Un libro di versi a due mani. Firmato da Massimiliano Bardotti e Gregorio Iacopini. Con un titolo curioso: Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio (Fara Editore, 2020). Vorrei cominciare dalla fine di questo libro. Di questa meraviglia che ha riempito i giorni – la memoria ha una sua funzione, un suo significato nel raccordo del nostro percorso – i giorni, dicevo, della quarantena. Tra anni mi auguro nessuno la ricorderà più e, prendendo tra le mani queste pagine, sfogliandole, si stupirà che il prefatore citava il tempo strano di un periodo mentre i versi di cui si preparava a parlare volavano per conto loro, con la potenza miracolosa della grazia. Eppure a me pare importante ricordare dove li ho incontrati, questi versi: perché è vero che la Bellezza, come l’Amore, hanno una loro niversalità che gli fa superare tempo e spazio; ma è anche vero che li si incontra in un momento incarnato; sempre. Altrimenti è teorizzazione (o, nel peggiore dei casi, sfoggio noioso e soporifero). Invece, quando il vento che anima le parole della poesia è autentico respiro, flatus vitae, parte sempre da un tempo e un luogo per raggiungerne altri chissà quanto lontani e riuscire – nuovamente – a dire. La poesia, cioè, attiene alla vita profonda delle cose e degli uomini: sono fuori strada coloro che la vogliono impiattare sulla cronaca; ma più ancora chi la costringe in un referto anamnesico sulle qualità dello scriba.
In queste pagine ho ritrovato, finalmente, qualcosa che mi ha costretto a rimettermi in gioco e mi ha ridato vento, fiato, luce. Ma – come ho detto – vorrei cominciare dalla fine.
Sentivo – mentre leggevo e rileggevo gli ultimi due versi – che qualcuno stava dandomi la vita. La stava perdendo e ritrovandola nel donarmela attraverso le parole:
<Ecco l’amore.
Al resto, vi prego, date un altro nome.>
Massimiliano Bardotti e Gregorio Iacopini – che firmano questo librino – evidentemente sanno di cosa stiamo parlando: lo testimoniano in pagine una migliore dell’altra, in cui si registrano le differenti età, certe malinconie struggenti di Massimiliano e certe affabulazioni necessitanti di Gregorio (o è il contrario?); la sorpresa è come (e quanto) il dialogo proceda su un binario articolato ma simbiotico. Ne sgorga una luminosità miracolosa che invade gli occhi e pervade l’esistenza. Sempre, quando interroghiamo la vita, ci sorprendiamo a travolgerla nel nostro bisogno dialogante, che è bisogno – in fondo – di amare e sentire amore. E lì, quando tocchiamo con gli occhi o col desiderio il nulla che si anima d’intorno a noi e prende forma e nome, quel soffio delicatissimo ci invita ad un silenzio che è ascolto e contatto, paura e rêverie, innamoramento e carne.
Non corpo: non si tratta di definire il mondo, ma di farsene parte. La comunicazione è misterica, iniziatica in un certo senso. E in questo stesso senso profetica. È un dono che si dipana nell’accoglierlo e nel lasciarsene accogliere. Tanto che – dopo – non si può trattenere in sé e si deve ridepositarlo, nomarlo. Il sogno ad occhi aperti non si può raccontare, scriveva Bachelard a proposito della rêverie: si può soltanto scrivere. E nasce la poesia.
Risalgo il fiume che in un passaggio felicissimo del libro scivola verso il mare dividendo gli alberi. Facendosi strada con la naturalezza travolgente della meta in fondo al viaggio. Risalgo in un feedback che mi riporti – e qui chiamato in causa personalmente – “all’origine dell’aria”, laddove tutto è cominciato e dove finalmente un giorno ritornerà, osservando
<il seme con occhi di frutto,
madre e figlio insieme,
ospitare il tempo,
dar la nascita unico fine.>
Provate a rovesciarlo, questo libro: a risalirlo dall’ultima pagina come ho fatto io. All’andata vi piacerà vedere come scrivono bene, questi due amici miei. Poi, al ritorno, trasalirete perché le pagine vi assorbiranno al loro interno e vi rilanceranno in volo dentro la vostra vita. Questione di un attimo, di una parola, di un ansito breve, di braccia che si spalancano mentre gli occhi si chiudono e la luce vi invade. La luce bella della semplicità (che è tutt’altra cosa rispetto alla facilità; ed anzi, come amo ripetere, è la più difficile delle conquiste, perché presuppone una scomparsa di sé a servizio totale di un Altro che chiama a dire):
<Lo senti? Come tutto è canto?
Come tutto attende d’essere guardato?>
Ma Bardotti e Iacopini fanno molto di più, che scrivere un libro di poesia. Danno voce a un’esperienza fondante, che è una sorta di redditio symboli: una restituzione per gratitudine di una grazia più alta che ne ha illuminato il tragitto e dato senso al passaggio nel mondo. E questa loro esperienza fonda nell’esicasmo, la pratica antica e sempre potente che ci giunge direttamente dai Padri della prima cristianità, mai attuale e forse necessaria come in questo nostro presente così caotico e disarticolante. Dice una pagina emblematica:
<Ogni tanto, fra sordi e fra ciechi,
qualcuno piega le ginocchia, e si siede.
Appende la testa all’ultima stella
mani aperte sul grembo a ricevere grazie.
Chiude gli occhi e comincia a guardare.
Allora, è un istante, tutto piega a preghiera.
Da costellazione a costellazione vibrano voci.
Canta il vento, fra i rami degli alberi,
l’antica canzone.
E germogliano spighe
maturano bacche e semi di lino
la terra abbonda di frutti.
La nostra terra, la nostra umanità. Tutto
ciò che siamo, anche la pienezza tenerissima
del nostro limite. La terra abbonda di frutti:
frutti di vita nuova, inedita, insospettata.
Da questa nostra terra fiorisce la chiarità.
E nulla più al mondo, è perduto.>