A un lettore non abituato alla frequentazione di testi orientali, specie se incardinati a un asse filologico rigido e poco inclini alle spesso scialacquate versioni new age degli stessi, le poesie di Eihei Dōgen (1200 – 1253), maestro buddhista tra i più influenti della cultura giapponese, che Bompiani decide di pubblicare sotto la cura – magistrale – di Aldo Tollini, potrebbero sembrare distanti, troppo distanti, quasi sfocati in un’alba che promette, ad un occidente che sempre si volge ad est, risposte attuali a problemi secolari. Ci si scuserà, quindi, con tale lettore se, in sede proemiale, si citeranno (a primo impatto randomicamente, poi – si spera – con un preciso disegno intertestuale) alcuni stralci di brani altamente significativi della letteratura occidentale moderna, tale che questa struttura, invece di confondere, possa se non altro indirizzare un vettore che possa intersecare la lettura e il cuore delle poesie di Dōgen, in modo da creare un nucleo di pensiero poetante che approssimi la traiettoria di un’affinità di sentimento al di là dei tempi e delle geografie.
Si cominci con Eraclito, con il famoso frammento sulla via in salita e quella in discesa che sono la stessa cosa. Si prendano poi le parole di Goethe, nel Faust, appena prima della taciuta discesa alle Madri: “Discendi adunque… o sali, giacché il dirti l’una cosa o l’altra torna lo stesso” (è Mefistofele a parlare). Si continui con T. S. Eliot, nel quartetto (il secondo di quattro) East Coker: “In my end is my beginning” (in cui è la regina di Scozia, Maria, prima di essere decapitata a pronunciare queste parole). E si concluda questo brevissimo excursus con la chiusa memorabile della Decima elegia duinese di Rainer Maria Rilke: “E noi, che pensiamo la felicità / come una cosa che sale, avremmo lo stupore/ che quasi sgomenta, / di una cosa felice cadendo”. In queste evenienze il pensiero occidentale, pars pro toto quello concettuale, che vede in Hegel la summa e in qualche maniera l’esito conclusivo di una serie di movenze filosofiche ancestrali, basato sulla certezza metafisica di un essere stabile, di uno spirito che si dispieghi in una rappresentazione limpida e dialettica, si trova di fronte a un ostacolo, davanti al reale che è espresso, nella poesia che confonde la logica tramite l’ossimoro e sovrappone i piani, nella sua contraddittoria pulsione all’irriducibilità unidirezionale. I brani citati pongono il fulcro del loro essere su una concezione estetica della poesia, sulla domanda nucleare della stessa riguardo il suo essere in perenne tensione tra un dire che raffigura e circoscrive e un ascoltare che ridona al silenzio palpabile e vivo un’effervescenza incontrollabile.
Abbandonando ogni pretesa di tipo rappresentativo-didascalico, questi versi trascendono la finalità banausica di un pensiero concettuale che spazza via i realia favorendo il concetto o l’idea, e si pongono nella condizione di un mostrare, di un accennare, per poi ritrarre l’indice indicante; sono poesie nelle quali accade qualcosa, si mostra un gesto, una pratica
dell’ascolto e della vista che apre una parentesi di reale nel tessuto verbale. Un gesto che, se riporta la poesia alla sua radice etimologica di fare, e di un fare diverso dall’artigiano che costruisce oggetti con un determinato fine utilitaristico, lo avvicina alla temperie – tutta occidentale? – di una mistica, come quella echkartiana, di un rifiuto delle creature in favore di un gesto creatore oppure di quella dell’“Arte per l’Arte” sovversivamente slegata da qualsiasi proposta – semantica, politica, filosofica – in qualche maniera spendibile tramite un mezzo rappresentativo e traduttivo. Si pensi alla temperie simbolista, da Mallarmè fino a Rilke, fino al Debussy abile coniugatore dei versi mallarmeani e delle movenze, queste sì tutte orientali, della musica pentatonica. Quest’area di famiglia fra pensiero poetante occidentale, nel trascendere la visione di una poesia o di un’arte che, più che essere, “fa” ci avvicina, forse, al fondamento della poesia di Dōgen e del suo intrinseco legame col Buddhismo, nonché con la temperie Scintoista che è percepibile come in filigrana dietro tanti suoi testi. Si tratta, forse lo si sarà intuito, del legame tra gesto poetico e immanenza meditativa della condizione orientale, tra evocazione verbale e percezione sensibile del reale.
Poesie (La vita di Sanshō, Vivere tra i monti) di Eihei Dōgen (Bompiani, 2019, a cura di Aldo Tollini) raccoglie 60 testi waka in giapponese (caratterizzate dallo schema metrico-sillabico 5-7-5-7-7) che cadono sotto la raccolta La vita di Sanshō e quindici testi in cinese (una piccola selezione di un corpus ben più ampio dell’intera produzione in lingua nipponica) riferiti al periodo in cui Dōgen visse nel territorio del tempio di Eiheiji (raccolti sotto il titolo Vivere tra i monti). Il maestro Dōgen , autore dei trattati in prosa Shōbōgenzō (una sua personale summa di pratiche buddhiste, in cui, tra le altre importanti tesi viene suggerita quella della non differenza tra natura e natura-di-Buddha, ovvero la non distinzione tra materia fisica e realtà illuminata) e Principi universali per lo zazen (un trattato di meditazione), membro di punta di quella che era la tradizione Rinzai, importante per la trasmissione e lo studio dei testi dottrinali, oltre ad essere un maestro, un illuminato, era anche un uomo, lontano dalla ferrea e algida separatezza della dottrina rispetto al ciclo quotidiano della vita, con le sue sensazioni e i suoi dolori, le sue angosce e le sue paure; la sua – per usare una parola che ne riassuma tutte – sensibilità. Una sensibilità che intride e imprime l’esperienza di un maestro Zen che, anche a livello mainstream, è noto per il suo distacco e quasi levitante sul mondo dalle cose terrene. La sua produzione poetica, osserva Tollini nella sua lunga e necessaria introduzione (si è oltre le ottanta pagine, che però sono un viatico necessario e fruibile al lettore anche meno esperto), si divide in tre grandi filoni; quello delle poesie strettamente dottrinarie, quello delle poesie a carattere naturalistico che però, lasciano dei varchi interpretativi in cui gli elementi della natura si metamorfosano in principi buddhisti (in un’equazione per cui, ad esempio, le foglie sono simbolo dell’impermanenza o la luna quella della mente purificata), quello delle poesie a tema naturalistico in cui, invece di percepirsi una filigrana dottrinale, si avverte una pura effusione lirica che non nasconde il sentimento ma lo mostra nella sua umanissima e sconvolgente purezza.
Come attrattore di questi temi c’è quello – che è centrale, pilastro del Buddhismo – del raggiungimento dell’Illuminazione, la liberazione dalle illusioni e dalle pulsioni della mente-cuore (kokoro) che sviano dalla purezza d’animo e dal disinteresse per far virare l’uomo verso uno sterile egocentrismo che non mette in comunicazione con la natura (alias la natura-di-Buddha) ma che separa in micro-frammenti il Tutto. Si tratta, in questi testi, di avvertire il rumore primordiale che intesse la natura, senza ricondurla a uno pneuma iniziale (visione prettamente dualistica, quindi fuori dall’immanentismo orientale); un tentativo, come nelle prose rilkiane di Appunti sulla melodia delle cose o del Messaggio di Pessoa, di riconoscere dietro il canto del vento o delle scimmie la vera realtà che si dà come suono, come materia indivisa dalle categorie del pensiero:
Si riverbera nelle valli
il grido intermittente
delle scimmie sulle cime.
Lo si ascolti proprio come
recitazione di questo sūtra.
Ascolto che è frutto di una meditazione (zazen, l’atto di stare seduti a respirare accordandosi al paesaggio pneumatico del cosmo) disinteressata, volontaria ma senza volontà di raggiungimento di un fine pratico (l’illuminazione);
Zazen
Pur non pensando di servire
a proteggere (il raccolto),
lo spaventapasseri
non è inutile
per i campi tra i monti.
Alla fine di questo percorso (che in realtà è il suo inizio, come nelle grandi narrazioni mitologiche ed iniziatiche del Verbo degli uccelli, un testo arabo quasi contemporaneo a Dōgen) si giunge alla comprensione che l’impermanenza è la legge della realtà, il non lasciare tracce, l’essere pronti a scomparire dietro la superficie dell’evidenza per approssimare il soffio invisibile della Via:
A che paragonare questa vita?
Al riflesso della luna
sulle gocce di rugiada
che l’uccello acquatico
solleva scuotendo il becco
Fino a quando, e in questo Dōgen si smarca da gran parte dei suoi maestri, anche l’illuminazione si fa impermanente, condizione-soglia oltre la quale cambia sì il rapporto con il mondo ma non la permanenza nello stesso; non si è trasportati altrove da dove si è e l’illuminazione coincide con un più denso e approfondito essere qui, nell’attimo. Attimo che – e qui si ricordi il Faust (di Marlowe) che incontra Elena – non può essere fermato, se non in un disegno che ridia i contorni di una realtà in quanto realtà vissuta; dire è essere:
Ritirato tra i monti, ora finalmente comprendo i suoni e i colori della montagna.
Dubito che (la montagna sia solo) dare frutti, far sbocciare i fiori, seguendo le stagioni:
Ma allora mi chiedo, quale sia il suo vero aspetto
(Mi rispondo): i verdi, gialli, rossi e bianchi che entrano nel dipinto.
Tollini, nello spiegare nel suo ricco commento storico le vicende e le aporie (poetiche) del Buddhismo, giunge alla definizione di dōtoku (usata da Dōgen per indicare la sua produzione poetica ma anche il suo insegnamento e la sua pratica attiva sui sentieri della Via) come espressione e sentimento della vita; una poesia che è un vivere, una pratica e un esercizio di vita, un modo ulteriore di meditare e di avvicinarsi ad uno sguardo che non trattenga il reale ma che lo lasci libero e puro, connettendosi ad esso.
14.
Il bufalo che passa attraverso la finestra
Questo mondo è come
quel bufalo
che tenta di uscire dalla finestra
ma la coda resta impigliata
Ah! Sempre questa mente!
41.
La notte lunga, lunga…
come la coda di un fagiano
ho trascorso,
attraversando l’oscura via
(e giungendo ora alla luce).
49.
Senza interruzione
cade la neve.
All’inizio della valle,
canta un usignolo
per annunciare la primavera.