Secondo capitolo de “Il profilo ritrovato”, il romanzo di Marnie Allegretto che accompagna le nostre vacanze agostane
CAPITOLO II
Antoinette si fermò e tacque per qualche secondo cercando di superare l’arsura che le stava impedendo il parlare. Continuò poco dopo con sforzo e cattiveria guardandolo negli occhi:
– Loro sono arrivati puntuali con il tempo, tu no amico mio, tu sei in anticipo e per fortuna sei fuori dal tuo momento. Non rallentare, non guardarti intorno. Il futuro è la tua dimensione. Sistema quel dannato orologio e da’ una ragione anche a me. Ho fatto di tutto per non voler più bene a nessuno e non credere che ne voglia a te. Tu rappresenti quello che avrei voluto avere, tu puoi sollevarmi da questa vita, hai talento e non ti curi degli eventi, devi farcela. Va’ all’appuntamento con Louis. Mi servi, per dio! –.
Le guance di colpo ridiventarono violacee e gli occhi di nuovo piccoli, non c’era più tenerezza alcuna nel suo sguardo.
L’ orologiere già fiaccato a quelle parole sentì il fiato ridotto e pallido in volto non disse nulla, si voltò e la lasciò lì, ferma, con lo sguardo fisso sulle sue spalle e sul suo futuro. Non si accorse delle lacrime che tornarono a riempire gli occhi di Antoinette e si allontanò decisamente turbato dalla donna e dal suo passato ma anche dalla figura appena intravista in fondo al vicolo che continuava a suscitare un prepotente senso di angoscia e preoccupazione che non lasciava via di scampo. Non era buon segno qualcos’altro stava accadendo.
Fu così che, nella ricerca della ragione di quest’ulteriore sentimento che ormai lo tormentava e nel tentativo di afferrare un ricordo che potesse aiutare a leggere l’inquietudine insopportabile ed imprevista, si sentì costretto a ripercorrere le tappe della propria esistenza con la speranza di catturare l’immagine che lo avrebbe aiutato a comprendere e a lenire l’ansia ma che adesso presagiva solo ad un’ulteriore difficile ed inattesa complicazione.
Decise di lasciarsi andare a riflessioni e ricordi attingendo alle poche energie rimaste.
L’orologiere conosceva bene e da tempo i segreti delle abilità della fabbrica ginevrina. La fama dei prestigiosi prodotti era nota ormai in tutta Europa, le richieste riguardavano anche il nuovo continente ma nonostante le commissioni fossero in aumento non era facile vendere. Gli agenti di commercio scarseggiavano e bisognava assecondarli: egli dedicando attenzione al cabinet non riusciva a viaggiare per le corti che per di più erano attraversate da insidie militari determinate dagli assetti territoriali e dinastici che a quel tempo si andavano delineando.
A questo servivano gli uomini come Louis De Guillon. Era difficile trovare talenti abili quanto il suo e non bisognava deluderli. Molteplici erano i rischi nelle campagne, soprattutto attraverso i confini e le dogane quasi impossibili da evitare.
L’orologiaio aveva ormai raggiunto i 29 anni; fin da bambino si era spontaneamente abituato a sedersi all’établi, il banco di lavoro, accanto a suo padre e a suo nonno. Le lunghe ore passate prima ad osservare pazientemente quanto voracemente, poi ad esercitarsi incastrandosi tra ingranaggi e bilancieri, gli avevano insegnato la paziente attesa e la perizia dei risultati perfetti.
La precisione non era un’opzione ma la regola alla quale attenersi necessariamente e doverosamente e l’estetica non era a corredo ma il completamento dovuto ad un’opera ultimata che potesse solo competere e contendersi il prestigio con i più grandi maestri dell’arte in ogni sua espressione.
Tali capacità si traducevano nel fare e nascevano nel pensare che raggiungeva la maturità solo dopo ore, mesi ed anni passati con flemma accorta ed astuta a concentrarsi su una perfezione dispendiosa, non solo di energie.
Egli ormai sapeva bene che era giunto il necessario tempo di mettere ordine nella propria vita: i costi onerosi del laboratorio rendevano inderogabile una scelta che avrebbe potuto dare respiro e sollevare la propria attività che necessitava ormai di una cooperazione proficua che ne avesse potuto garantire la sopravvivenza e il mantenimento. La concorrenza stabiliva il mercato e non poteva farsi sfuggire questa occasione.
Il passaggio si rendeva pressante, non solo economicamente ma anche fisicamente. La statura e i lunghi anni seduto al banco di lavoro lo avevano reso curvo e dolorante e le ore passate davanti alla finestra, colpita dagli inclementi raggi del sole, avevano condizionato lo sguardo che segnato dal cerchio della lente e dallo strizzare degli occhi nell’incessante bisogno di cogliere difetti alla ricerca della perfezione, appariva ormai insufficiente.
Neppure la visiera verde necessaria a proteggere la vista dalla luce dalla quale dipendeva era servita a dispensarlo dall’espressione pesante e stanca dalla quale trasparivano le giornate di applicazione e le nottate passate con i compagni. Diverse piccole rughe segnavano gli angoli degli occhi già miopi e stressati che sovrastavano il naso regolare e deciso dal quale partivano però i due solchi che si estendevano fino ai lati della bocca a testimoniare il tempo passato in attitudini corrucciate nella concentrazione che aveva scavato persino le guance. Tuttavia, anche se i segni del viso non la lasciavano trasparire, c’era una certa bellezza che colpiva nell’espressione intelligente e profonda di chi ormai aveva imparato a cogliere le cose nel loro divenire e completezza; anche il mento sporgente la cui fossetta centrale attribuiva una certa simpatia contribuiva al suo fascino.
Ciò rendeva il mastro orologiaio attraente oltre i segni fisici e l’accorta noncuranza degli abiti colorati nelle gradazioni della stagione in atto, denunciava l’abitudine a stare seduto a lungo: gli emancipati pantaloni, sformati e lisi alle ginocchia, la redingote rigonfia sulle spalle raccontavano ampliamente circa la sua accurata e sedentaria attività.
Solo i folti i capelli castani privi di parrucca, sulla fronte appena stempiata, ornati da qualche filo grigio sopra le orecchie e lunghi sulla nuca lasciavano trasparire un che di scanzonato tipico di una gioventù dura a passare proprio per la resistenza di chi è abituato a fare i conti col tempo.
Gli abiti e la mentalità erano tipici della rivoluzione ma le necessità quelle di tutti gli uomini in ogni tempo: superare lo stato di natura per raggiungere il progresso.
Non avrebbe mai dimenticato come la sua crescita fosse stata scandita da vicende che avevano segnato una transizione frenetica e densa, portando ad un accavallarsi di eventi personali, politici e culturali che in pochi anni avevano consumato un’epoca accelerando l’inerzia che però, anche a quel tempo, era stata dai più percepita come naturale senza riconoscerne effettivamente né la velocità né i capovolgimenti.
Nell’ansia di collocare l’inquietante figura intravista in fondo al vicolo poco prima cominciò a ricordare, a caso dapprincipio. Si rivide: era ancora bambino quando suo nonno e suo padre prima dell’anticipo dei moti rivoluzionari ginevrini nel 1781, evitando commissioni a rischio riuscirono, con l’aiuto di piccoli finanziamenti, a mantenere l’attività che aveva subìto un’importante battuta d’arresto quando l’aristocrazia chiedendo l’intervento del re di Francia ottenne l’aumento dei prezzi di tutte le merci.
In seguito i disordini si susseguirono, cittadini e borghesi occuparono la città a favore della legge che avrebbe concesso l’uguaglianza civile ai nativi, agli abitanti e ai contadini che fino a quel momento non avevano avuto riconosciuto il diritto di residenza. Il malcontento sfociò negli scontri, gli ultimi, di Saint Gervais sulla riva destra del Rodano, e nell’affermazione del Terzo stato che rappresentato da contadini e artigiani, segnò l’inizio dei moti rivoluzionari.
Tuttavia in quei ricordi ancora accavallati e confusi non riusciva a dare sembianza all’uomo che poco prima lo aveva fortemente turbato, i contorni continuavano ad essere opachi e proseguì nella ricerca.
Provò così a mettere ordine nel proprio tempo cominciando dall’infanzia e andò a costruire la propria memoria mentre i passi nell’incedere diventavano sempre più lenti nell’angoscia del presagio che lo stava assalendo.
La memoria lo riportò all’infanzia. Aveva solo cinque anni ma viveva intensamente a quel tempo le emozioni di sua madre, che già cagionevole, subiva in quel periodo l’aggravarsi delle proprie condizioni. Le numerose ore passate ad aspettare suo padre assente per riunioni clandestine e per la partecipazione attiva ai moti rivoluzionari, avevano condotto la donna ad un grave stato di salute che di lì a poco l’avrebbero portata al finire del suo tempo. Ricordò tutte le volte che l’aveva spiata o sentita piangere e quante volte non aveva capito perché. Si accorse, allora, che bisognava imparare subito a fare i conti con malcelate bugie che nascondono solo il trascorrere doloroso e ineluttabile degli eventi.
Una volta sua madre Nicole, così si chiamava, lo aveva sorpreso mentre la scrutava dalla penombra dello stretto e sguarnito corridoio attraverso la fessura della porta della camera socchiusa, solo una fioca luce filtrava; ella aveva finto addirittura di ridere fino alla commozione per un presunto impiccio combinato da Lulù, la gattina di casa, che secondo lei rovesciando spazzole e pettini aveva sparso anche la boccetta di profumo appoggiata sopra la toletta. Anche lui allora aveva fatto finta di ridere ma non le disse mai di averla vista riversa su quella toletta e spazzare con un braccio ogni cosa. Solo la magrezza di un corpo rattrappito lo aveva sorpreso e spaventato mentre quell’odore lo colpì forte alle narici fino quasi a stordirlo. Si ricordava poco di lei e non era più riuscito a richiamare quell’essenza. Adesso non poteva neanche afferrare il suo volto con la memoria o ricordare la sua voce ma quell’odore gli arrivava violento ogni qual volta si avvicinasse all’ingresso di una chiesa, tanto che non era più riuscito a varcarne nessuna soglia.
Ricordò ancora.
Il giorno del suo funerale si era incamminato tentennante sul sagrato; ritto dietro al feretro, tra pochi e assonnati presenti indagatori e sconosciuti, costretti quel giorno ad un’insolita levata per non compromettere la giornata lavorativa. Neanche tra quelli riconobbe l’ombra che aveva appena intravisto. Nella ricerca spasmodica e nel tentativo di riconoscere i tratti velocemente sfuggiti in fondo al vicolo evocò i lineamenti dei presenti ricordandoli uno ad uno. Non rivide chi voleva, riconobbe solo i volti e gli sguardi assenti o per circostanza accoglienti di chi lo aveva circondato in quella mattinata.
Il dolore aumentava nel ricordo di quel lutto e non poté che prendere una pausa nella propria ricerca e rivivere l’emotività di tutta quella giornata; riuscì solo a proseguire in quelle emozioni deviando per un po’ dall’assillo che ormai lo possedeva.
Quel giorno i rintocchi del campanile battevano le sette di un pallido mattino e il freddo vento autunnale rendeva rigidi i movimenti facendo turbinare le foglie morte in un triste balletto di saluto.
La redingote nera di suo cugino maggiore di due anni e orfano di padre, abbondante e inanimata sulle spalle, le scarpe consunte e impolverate, nessuno gliele aveva pulite, i capelli appiccicati da un pianto ininterrotto, gli occhi cerchiati.
Avanzava, aveva imparato a nascondere le emozioni ed appariva estraneo a tutto.
Di nuovo però quell’odore lo aveva invaso proprio all’ingresso della chiesa ed era inciampato cadendo sulle ginocchia, poi il buio. Nessun ricordo gli era arrivato mai in soccorso. Con ansia e fatica crescenti si impose di abbandonare quel giorno e quel vuoto. Proseguì nell’intento di agganciare l’immagine che ormai lo stava tormentando e andò avanti nei ricordi.
Fu solo dopo lo scoppio della rivolta del 1789, all’età di tredici anni, alla fine dei disordini ginevrini, mentre dall’altra parte del mondo George Washington veniva eletto primo Presidente degli Stati Uniti d’America, che aveva cominciato a comprendere gli ideali paterni condividendo insieme a lui l’entusiasmo per gli emendamenti rivoluzionari che ormai erano esplosi. Solo a quel tempo era riuscito a perdonare sua madre per l’abbandono.
Nel ricordo di quegli avvenimenti però lo sconforto lo assalì: non sarebbe riuscito ad agganciare il volto che stava ormai diventando un’ossessione nel turbinio di quelle giornate in cui tante figure si erano succedute sovrapponendosi nella memoria.
– Ma che fai? Guarda dove metti i piedi! -, si sentì spingere malamente mentre veniva sorpreso all’improvviso dalla voce di un passante che nell’urto non aveva neanche visto.
In modo confuso si scusò fermandosi e fu così, approfittando per tirare il fiato da quell’ossessione, che si lasciò andare a rivivere per qualche istante la frenesia di quel tempo.
Quell’attimo di coscienza fortuita dovuta allo sconosciuto che lo aveva mortificato poco prima lo ricondusse alle attività frenetiche di quella via e al presente. Tutto ciò però richiamava ancora vicende passate e utili a costruire la memoria.
Decise di fermarsi presso il portone di uno dei tanti edifici ed evitare altri scontri incurante di qualche sguardo curioso che cominciava ad attirare ed continuò ad andare indietro nel tempo.
Insieme al padre aveva visto finalmente abolito il sistema feudale, limitato l’uso e i redditi della proprietà terriera e il progressivo sviluppo di un ceto: quello dei contadini che armati di forconi si avviavano a stipulare il loro contratto sociale, mentre la Marsigliese spazzava l’Europa esaltando i principi di libertà, fraternità e uguaglianza.
Sapeva bene già a quel tempo come tutto ciò avesse avuto un sapore particolare per la fabbrica di Ginevra nelle cui campagne fin dal sedicesimo secolo la riforma calvinista aveva modificato il pensiero e l’agire degli uomini e radicato progressivamente un sistema socio-economico che ormai prosperava sul proprio scorrere caparbio e produttivo.
In quei luoghi, dediti all’agricoltura, da tanto ormai si era compreso che nelle stagioni morte e nelle pause di lavoro ci si poteva applicare in attività che ampliassero il reddito, perché nel fare quotidiano ciascuno mette alla prova il tentativo della propria salvezza assoluta o predestinata.
A quel tempo la fabbrica ginevrina prosperava ormai per tradizione a nord della città, sulle sponde dei laghi di Joux, Brent e di Ter, là dove la valle sale dolcemente fino al lago di Rousses a nord ovest di Ginevra e dove, gli abitanti, riponendo zappe e vomeri nelle rimesse, si dedicavano già all’arte orologiera contribuendo a costituire quell’industria rurale che avrebbe necessariamente avuto il bisogno di esprimersi e strutturarsi poi anche a Ginevra dove prima della fine del diciottesimo secolo, in rue de Corps Saints, si trasferì suo nonno.
Esigenze ed abitudini, queste, che erano più che mai fortemente sentite proprio dopo la rivoluzione:
– Da bambino… – gli raccontava – la sera tornavamo a casa stanchi, i campi indolenzivano e incurvavano le schiene e indurivano le ginocchia, persino le mie verdi ed ancora acerbe. Ogni sera però avevo un posto per riposare, lo sgabello all’etablì. Gli anziani erano riusciti a mettere da parte delle assi di legno e a montare rudimentali tavoli da lavoro nelle stalle riscaldate dal fiato dei buoi. Per me fu dura abituarmi alle schegge che mi penetravano le mani quasi ad ogni contatto. Per fortuna mentre imparavo ad usare gli strumenti diminuiva anche il fastidio di quegli scomodi e rozzi tavoli da lavoro. Di notte dormivo poco, filosofi e letterati nutrivano la mia mente tanto da avere la sensazione che anche lo stomaco lo fosse, le cene non mi saziavano mai del tutto. Voglio spiegarti – raccontava suo nonno – quanto quel periodo e la formazione serale e notturna mi diedero la possibilità di esprimermi liberamente e come misi in pratica il mio saper fare ed essere alla stessa maniera che in quel territorio prima di me molti altri avevano fatto: l’orologeria. Crebbi in quei luoghi, li ricordo intensamente e lì conobbi tua nonna ma ebbi tuo padre a Ginevra dove ci trasferimmo poco dopo. –
Ricordando spesso quelle vicende, il nonno gli aveva insegnato ad amare quei paesaggi e a sentire importanti e sincere le amicizie che da lì si erano sviluppate, le cui radici traevano nutrimento essenzialmente da un sentimento cresciuto nella condivisione.
– Ciao amico mio! Che fai da queste parti stamattina? Non dovevi essere per vigne oggi? Tutto bene? –
La voce simpatica di Aaron, l’incastonatore, lo distolse ancora:
– E’ che …è che ho una commissione …e non ho più tempo. Devo lavorare anche oggi. Alla settimana prossima!
Lo liquidò in fretta, e l’incastonatore si allontanò distrattamente, ma il suo fare affabile aveva per un po’ rasserenato l’orologiere che continuò un po’ risollevato nei propri pensieri.
Era chiaro come assecondando i passi della storia la sua famiglia a partire dalla metà del XVIII secolo grazie proprio a suo nonno aveva intrapreso l’arte orologiera e tessuto una produttiva rete di collaborazioni alla quale egli ancora attingeva avendo sviluppato importanti relazioni tra i discendenti dei primi cabinotier nella Vallee de Joux, là dove nacque l’arte a cui egli si dedicava e dove conobbe Jacob, il suo miglior amico. I ricordi personali a quel punto si interruppero bruscamente quasi per contrasto perché, proprio nel ricordare ì racconti di suo nonno, finalmente comparve la presenza sgradevole dell’uomo appena intravisto che inaspettatamente emerse.
Nella sorpresa però non riusciva ancora a collocarne nello spazio e nel tempo il ricordo né a distinguerne con precisione i lineamenti mentre il disagio cresceva e l’ansia della memoria lo attanagliava insieme ad una sensazione di sgradevolezza legata a quella figura ancora indistinta. Anche l’angoscia era crescente e le nebbie continuavano a sovrapporsi spietatamente alle difficoltà tecniche ed ai problemi pratici che da soli fino a poco prima bastavano ad essere fondamentali ed unici.
Il proprio stato d’animo si collocava in quello spazio in cui a volte gli individui si trovano quando un elemento sconosciuto interviene inaspettato e dominante e proprio perché tale è come se qualcosa di superiore e oscuro possa aggravare ciò che è già compromesso.
Così lasciò che le immagini del passato continuassero a raggiungerlo senza resistenza nel tentativo di afferrare quell’inquietante ricordo ancora appannato.
Si rivide così ancora sedicenne all’incirca nel 1792, il rincaro delle merci e la grande crisi economica avevano condotto al termine l’ancien regime e alla decapitazione di Luigi XVI mentre dal 1798 la città di Calvino era stata integrata al territorio della Repubblica francese sotto il centralismo napoleonico. All’incirca intorno al 1805, all’età della sua maturità, proprio mentre aveva ricevuto l’esclusiva commissione, un terzo della città di Ginevra viveva di orologeria.
Il turbinio di quegli avvenimenti lasciati scorrere nelle sue riflessioni non bastò a distrarlo né a lenire il disagio che non l’aveva ancora abbandonato ma era crescente nel tentativo di dare un volto e un nome all’immagine che continuava a tormentarlo. Arrivato quasi alla metà della Rue de Corp Saints finalmente la memoria riuscì a selezionare il volto di un ragazzo. Nello spasmo di ricordare all’improvviso emersero lineamenti noti che si riconoscevano però ancora a tratti come se non riuscisse a fermarli definitivamente in quel volto che continuava a voler sfuggire e al quale mancava il corpo e la collocazione nello spazio. L’ansia di afferrare la completezza di quella memoria continuava a tormentarlo con ondate violente e inarrestabili, dominandolo. In quella fatica il volto ad un certo punto emerse nitido, senza riuscire però ancora a dargli un suono mentre il vociare della via gli arrivava ovattato e indistinto. Poi, improvvisamente e liberatoria, arrivò anche la voce. Era strascicata e rude. A quel punto il ricordo lo sopraffece sgradevolmente, almeno quanto sgradevole era stata la conoscenza di Josuè.
Sì, Josuè Martin questo era il suo nome; residente ginevrino di prima generazione e aveva fatto apprendistato con suo nonno. L’aveva avuto al fianco, all’etablì. Rimase con loro poco tempo, le forti ambizioni non erano supportate da conoscenze particolari ma la disponibilità ad acquisirne sembrava aiutarlo, anche se l’intelligenza a volte lo tradiva. Sicuramente l’aspetto poco gentile era peggiorato nel tempo ma l’immagine vista di sfuggita appena qualche minuto prima era ancora perfettamente riconoscibile, solo la zoppia nel ricordo non c’era. Pensò che però nonostante quelle insufficienze un sano spirito di sacrificio lo avrebbe sicuramente aiutato e non aveva mai capito perché se ne fosse andato, si ricordava solo che una mattina all’etablì non c’era; suo nonno non disse niente e Josuè non tornò più.
A quel punto ancora un’inquietudine lo costrinse a rallentare il passo e a prendere un profondo respiro nel tentativo di comprendere adesso il motivo di quell’inaspettato ritorno. Non ci riuscì e poté solo constatare come quei frenetici avvenimenti, la giovane età e le discordanti percezioni familiari a lui pur non avendo consentito lo sviluppo di una coscienza effettivamente critica avessero di fatto favorito una personalità inconsapevolmente moderna e il raggiungimento della propria collocazione. Anche se da un lato la fragilità materna unitamente al timore della perdita di quotidianità assodate lo avevano condizionato, dall’altro l’esaltazione e la fiducia nelle riforme vissute a pieno dal padre avevano contribuito a farlo adattare. Ma cosa era successo a Josè Martin?
L’orologiere amico di Antoinette pur essendosi accomodato in un’ inconscia e statica attesa data dall’accoglienza di situazioni innovative senza un reale coinvolgimento consapevole ed autodeterminato aveva costruito un placido e naturale svolgersi di azioni che accompagnano spesso ogni epoca, anche le più turbolente. Qualcosa però era intervenuto ad interrompere il percorso di quell’altro ragazzo che adesso nel manifestarsi improvviso e losco dimostrava di non essere riuscito a collocarsi in pensieri e avvenimenti sociali e privati che gli avessero permesso un’autonoma e tranquilla seppur inconscia definizione della propria esistenza.
In effetti il cabinotier era stato mosso da meccanismi spontanei e interiori per i quali a volte eventi inaspettati aiutano a dare luce a percorsi condotti senza un’effettiva consapevolezza assecondandone ogni progredire quasi come se l’andarci incontro fosse mosso più dall’inerzia che da un’effettiva volontà per cui le vicende politiche insieme alle manifestazioni culturali della sua epoca inevitabilmente si erano sovrapposte a quelle personali. Tutto ciò aveva contribuito alla sua formazione complessiva che aveva tratto ispirazioni idealistiche anche dai saggi progressisti del pensiero contemporaneo.
Tuttavia sicuramente queste dinamiche interiori non erano state spontanee per Josè che adesso tornando in quel modo dimostrava di non essere riuscito ad assecondare il proprio tempo. Così mentre l’orologiere aveva creduto di cogliere gli insegnamenti al ritmo dello scorrere del tempo scandito dai segnatempo a cui dedicava le proprie energie senza accelerazioni almeno fino a quella mattina, l’altro non era riuscito ad accoglierli.
A quel tempo gran parte della società si era espressa naturalmente e fattivamente nei propri contesti e nei primi anni dell’ottocento tra il 20 e il 40 per cento della popolazione era costituita da poveri, ma a Ginevra il Terzo stato aveva trovato un’occupazione e un reddito: l’arte orologiera. L’Impero e le grandi monarchie europee sempre più attingevano ai talenti di questa regione per celebrare le tappe principali, private e politiche, dei sovrani e dei giovani eredi.
Josè Martin non era riuscito ad appartenervi ma proprio per uno di questi, in quella umida mattina autunnale, nel 1805, l’ orologiere amico di Antoinette si stava recando gravato da preoccupazioni e dall’assillo di quel ricordo, presso il suo cabinet.
Cosa ci faceva quella mattina Josuè Martin a Ginevra e cos’era venuto a fare? Perché lo aveva spiato?
(continua)