silesius: «Muori prima di morire.» Soltanto i morti possono sapere cosa significhi essere morti.
La poesia è in fondo questo dialogo costante con la morte del Sé. È un farsi silenziosi e attenti al Verbo che ci attraversa, lasciandoci parlare con scorie d’astri e riflessi di specchi. Eppure, sebbene la scia della cometa che appare e passa lasci per sempre un ricordo di sole alla notte del mondo, quanto ingiusta ci sembra ora la tua scomparsa terrena. Perché era desiderio di vita quel tuo peregrinare sui sentieri della morte, quel reclamare a tutti i costi promesse di chiarore all’oracolo oscuro degli assenti. Desiderio di vita – ne sono certo.
Allora che cos’è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi nel sole? Raggiungere la vetta del monte cominciando a risalire?
Buona risalita, buona danza, Gabriele. Altro non so dirti. Il segreto della morte l’ho sempre ricercato al di qua delle parole – e forse al riparo dalla vita. Ma di vita vorrei che si parlasse anche stavolta, per questa tua nuova avventura nella luce.
«Ché in questa vita è un’altra vita nuova/ e in ogni corpo un altro corpo ancora.»
Francesco O.
Alcune poesie di Gabriele Galloni
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I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile.
Sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’Invisibile
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Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni; tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro
le coordinate per un’altra vita.
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Se la madre dei morti è sempre polvere,
i morti cercano la loro madre
ogni sabato sera sulle spiagge
libere; sotto le sedie o nei gelati
caduti di mano ai ragazzini
in chissà quante estati, in chissà quanti
alberghi, marciapiedi, lungomari.
La domenica un paio di ombrelloni
lontani, una famiglia che passeggia
sul bagnasciuga – madre e padre nudi,
i bambini coperti dal medesimo
telo giallo che scolorisce al sole.
Vuole il cielo che tutte le parole
dette e ascoltate si perdano, adesso.
La famiglia è lontana in un fruscio
scomposto di giornale spaginato
dal vento. Il telo giallo se lo porta
via l’onda; i due bambini lo rincorrono,