Il cupo tempo che stiamo vivendo dovrebbe servire a tentarci, ciascuno nel proprio isolamento, verso il pensiero di cosa siamo, noi e le nostre consuetudini, rispetto al mondo di fuori, ossia quello di cui ci sentiamo naturalmente una parte. Se guardiamo la realtà attraverso il vetro della finestra o appoggiati alla ringhiera di un balcone, siamo in proiezione verso l’esterno, evidentemente, poiché la nostra dimensione artificiale, cioè auto-costruita, non ci trattiene, non ci basta. E questa tensione ha una genesi apparentemente banale: la nostra esposizione al mondo, la nostra necessità di esporci fuori, in una realtà spaziale esterna, è un fatto naturale esattamente come il respirare. Spinoza, quindi, avrebbe ragione a dirci determinati e posti nel mondo come ogni altro dato materiale, voluti e designati da un Deus sive Natura (Dio, ovvero la Natura) che causa se stesso ma causa anche tutte le cose. Se la causalità divina è immanente, se in Dio non c’è differenza tra causa ed effetto, se Dio è in tutto e tutto è in Dio, allora la natura ha le stesse caratteristiche di Dio. E noi, che siamo parti della natura, siamo Dio noi stessi. E siamo una parte immancabile del “sistema” in quando origine e conseguenza di esso, che è il mondo dentro cui ci sentiamo necessari e l’universo dentro cui il mondo ruota anche in ragione della nostra necessità. Però questo virus ci ha insegnato una verità diversa, rispetto a cui la causalità di Spinoza esibisce qualche cedimento. Come dimostra il giornalista-scrittore David Quammen nell’adesso celebrato libro-inchiesta pseudoprofetico “Spillover” (in Italia pubblicato da Adelphi), l’uomo sta distruggendo gli ecosistemi naturali e il suo impatto ambientale è già insostenibile. Negli ecosistemi che l’uomo sta distruggendo vivono milioni di specie che non conosciamo. Molte di esse, anzi la gran parte, sono virus (“virosfera”) e tra questi ce ne sono molti, e ce ne saranno, in grado di costituire una minaccia patogena per l’uomo (esattamente come il coronavirus). Quindi, ecco la domanda: se il Dio si identifica con la natura, allora la natura è perfetta come Dio: ma dov’è la perfezione della natura? Non appena siamo chiamati dalle nostre responsabilità a riflettere sulle crisi che ci mettono all’angolo siamo portati a pensare a quale possa essere il vero nostro campo di dominio su noi e sul mondo che vediamo, e, soprattutto, quale possa essere il punto di contatto più vero, e quindi più giusto (etico?), tra umano e naturale. Cioè: avvertiamo l’alterità della natura rispetto all’uomo, in apparenza. Ma poi siamo costretti a smentirci poiché la nostra stessa composizione ad essa, alla natura, ci espone e ci riconduce, sospingendoci direttamente al dato naturale.
Antonio Prete nel suo ultimo libro di poesia Tutto è sempre ora (Einaudi, 2019) riflette, come quasi sempre nella sua opera, da uno luogo (di tempo-spazio) distaccato e naturale, appunto, ossia sensibile. Qui non si predilige una poetica (zanzottiana) che usa il dato naturale (ad esempio: il paesaggio) come punto di accesso d’intuizione all’ontologico; bensì il poeta fa un esercizio intelligente, ossia razionale, di lettura autentica: le realtà intra ed extra umano sono con chiarezza un campo dell’intelligibile. Tanto che il titolo della raccolta – che, come nota Andrea Bajani in DoppioZero, è un poco eliotiano (ad Eliot Prete dedica alcune liriche della raccolta), ossia meta-storico ed epico – pur presentandosi come un paradosso ad aura filosofica, assume, nella comprensione dell’opera in toto, il tenore di un’evidenza. Il posizionamento dell’osservatore rispetto al fiume che scorre e al mondo che s’avvolge vivendo e alle galassie che, da qualche parte (altrove e qui) ruotano e s’allontanano e alla “fuga di comete” nel tempo, è l’attualità posta più urgente: “Il transito, la cenere, l’aurora, / tutto è sempre nel respiro dell’ora.”
Il libro contiene 95 brani, divisi in cinque sezioni. Siccome la scrittura parafrasa una specie di dichiarazione di presenza del poeta in un reale che rimane immutabile, e comprende ogni cosa, eppure evolve (chiarissimo, quindi, ciò che accadde nel titolo), il dettato poetico è unitario ma varia la sua forma e struttura. Strutturalmente la poesia usa estesamente gli endecasillabi, ma non ovunque. E infatti l’ultima sezione, dal titolo Dell’apparenza (prosa d’inverno), comprende 13 testi in prosa. Prete è uno studioso di Giacomo Leopardi tra i massimi e più autorevoli in Italia (lo è anche di Charles Baudelaire). Almeno una decina sono i suoi saggi dedicati al recanatese (La poesia del vivente e Il pensiero poetante, solo per citarne un paio) e ogni sua opera di invenzione, sia essa poetica o narrativa, non prescinde dalla corrispondenza con il riferimento che Leopardi universalmente definisce se si intende dire del dolore-genesi connaturati alla “dimensione mancante” dell’uomo (l’uomo che conosce, non intuisce, il proprio dato divino come tratto mancante – che naturalmente gli corrisponde e lo trascende – e lo ricerca).
La realtà, allora, esattamente diviene un campo di osservazione e, come per Baudelaire, tutto intorno è spazio di lettere e segni, con l’elemento sonoro (il respiro, il vento, la voce) che diventa l’exemplum di un ritmo generale a cui l’uomo si dispone, in ascolto, e si accorda:
“Il ritmo del mondo, sai, pare dica
priva di voce una voce, è anche in questo
andare prima di sera, tu e il cane,
lungo uno stradone, gli occhi sul ciglio
d’erbe, sugli alberi spogli di tempo,
sulle tracce che fanno disegni nella mota.”
In alcuni casi l’incapacità di comprendere, di compatire “la spina del presagio”, si rappresenta in un destino disumano, dove il dolore usa il verso degli uccelli per avvisarsi e avanzare nella densità che ci circonda:
“Priva di lingua, stormendo,
la terra piange sulla ferita
che è ancora ferita.”
Ma poi è la prossimità con la natura, nella risonanza dell’essenza naturale dell’umano, che la poesia di Prete si anima, e si accende in pienezza:
“Ma c’è, tu dici, lo stesso respiro
in questo aspro vanire e nell’immenso
spalancarsi di galassie, nel loro
assillo d’infinito.
C’è lo stesso
respiro in questo tiglio che s’annera
e chiama intorno a sé tutto il fogliame
perché, raccolto, resista alla sferza
del vento, ora che salirà la notte.”
Nella sua inattualità calma e opportuna Prete è voce che pratica un unico esercizio: mentre cammina il mondo, ella s’avvia in alto. E non s’abbevera soltanto della domanda di cosa esista oltre e sempre, la domanda che potrebbe ben dissetare il filosofo o lo scienziato; bensì si prepara, qui e ora, alla risposta, riconoscendo il proprio nome d’orfano e patendo con ciò che le è intorno. Ma pure lievemente esultando, se, d’improvviso, si imbatte nell’immenso di un’”attesa”, di una sapida pacificazione:
“Quella bandiera di luce che trema
ancora sopra gli alberi lambendo
nuvole già disfatte nel blu, quella
strada scortata da cipressi fino
all’erta, e tutti quegli uccelli in volo
insieme attendono che l’invisibile
si versi dentro questi specchi d’acqua,
e piano poi si spenga mentre ascolta
il passo della notte sopra l’erba.
L’immenso dorme, le ali ripiegate,
nell’alcova segreta dell’istante.”