E’ alla fedeltà verso la propria donna e insieme verso la poesia che guarda il libro centrale dell’itinerario poetico di Benzoni, Fedi nuziali. Un’opera che conferma anche la fedeltà alla “casa sul porto”, a Cesenatico, a una provincia, più che luogo geografico, patria poetica. E mi sembra che il senso del luogo di Benzoni abbracci essenzialmente quell’idea di residenzialità nata proprio sulla sponda adriatica, nelle Marche, dall’opera di Franco Scataglini e dei suoi sodali:”E’ dove vivi ogni giorno e ciò di cui vivi che costituisce con il tuo corpo la tua identità profonda: un luogo alienato, si capisce, come tutti i luoghi della terra, sennonchè l’alienazione è dell’uomo e, nei luoghi, anche i più desolati, c’è sempre un’ombra di beatitudine immemore” (Scataglini). Sarebbe infatti sbagliato ridurre l’autoemarginazione di Benzoni a uno scacco privato, a un fallimento personale: in fondo quella di Benzoni è ancora una volta la vicenda di uno scrittore in esilio, ma che forse, da un luogo decentrato può assurgere a quegli universali del sentimento in cui tutta una generazione, a qualsiasi latitudine, può riconoscersi. Ne era ben consapevole Vittorio Sereni, se leggiamo una lettera dell’intenso epistolario con Benzoni, che ben descrive la caparbietà, alla Paul Cezanne, nella ricerca di un luogo della poesia che, pur non perdendo i suoi caratteri specifici, sia riconoscibile in senso universale:”Penso, e lo dico anche contro me stesso che mi sforzo sempre in quella direzione in ogni cosa che scrivo senza riuscirci mai veramente (vedi appunto Ventisei), che i grovigli psico-sinatattici di Ferruccio…dovrebbero evolvere verso una rappresentazione di un viaggio e di un luogo spogli di riferimenti troppo specifici, arrivare a una elaborazione fantastica dei dati di partenza, trasporsi in un paesaggio innominato e non per questo privo di contrassegni…tale che poi il lettore non sia costretto a tenere conto dell’effettiva realtà di quei dati e sia libero di immaginarselo, quel paesaggio, e di collocarlo dove gli pare”.
L’impronta dell’amico e del poeta Sereni si avverte man mano che si procede con la lettura di questo “diario senza montaggio”: è proprio per questa opera che si spese per Benzoni il termine “serenismo”, partendo dalle parole di Mengaldo:”un serenismo impressionante, un serenismo non solo formale, ma anche psicologico, come chi ha una specie di transfert”. Ma è soprattutto alla luce della fedeltà, termine chiave per Sereni, che va intesa la pronuncia affine ai due poeti. Del resto quante volte Benzoni aveva parlato, già nella rivista Sul porto, di fedeltà ingenua, quasi monastica, di “piccole fedeltà”. E se resta comunque suggestivo raccogliere le risonanze del maestro nei calchi, citazioni e nella prosodia, ridurre Benzoni alla stregua di un imitatore sarebbe fuorviante. Mi interessa maggiormente quanto entrambi condividano una montaliana “decenza” (Visita a Fadin) e “l’impossibilità etica, esistenziale e psicologica di svendere il proprio essersi sottratti al cambiamento che solo avrebbe consentito di elaborare davvero il lutto” (Sissa).
Ecco allora che la sereniana “passione”, come ha rilevato ancora Bandini, si riverberi in Benzoni come prosecuzione di quel rapporto “ingenuo” tra poesia e vita già presente fin dai tempi di Sul porto, nella ricerca di uno stile, di un legame con la tradizione che non impedisca di misurarsi con il negativo dell’oggi, senza illusioni e consolazioni letterarie, e che non rinunci “ai sentimenti, al dubbio e all’angoscia” (Bandini). Benzoni sodale, più che allievo, di Sereni, lo è anche nel continuo dialogo, nel rifuggire una poesia che parli solo di sè stessa, prediligendo al contrario una scena poetica intimamente teatralizzata (Bertoni) per la presenza di varie sfaccettature dell’io del poeta, in perenne dialettica. La relazione con l’altro da sè e la molteplicità latente dei vari “io” presiedono alla polifonia di codici e registri, dal punto di vista linguistico, con lacerti di provenienza alta; giri sintattici, frequenti in Sereni, tra anastrofe e iperbato, che tendono al sublime; il falso parlato e altre soluzioni prosastiche costituenti un controcanto all’abbandono musicale lirico. Tra queste soluzioni, oltre allo stile diaristico, da taccuino, va notata sicuramente la funzione del ma avversativo, che contribuisce a una versificazione nervosa, piena di parentesi e sospensioni, come suggeriscono anche i participi passati senza ausiliari e gli inconfondibili gerundi benzoniani. Come già accennato in precedenza, la figura retorica principe è senz’altro l’ossimoro (“non esiste grazia senza l’orrore”, Di giugno; Tenerezze terribili). Se dovessi pensare, poi, a stabilire un parallelismo tra il colorismo benzoniano, o come è stato scritto, il riempimento del “colore del vuoto” sereniano da parte di Benzoni, credo sia utile raffrontarlo con Un posto di vacanza di Sereni.
In Fedi nuziali il passaggio dal verso lungo, più narrativo, del primo tempo, al verso-fotogramma filmico, è esplicitato dallo stesso autore nella Giustificazione che apre il libro. Ne risentono anche le visioni, il paesaggio onirico, che sembrano in un certo senso asciugarsi, rispondere al rilievo di Fortini sulle prime prove (“Questi versi, di affettuosa materia volatile, paiono timorosi di non essere in ogni punto ornati, quanto ne avrebbero voglia, di allusione ed eleganza”) e avviarsi a quella liberazione del frammento celaniano che prende le mosse da Fedi per estremizzarsi nel postumo Sguardo dalla finestra d’inverno, passando per Numi di un lessico figliale, dove i riferimenti al poeta di Czernowitz sono verificabili direttamente nei testi. Del resto per entrambi la scrittura scaturisce dalla perdita, da una non-rielaborazione del lutto, da un particolare coraggio, non quello di andare avanti, ma di “sostare nel dialogo con le proprie ossessioni” (Sissa). Ed è bene ricordare l’ateismo di fondo dei due, impegnati in uno strenuo dialogo con chi non è più che, nella fiducia quasi patologica nella possibilità di contatto e nell’orfanità sentita come condizione irrinunciabile, trasforma le loro visioni oniriche in una sorta di dialogo con un aldilà interiore. In questo senso la lettura di Sissa, tesa a cogliere il potere suggestivo delle figurazioni benzoniane, più che una poesia del vuoto, aderisce, a mio parere, anche alla parabola celaniana, almeno fino al vertice di Atemkristall (Cristallo di respiro), se ci si smarca dall’ipotesi di una visione totalmente nichilista, pur nell’ambito di una teologia negativa. Resta comunque un aspetto comune innegabile, una pulsione all’autodistruzione che portasse al ricongiungimento con i propri cari: da una parte, per Celan, con una forma depressiva che lo costringeva a frequenti ricoveri; per Benzoni con l’alcolismo che lo ha condotto alla cirrosi epatica, la stessa malattia che uccise il padre. Ma resta anche la risposta ad Adorno, ricorda Bertoni, il rovesciamento dell’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz nel “si può fare poesia solo sulla base di Auschwitz”.
Benzoni già dai tempi di Sul porto aveva insistito sul valore della testimonianza, in quel caso fino alla responsabilità da parte dell’intellettuale, di portare la politica fuori dalla politica, o meglio di riconquistarla (Roberto Roversi). Una testimonianza che si rinnova a partire dalla stesura del suo lungo diario canzoniere, perchè, anche quando Benzoni parla di sè, non parla mai per sè. Questa volontà del poeta di essere dentro il proprio tempo riguarda anche lo Celan che “non dimentica che sta parlando sotto l’angolo d’incidenza della sua propria esistenza, della sua condizione creaturale” (Il Meridiano) o che in una lettera a un amico scrisse:”Non c’è una sola riga delle mie poesie che non abbia a che fare con la mia esistenza; io sono, lo vedi, a mio modo, realista”. Non volendo forzare eccessivamente il confronto tra due autori dal tono e dallo stile anche profondamente lontani (più solenne ed essenziale, sospeso nell’indicibile, Celan; più lieve, nel suo sublime domestico, ma anche più ornato e colorista, Benzoni), l’affermazione di Galaverni secondo cui Benzoni “sente per sottrazione e scrive per restituzione”, può in ogni caso raccordarsi all’Atemwende, che dà il titolo all’ultima raccolta decisiva di Celan (Svolta del respiro), intesa come la pausa impercettibile in cui l’essere vivente passa dall’inspirazione all’espirazione e viceversa. L’aria viene assunta, utilizzata e restituita; analogamente il poeta assume la realtà che lo circonda, la “filtra” attraverso l’arte e la restituisce come poesia. Due poeti che compongono a partire da una perdita; ciò che si assume della realtà è anche l’indicibile, per Celan, e quel che non è più, per entrambi; i sommersi, la cui memoria solo dà senso alla voce, che ritrova fiato sul punto di ammutolire (“Non ho vita che per tenerti in vita”, scrive Benzoni nel postumo Sguardo dalla finestra d’inverno, un verso rivolto alla moglie che convive con la memoria dei trapassati).
Quanto al titolo, Numi di un lessico figliale, l’orfanità si reitera rispetto al padre-Fortini: scaricata sul padre naturale ogni esigenza o tentazione edipica, come ai tempi di Sul porto Benzoni si sente libero di adottare nuovi padri, modelli etico-esistenziali a cui ispirarsi. Proprio un testo intitolato (A Fortini) sembra voler accogliere la critica dell’ “Ammiraglio” (così Benzoni in una lettera, in cui lo definisce “ammiraglio in mezzo a un equipaggio fervido sì e di volontà ma pericolosamente ammaliabile dalle liriche sirene di tanta letteratura”), le sue riserve sul Canzoniere infimo, a proposito di un eccesso di ornatus:”Liberarmi della letteratura/è la mia voglia – potessi/svegliarmi dov’è più verde/il grano e (pianissimo piano)/desolata/un’epopea dei volti”.
In realtà la raccolta conta anche liriche dedicate al padre biologico, da freddure (“per stornarti poi da un ragazzo/impotente – teneramente madido?/Au revoir per il momento se ti può bastare/senza offesa/una cordialità da astanteria”, Al padre) a paralleli tra le sofferenze del padre e le misure coattive a cui fu sottoposto Antonin Artaud; a un riavvicinamento, un riconoscimento nella poesia finale e in quella intitolata Incontro col padre (“E infine a noi due/percossi da uno stesso male/tu con la tua sepoltura/tacita in un’alba attonita -/e io che per vincere/(per vivere!)/dovrò sprintare bruciandoti/in un fotofinish di gregari svuotati”). Un riavvicinamento che sarà ancora più intenso nel libro successivo, come vedremo.
La dimensione dell’uomo in quanto figlio domina questi versi fin dal primo momento e si salda al “filo di fedeltà” che dà il titolo a una delle liriche di Numi, riallacciandosi alla fedeltà a Sereni e alla moglie nella splendida Al mio amore:”Non dirmi della terra o del sole/- ti amo cogliendo viole/da pallidi scaffali/molto/molto prossimi a un mare”. E se la poesia Giovanna in apertura, tratta da Notizie dalla solitudine, conferma il tempo circolare, il ritorno ossessivo della poesia di Benzoni sugli stessi motivi, le poesie per Ilse della prima sezione rafforzano il valore catartico della donna amata:”Nel verde dei suoi occhi aguzzi/riarde un mio futuro/di metrica e di vita./Di polvere e di metrica/per l’esattezza con cui ho composto/i miei vivi in marmo./Ma spiove intanto:i fiori/che lei ama avranno tregua” (Im Dunkeln). La moglie tedesca permette una rivisitazione e condivisione del passato: ne sono spie linguistiche il ricorso a termini in tedesco (o citazioni di Celan) accanto a inserti in francese, la lingua “affettiva” della madre. Un capitolo a parte meriterebbe infatti l’analisi del rapporto di Benzoni con la cultura francese, con la quale il poeta di Cesenatico entrò in contatto inizialmente con le conversazioni in lingua con la madre e che si estese alla predilezione per Rimbaud, Verlaine, Apollinaire e Char, e con la passione per il cinema di Godard e Truffaut e la conoscenza diretta di Jean-Pierre Léaud, l’indimenticabile Antoine Doinel de I quattrocento colpi.
Tutta la poesia di Benzoni è intrisa di quella tenerezza, e se pensiamo alle due bellissime prose del primo periodo, una del 1978, diretta a Simoncelli, l’altra a chiudere il Canzoniere infimo, davvero il racconto dei due sogni unisce all’enigmaticità kafkiana un’atmosfera che ricorda Fellini o la Nouvelle Vague. Paolo Zublena ne La chambre verte del feticista ha individuato nella elezione a mito di Truffaut e nella ricorrenza di citazioni di autori francesi, la fondamentale tendenza feticista del poeta di Cesenatico, che allude a un altro luogo di civiltà e di cultura rispetto alla triste realtà italiana del presente. Ma il feticismo linguistico di Benzoni costituisce anche una barriera rispetto alla vita. Se per Sereni Remo Pagnanelli aveva parlato di ipotesi psicanalitica sulla forma come difesa rispetto alle irruzioni della vita, forse non è improprio vedere negli stessi fantasmi che popolano la scrittura di Benzoni, una barriera rispetto al presente. Da un punto di vista linguistico la singolarità di Benzoni emerge anche negli innesti di francesismi e germanismi in controtendenza, rispetto agli anni Ottanta e Novanta, con la presenza di anglicismi della poesia à la page del periodo.
Il recupero della figura paterna, accennavo in precedenza, Benzoni lo compie anche affrontando la propria malattia, la stessa che ha portato il padre alla morte. Il poeta recupera la sensibilità crepuscolare del primo periodo (non a caso Sogno del fiaccheraio, presente già nel Canzoniere infimo, e che dà anche il nome a un’intera sezione, viene qui riproposta) per le sue visioni allucinate di convalescente. Numi di un lessico figliale appare anche come il libro più variegato, anche sul piano del cromatismo: il tailleur azzurro della madre, il verde spesso associato a Sereni (“il verde della vita”), “il viola indelebile degli addii” (Sogno del fiaccheraio). Nonostante la varietà non si interrompe il colloquio con la madre (“Quei colori non vorrei perdere/scialati/ravvivarsi in un gran gelo./La meraviglia del dolore pesa…”, Elle traverse un pont et disparait), medium del contatto con i trapassati, come la stessa moglie Ilse (“Ma i tuoi occhi./E la vita mia riudita/da una grazia patteggiata/sordidamente con le tenebre”, Signora M.) , anche in versi che condensano una dichiarazione di poetica (“Non dirmi della terra o del sole/- ti amo cogliendo viole/da pallidi scaffali/molto/molto prossimi a un mare”, Al mio amore).
Con Sguardo dalla finestra d’inverno anche la poesia di Benzoni, come quella della Anedda di Residenze invernali o de Il viale d’inverno di Scarabicchi, solo per fare due nomi, si inserisce in quella percezione di attraversamento dell’inverno della storia o del postmoderno, che è propria di tanta poesia di fine secolo. Per Benzoni si tratta peraltro della propria esistenza percepita come inverno. Lo scenario della sua poesia si apre alla simbologia celaniana, la metafora assillante del lutto, la neve che ricopre le spoglie dei morti (per Celan le spoglie di chi non ha un nome o dei propri genitori, di cui non conosceva luogo e data di morte):”La neve che qui volteggia o in marci/torsoli s’aggruma è sete,/insaziabile memoria” (Andenken); “La neve mi fodera che riposa/algida sul mio ghiaccio come/una sposa, una colomba senza desideri./Ricordami, tu che mi ascolti/di là da un vetro, di un altro/inverno in attesa per sognarli/monologanti comunque/vivi i tuoi numi” (La casa sul mare). La moglie Ilse ha sempre accompagnato il dialogo con gli scomparsi; ma allo stesso tempo il timore, l’ossessione della scomparsa di tutto ciò che è più caro ha avvolto anche lei (“non ho vita che per tenerti in vita”, la citazione che ho già ricordato da Dolcezze maritali) o invece è il poeta che avverte vicino il distacco, con accenti bertolucciani (“Ah/tu, presto una mattina vattene./Lasciami. Dopotutto so/di avere ricevuta in aggiunta/alla morte la vita. Potrei/renderla in qualsiasi momento/svenata del suo incanto…Non nel vento di marzo./Anche se da ieri i tuoi occhi/di un giorno muoiono raggiando”, Vento di marzo). Di nuovo il ricordo della madre si confonde con l’immagine di Ilse, ma Benzoni non ricorre alla profondità psicanalitica, anche se riecheggia Caproni e le sue poesie per la madre Anna Picchi (“Ritorna/impietrato l’addio/indicibile ogni volta…Oh la morte di cui vociferi/dal fondo dei deserti inverni!…ich liebe dich, [ti amo]/prendendoti gioco della verosimiglianza/della eco, degli specchi”, Ultime a G.). Il cerchio dell’itinerario lirico si chiude riandando all’origine, al luglio 1967, non senza una lieve ironia (“Un giorno o due prima ti chiudessi gli occhi./Ancora ignoravo d’entrare/dal fondo di un’adolescenza nella/stagione effimera del mio/male hanté non di meno provinciale”, Città piccola).
Nel libro estremo la coscienza della rapina implacabile del tempo si fa più acuta, con l’approssimarsi della fine della troppo breve parabola del poeta (“Chi apra le mie carte e/sulla polvere soffiando legga/lessici, neve/cartilagini/di un inverno freddo senza stelle…d’altra neve in attesa…”, Un addio prossimo). Giunto al capolinea il poeta si strugge nell’anelito al ricongiungimento (“Vorrei per una volta tutti/della mia vita i volti s’affollassero…Sorridono e all’implorante “Vi aspetto, tornate!” -/socchiuso lasciano il battente,/neanche spettasse a me seguirli…o fossi dei loro già, senza saperlo”, A mia insaputa, con evidente spunto dagli Xenia di Montale), persino in una pacificazione con il padre (“E mentre t’allontani (rimuori)/timido come da una riva ti guardo,/ti sorrido, dopo quanti anni?”, A mio padre). In fondo, come ha notato Massimo Raffaeli, nel poeta di Cesenatico la scrittura si dà in un tempo di sospensione della vita (questa è anche la funzione linguistica del gerundio come ablativo assoluto), il dialogo in uno spazio interiore, non metafisico, in cui l’io del poeta è pronto a farsi da parte per accogliere le voci e il calore dei propri affetti.
In una intervista Benzoni ha detto, una volta, che la sua non è una poesia difficile in sè, ma che ricerca nel lettore un complice. Nient’altro che questo, stabilire una complicità, è stato il tentativo della mia lettura, così come complice di “uno strumento infido come la parola”, “intriso della tenebra/dei trapassati”, è stato l’accorato tributo alla bellezza che Benzoni ci ha offerto con la sua opera in versi.
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