ma dal sogno un’acuta dolcezza si prolunga nel giorno e di essa si è vivi…
(Vittorio Sereni)
Il desiderio di rileggere Pasolini è sorto in me durante una delle poche, e fino ad allora permesse, sortite notturne della mia quarantena mantovana. Aggirandomi per la città deserta e sigillata nelle saracinesche abbassate e nelle luci spente delle sue vetrine, il pensiero correva un po’ ansiosamente a come superare un imprevisto supplemento d’inverno, peraltro ancora più duro. Un tempo certo favorevole a letture ampie, distese, ma che imponeva comunque la questione di come resistere in una prolungata solitudine. Nell’immagine e nel mito di Pasolini trovavo per via immediata la figura di resistente che mi era più prossima, nel tempo della mia storia personale che più si avvicinava a uno scenario di guerra, fosse pure ridotta a una battaglia di nervi, alla disumanità del distanziamento fisico e di una morte che non si vede. Eppure cosa c’entrava Pasolini, perchè rileggerlo?
Innanzitutto è sempre bene ricordare che leggere Pasolini è un’operazione che si dà per scontato che qualsiasi intellettuale abbia fatto; niente di più falso, mai autore è stato tanto citato e così poco letto, soprattutto approfondito in quanto poeta. Ragione fondamentale dell’approfondimento sulla sua figura che ho condotto in una serie di incontri a Mantova per il quarantennale della morte, nel 2015. Ma soffermarmi sulla mia progressiva scoperta e riscoperta di Pasolini può essere utile per capire come questo autore viene recepito.
Ho sentito parlare di Pasolini per la prima volta al liceo, quando avevo 15 anni, durante una delle tante occupazioni delle scuole negli anni Novanta, per protestare contro i finanziamenti alle scuole private. E naturalmente le lezioni di letteratura organizzate dagli studenti dell’ultimo anno non potevano che vertere sul Pasolini polemista, sugli Scritti corsari soprattutto. La rivelazione del Pasolini poeta risale per me agli anni universitari, ai corsi di scrittura condotti da Filippo Davoli e Giovanni Cara (direttori e ideatori della primissima Ciminiera cartacea, dall’inconfondibile formato allungato) a Macerata e dal mitico convegno del 2005, sempre nella città marchigiana, per il trentennale della morte, convegno intitolato emblematicamente Padre Nostro, a sottolineare lo stato di orfanità cui le giovani generazioni si trovarono a fare i conti all’indomani della scomparsa del poeta (ricordo come fosse ieri il discorso dolente di Francesco Scarabicchi, che iniziò dicendo: “La mia generazione è orfana…”). E fu in quell’occasione che potei soffermarmi sulla tensione al ritorno nel grembo materno come grande archetipo, filo conduttore che attraversa tutta l’opera di Pasolini.
In una intervista per la televisione francese che scoprii dieci anni dopo, un giornalista fa notare quanto tutta l’opera del poeta esprima in fondo una grande gioia e un grande dolore. Pasolini risponde ricordando un’espressione del provenzale antico, “ab joi”, “l’usignolo che canta ab joi”, “per gioia”, seguendo una specie di raptus poetico, di esaltazione. Sottesi all’opera del poeta sarebbero un senso di esclusione, di nostalgia della vita che però non toglie amore per la vita, ma lo accresce. Basta leggere la famosissima e straziante Supplica a mia madre per capire quel che Pasolini intende. E’ proprio con questa poesia e con l’intervista che ho appena ricordato che aprivo la serie di incontri del 2015 di cui sopra, nei locali arci di Mantova, nella cui provincia insegno da dieci anni, e sede del più importante festival letterario in Italia, insieme a Pordenone. Eppure Mantova non aveva dedicato alcuno spazio alle commemorazioni, all’infuori della mia iniziativa assolutamente personale, di appassionato. Iniziative che, pur sporadiche, si erano svolte, in Italia, tanto che un ragazzo del direttivo provinciale consegnò a me i manifesti dell’Arci nazionale per le commemorazioni, utili per successivi dibattiti fuori da Mantova. Ma non è in questo frangente che mi interessa aprire una simile polemica; l’attenzione verso il cinema di Pasolini, ad esempio, era già più alta in Francia che in patria, negli anni Sessanta, e non è certo una novità che i suoi scritti giornalistici più vicini alla sociologia siano oggi al centro di insegnamenti universitari negli Stati Uniti. Più interessante, invece, è considerare le critiche che alcuni ragazzi dell’arci mantovano muovevano al percorso sull’autore che proponevo loro, a loro parere eccessivamente “intimista”. La riscoperta del Pasolini poeta e acutissimo critico letterario rispondeva, in me, a un’ovvia esigenza di verità sulla sua figura, partendo dalla prospettiva del saggio di Zanzotto, Pasolini poeta, o dall’introduzione di Giudici all’antologia delle poesie, Bestemmia, pur non misconoscendo l’idea dell’autore come ultimo rinascimentale (ricordo che, oltre al cinema di poesia, le ricorrenti citazioni pittoriche presenti nella stessa opera cinematografica, soprattutto dai manieristi del Cinquecento come Pontormo e Rosso Fiorentino, dimostrano quanto Pasolini concepisse il cinema stesso come arte figurativa). E’ anche vero che una completa autonomia del discorso poetico, come notava già Mengaldo, si riscontri soprattutto nelle poesie friulane, quelle in dialetto de La meglio gioventù o nei primi versi in lingua de L’usignolo della Chiesa cattolica. Ma i rimandi tra i vari momenti dell’opera e della biografia sono infiniti: non è improprio, ad esempio, considerare l’influenza che sul marxismo eretico, apartitico di Pasolini, ebbero i fatti oscuri legati alla morte tragica del fratello Guido, partigiano bianco della Divisione Osoppo, trucidata dalla Brigata Garibaldi e dai comunisti titini. La rottura dell’idillio di Casarsa, dunque, di un felibrismo friulano di stampo neodecadente (la ripetizione ossessiva dei motivi di Amore-Morte, del Narciso, dei riti di una civiltà arcaica), che presenta già quel carattere ossimorico dominante in futuro: la naturalezza del mondo contadino espresso in un dialetto lingua vergine, privo di una sua letteratura, e insieme distantissimo dal dialetto realmente parlato.
Naturalezza e spontaneità unite a “un eccesso di squisitezza”, dunque, che verranno replicate nelle raccolte romane Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo (“La nostra speranza è ugualmente ossessa:/estetizzante, in me, in essi anarchica./Al raffinato e al sottoproletariato spetta/la stessa ordinazione gerarchica/dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,/in un mondo che non ha altri varchi/che verso il sesso e il cuore,/altra profondità che nei sensi./In cui la gioia è gioia, il dolore dolore”, La ricchezza); ma anche nel lirismo mescolato alla tragica durezza dei primi due film, Accattone e Mamma Roma, o alle descrizioni indimenticabili di Ragazzi di vita e Una vita violenta, romanzi che uniscono sospensione poetica e crudezza della vita di borgata, con un linguaggio dalle forti tinte espressioniste. La sineciosi, rilevata da Fortini, rimarrà la costante di tutta l’opera e del suo impianto coerente: Pasolini amerà solo gli umili non scolarizzati (“che non abbiano fatto più della terza elementare”) o gli amici scrittori (Bertolucci, Penna, Bassani, Moravia, ecc.), chi cioè possiede ai suoi occhi ancora quella grazia che la cultura media borghese, soprattutto a partire dai primi anni Sessanta, fatalmente corrompe. Il suo marxismo non può che essere eretico in quanto esito di “passione e ideologia”: e la sua spinta progressista per la partecipazione delle masse sottoproletarie alla rivoluzione, cozza con un amore infinito che vorrebbe lasciarle in una condizione autentica di ignoranza e povertà.
Ma lo scandalo del contraddirsi (“soltanto noi sappiamo di quante contraddizioni abbiamo bisogno per essere coerenti” scrive a Moravia all’interno de I dialoghi con i lettori su Vie nuove, poi confluiti ne Le belle bandiere), all’insegna di un amore per la letteratura e odio nel momento in cui essa sembra separarsi dalla realtà, prosegue in ogni sua creazione, come contraddizione apparente, se pensiamo al clamore suscitato dal Cristo rivoluzionario, venuto a portare la “spada, non la pace”, de Il Vangelo secondo Matteo. Stupisce oggi guardare alla sorpresa di gran parte del mondo cattolico per il film di un autore marxista in realtà sempre legato a una religiosità contadina arcaica, non confessionale, ma comunicante con la religiosità di area cattolica della madre e della nonna. E’ questa religiosità ingenua che irrora le liriche de La meglio gioventù e L’usignolo della Chiesa cattolica. Nella famosa intervista rilasciata a Enzo Biagi nel 1971, Facciamo l’appello, Pasolini fa notare quanto il suo sguardo sul mondo non sia mai stato laico, naturale: in tutta la sua opera è espresso in effetti un senso di sospensione, di attesa del miracolo. Fin dall’inizio Pasolini fa sua la lezione del simbolismo decadente (il mito di Rimbaud su tutti) filtrato attraverso Pascoli, come dimostra il saggio giovanile ma baricentrico del 1946, ricavato dalla sua tesi di laurea. Un Pascoli assunto generosamente ad archetipo di tutta la poesia italiana del Novecento, interpretato secondo una dialettica che ne esalta il plurilinguismo in chiave moderna, da una parte, l’ossessione e l’immobilità di tono classiche, dall’altra. Altro merito fondamentale del Pasolini critico è quello di inserire Pascoli in una dimensione europea, associando la poetica del Fanciullino a quella dei romantici inglesi e tedeschi e soprattutto dei simbolisti francesi (Pasolini cita Maritain: “la poesia cessa di essere canto che è il fine a cui naturalmente tende, per diventare piuttosto rivelazione”). Anche in questo caso i rimandi del lavoro critico con la realizzazione poetica sono infiniti, ma la sua esegesi di Pascoli ci costringe anche ad aprire una parentesi sull’attività di critico, concordando con Berardinelli quando ricorda che Pasolini riuscisse a capire soprattutto i giovani (la sua analisi della società) e gli scrittori.
Al di là della preparazione formidabile Pasolini si distingue per il coraggio (tanto ammirato da Caproni) e l’originalità di un’impostazione che riusciva a far convivere in un ennesimo ossimoro la critica di Gramsci con la critica stilistica di Contini. Gli apporti critici sugli autori sono innumerevoli, sia nella scoperta di giovani poeti (penso al Massimo Ferretti di Allergia), sia soprattutto nelle interpretazioni decisive di Saba, Caproni, Gatto, ecc. Mi piace qui riportare la testimonianza accorata di Bertolucci, che esalta la genialità, il fiuto critico che Pasolini ebbe anche sull’opera del poeta di Casarola: ”Prima di andarsene Pasolini mi lasciò un giornale…In terza c’era una sua recensione al mio libro [La capanna indiana]. Aveva capito tutto, ero commosso e quasi spaventato. Prima di lui avevano parlato soltanto di idillio, lui parlava acutamente di nevrosi” (Primo e ultimo incontro con Pier Paolo).
Dicevamo di un intellettuale che sa capire, ha una predilezione soprattutto per gli scrittori e per i giovani. Con questi ultimi
Pasolini intrattiene un dialogo intenso, spesso anche molto duro, se pensiamo naturalmente a Il Pci ai giovani, il famosissimo attacco agli universitari in difesa dei poliziotti. Ciò che mi ha sempre colpito dell’intellettuale e dell’uomo Pasolini è questa inesausta capacità di ascolto, un afflato dialettico che non negava il dialogo nemmeno a giovani fascisti. Nel suo elogio della mitezza Pasolini ha diverse tangenze con la prassi non-violenta di Aldo Capitini e Danilo Dolci. Tutto questo deve dissuaderci dall’immagine stereotipata del Pasolini arrabbiato e dell’odio contro la borghesia; non perchè io voglia dare un’immagine edulcorata e depotenziata della carica espressionista dei suoi attacchi in versi e giornalistici. Ma perchè dietro la sua visione apocalittica è impossibile non cogliere una straordinaria generosità, la stessa che ha guidato il suo impegno didattico/pedagogico fin dai tempi dell’Academiuta furlana.
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta è impossibile separare l’attività del Pasolini poeta dal cineasta e dal polemista corsaro. Ormai qualsiasi opera accentua il suo carattere espressionistico ed esula totalmente dal carattere contemplativo tradizionale della fruizione dell’opera stessa, facendosi prassi attiva. Pasolini è lucidissimo nell’accorgersi del processo di omologazione del mondo occidentale consumistico, dell’infrangersi della differenziazione nelle classi sociali, del trionfo e della diffusione di una piccola/media borghesia contro la quale riversa tutto il suo odio. Consapevole di farne parte, concepisce la sua opera, a partire dalla raccolta Trasumanar e organizzar e dagli scritti giornalistici di fine anni Sessanta, come operazione di rigetto, una sorta di tumore all’interno della società dei consumi. La sua è anche una consapevolezza critico/estetica molto forte, che lo porta da subito alla polemica aperta con il Gruppo 63, le neoavanguardie e la Pop art, contro tutto ciò che in sostanza rappresentasse il postmoderno. Nella sua visione il carattere evocativo di un’opera d’arte la rende “inconsumabile” rispetto a qualsiasi prodotto inteso come merce. Non ricordo in quale passo della sua elefantiaca produzione, disse che un giovane può leggere la stessa poesia mille volte, ogni lettura non sarà mai la stessa.
Quello che stupisce oggi, rileggendo i suoi scritti giornalistici, è il coraggio e la chiarezza di visione, oltre a una vivacità, in Italia, del dibattito intellettuale (il suo confronto con Fortini, Calvino, Sciascia, Moravia, ecc.) che si è spenta con la sua scomparsa e forse con l’uscita, nel 1980, di Una pietra sopra, la raccolta degli scritti giornalistici di Calvino con cui lo scrittore si congeda dalla figura dell’intellettuale guida e interprete della realtà. Il mantra che si è sempre ripetuto all’indomani della sua morte, di fronte a qualsiasi problema di attualità, è rimasto, “Che cosa avrebbe detto Pasolini?”. Ricordo, invece, dagli incontri con Filippo Davoli e Giovanni Cara, una questione fonte di continuo dibattito e tuttora aperta: la società del nuovo millennio è troppo complessa perchè un intellettuale abbia la visione chiara di un Pasolini, oppure semplicemente non c’è in circolazione un intellettuale della sua caratura, capace di interpretarla come lui?
E’ con le parole del critico Roberto Galaverni, da Dopo la poesia, che concludo questo mio intervento, un tributo alla resistenza di una parola che Pasolini non ha mai tradito, anche nei momenti di “trasandatezza stilistica” (Berardinelli) delle poesie-comunicato stampa in Trasumanar e organizzar, o ne La nuova gioventù, con la quale fa a pezzi il proprio mondo giovanile. Credo non ci siano parole migliori di quelle del critico modenese per dire che, se questo mio intervento non aggiunge in fondo nulla di particolarmente nuovo sul piano critico, la sua lettura e rilettura rinnova in me la fedeltà alla sua esperienza poetica: “…la generosità e il dispendio fino al sacrificio di sè appaiono come la sua sostanza più autentica. In lui alla fine si tiene sempre tutto, secondo modi soltanto suoi e probabilmente irripetibili, perchè Pasolini sprizza vitalità intellettuale e creativa da tutti i pori (ma potrei anche dire: sprizza sangue). Esiste un elemento suo proprio, che definirei come l’incandescente tensione o temperatura-Pasolini, che non viene mai meno, anche nelle sue cose meno riuscite, anche quando più ha scritto per partito preso. C’è in lui una spinta continua verso l’alto, un grande, fragilissimo sogno (viene da chiedersi quale altro poeta abbia dato con altrettanta intensità il colore tutto in progresso dell’attesa, di un’attesa pur violenta e furente, a quella disposizione elegiaca e luttuosa che è la sua fondamentale). E in questo Pasolini rimane fino alla fine un grande, generosissimo poeta visionario. E poi c’è sempre qualcosa che alla fine fa sì che quest’uomo riesca davvero a comunicare. Qualcosa dunque di decisivo per un poeta, che lo salva, e che lo fa amare, di un amore che come tutti gli amori è a sua volta per partito preso. E almeno per quanto mi riguarda si tratta di questo: anche nella sua disposizione più strumentalmente orientata Pasolini non difende mai una piccola chiesa, le ragioni di una parte, come non è mosso dalla celebrazione di un piccolo io – e non parlo solo della passione e del patimento ma anche della sua ideologia, che è sempre intrisa e condizionata dalla pietà e dalla umana benevolenza, fino al punto di confondersi con esse. In fondo, anche quando più ti sta provocando, si sente che Pasolini sta parlando per te. Ed è una vicinanza che quasi imbarazza e soffoca, perchè con altrettanta certezza si avverte che non sarà mai possibile ripagarlo abbastanza”.