“Pensi che si possa capire qualcosa di sé restando in sé?”
Forse in questa domanda che Petra/Lilith rivolge a Giorgio, il suo compagno, seduti sul letto, dopo un amplesso fallito, si può tentare di reperire un filo, una traccia di fondo del romanzo/mosaico di Davide Nota, uscito lo scorso anno per i tipi di Luca Sossella Editore. Un’ansiogena e ultimamente disperata ricerca di sé, del proprio “motivo” nel mondo. E dunque l’uscita da sé, l’infinita riproduzione della propria identità come un feticcio, un pezzo di una catena di montaggio (attraverso il web, nell’assunzione di un’identità altra, nel sesso come gioco profanatorio, nell’arte) la strada per l’uccisione definitiva dell’io, che sembra essere la via irrimediabile per una possibile liberazione. Perché l’identità non è altro che “una sovrapposizione di nickname” e “il gioco elettrico non ha prodotto sdoppiamenti, ha solo reso intelligibile ciò che prima era occulto”. Dunque un’identità sommersa, esplosa in frammenti, in pezzi di un mosaico che non riconoscono più il proprio posto in un disegno originario. Ne sentono forse la voce (o più l’eco), una forza attrattiva primigenia che però è vettore impazzito, senza origine e direzione. L’identità è dunque rimossa, buio indecifrabile nella centrifuga schizofrenica della società contemporanea; una società respingente, inaccettabile fin dal primo vagito familiare, macchina mostruosa che registra, archivia e incasella l’individuo dentro un “ruolo da esercitare”, un vestito in cui non ci si riconosce attraverso “convincimenti logici irrealmente lineari”.
Dunque “scopare fino alla morte dell’io. Un organismo monocellulare che si espande fino a sciogliersi, questa è la mia dipendenza”. Così dice / fa dire Nota sempre a Preta, ventunenne abruzzese ma domiciliata a Bologna, dove fugge per studiare, ma soprattutto per sopravvivere alla perfetta e asfissiante prigione di una famiglia benestante e realizzata. Da questo distacco, come una mitosi cellulare, germina Lilith, una nuova Petra, un’altra Petra, una possibile Petra (“lasciarsi profanare era la mimesi della dissoluzione che anelava nel sudario dei valori in cui era avvolta”). Le vicende di questa identità doppia si sviluppano senza una linearità narrativa, in un limbo dai tratti smarginati, una placenta spugnosa in cui non è mai chiaro il confine tra realtà e sogno, lucidità e follia, passato, presente e futuro, ma tutto sembra convergere, esistere in dei lampi profetici, in alcuni istanti divinatori nei quali le identità confliggono e si sovrappongono, si confondono e come in degli squarci lynchiani accorrono e si congedano figure della memoria, ombre e luminiscenze occasionali. Con la vicenda di Petra si intreccia, infatti, l’episodio di Brenda/Alexander, una transgender assassinata a Roma in un contesto dai contorni ambigui e poi le incursioni fulminee di eventi, reminiscenze, sogni dell’autore, anche lui coinvolto in questa disintegrazione e ricomposizione del proprio io.
Un’identità, dunque, che non si riconosce, che non sa dirsi e ultimamente non sa nemmeno uccidersi. La genialità e l’originalità dell’opera di Nota sono nel fatto che questa indicibilità non è banalmente affermata, postulata dall’alto di un’autorità autoriale, ma è innanzitutto esperienza sofferta nella carne, ustione sulla propra pelle, per cui non può che farsi linguaggio, coincidere con la forma stessa del romanzo. La forma del romanzo non è una scelta estetica apriori o una posa letteraria ma è un’urgenza. Questa esplosione impronunciabile dell’io in tutti i suoi fattori non può essere raccontata, può solo accadere e riaccadere continuamente, e non può che riaccadere attraverso la pagina, non sulla pagina. Può solo essere impressa e riprodotta, come in una hidden cam o in un video amatoriale dell’I-phone, in cui – cito il testo – “il dato soggettivo è talmente manifesto – proprio come la sessualità profanata di Lilith – da oggettivarsi. Il commento si fa rumore di scena, i presupposti diventano l’oggetto stesso del video. È la realtà che si autofilma”. Lo scrittore, dunque, è un testimone, che, in una sorta di flusso di coscienza postmoderno, è impegnato nella sfida più alta e autentica del suo compito di autore, che non è quello di produrre immagini, ma piuttosto di farsi ricettore, ventre spalancato e sentinella dei suggerimenti della realtà o del sogno. Il punto più alto di attività è una passività.
Così il romanzo procede per salti apparentemente alogici in cui il filo narrativo si disperde e poi si ritrova nei mille tasselli del mosaico, in digressioni che sono tanti pixel scollegati, frantumati a seguito di una deflagrazione di cui non si conosce la causa, ma che deve avere a che fare con l’origine dei tempi, dello spazio, della storia.
La sfida dell’opera (e della vita) è che questa devianza percettiva, psichica, questa assenza totale di una linearità logica/spaziale/temporale che appartiene al sogno sia in fondo molto più “reale” della realtà (“data una norma la vita assume senso nella sua infrazione e variazione spontanea. Ciò che conta è adesso il flusso musicale, non un ritorno all’ordine, ma alla canzone”).
Che cosa è vero? Cosa è falso? Che cosa posso davvero toccare? Che cosa mi tocca davvero?
Questa è un’altra chiave di accesso al cuore del labirinto di Lilith. Il romanzo è attraversato dall’esigenza di un’esperienza carnale, di trovare qualcosa che ci tocchi e ci coinvolga davvero, perché la vista è fallace, ci confonde; è il regno della superficie, della selva di immagini che dilaniano il contemporaneo. “Inizialmente il sogno e la vita erano una stessa cosa. Il corpo galleggiava. Poi l’occhio iniziò a convincersi di avere ragione. […] La lirica è un ritorno agli occhi chiusi nel sole”. Oppure: “quando l’immagine nasce l’eternità è già corrosa. Ha iniziato il grande esodo della separazione”. Il furore lirico della prosa di Lilith è figlio di questo bisogno vitale ma impossibile di un ritorno all’orgine, in cui tutto era unito, in cui la parola era corpo ferito e scaldato dal sole, in cui c’era ancora la possibilità di “sentire” tutto e – forse – sentirsi davvero parte di un tutto, di un mosaico. Ed ecco allora perché “i poeti, per nascere, devono morire”. Devono morire a se stessi, morire all’immagine di se stessi nel mondo. Devono ardere. Così dice Roversi e così riporta un frammento di Lilith.
Questa è l’unica possibilità affinché l’inizio, questo pre-vita ancestrale riaffiori improvvisamente nell’esperienza, un inizio di cui il poeta-santo mantiene le stimmate, le ferite che “fioriscono lentamente”. La ferita inferta per sempre di un’aldilà, di un oltre che non si riconosce più, che il tempo, la realtà trascina via ma che il poeta prova a risalire a ritroso.
La scrittura di Nota in questo procedere schizofrenico eppure rigorosissimo è ghiaccio incandescente, è lingua che ustiona, a tratti carcassa algida e asettica – drone che registra dall’alto senza alcun coinvolgimento – e a tratti è invece corpo vivo e pulsante che sferza, che scuote e spacca il quieto vivere e l’abitudine.
Un’opera così non può che richiedere una lingua meticcia, una contaminazione continua tra un registro alto e basso, ordinario ed elevato, classico e ultramoderno. Poi un immaginario che segue inevitabilmente la stessa idea, tra boschi e latrine, montagne e periferia cementizia, la Sibilla e il bar. Si può dunque concludere (senza concludere, perché questo è il lascito, il monito di Lilith) che questo romanzo è un tremendo, lacerante tentativo di volo, di liberazione dell’io. Un ultimo grido di rivolta. La liberazione che è in ultima analisi una disattenzione – così la definisce Nota. L’opera (e la vita) è un labirinto infernale in cui però ad intermittenza risuona un’eco della vera voce.
La vera voce. Come onde fruscianti che ricordano. Ma questo ricocordo è rivolto al futuro perché la nostalgia poetica è sempre una speranza. Così la memoria è una promess di liberazione. Dove anche la morte è un invito al nuovo viaggio, verso quel Paese lontano, di cui parlava Esenin…
Un ricordo, un punto di memoria al quale l’identità sembra ancorarsi affinché si apra la speranza di una rinascita, di una destinazione in cui il senso si compie. La vera voce non è fabbricabile, è un accidente, un avvenimento, un’apparizione, una distrazione dalla norma. L’imprevisto – diceva Montale – è l’unica speranza, nella sua eccedenza non catalogabile e non coercìbile.
Ho provato molte volte a comunicarti nel passato. Ma una forza imprescindibile ci trattiene. A volte giunge un fiato, una memoria che non capiamo. Allora ci sfiora e diciamo “ho trovato”. Ma siamo noi che siamo stati trovati. Così il passato non cessa di cambiare continuamente aiutato da ciò che deve ancora nascere.
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Davide Nota, poeta e agitatore culturale, ascolano d’adozione ma nato a Milano nel 1981, ha studiato a Perugia e vissuto per alcuni anni a Roma. In poesia ha pubblicato “Battesimo” (2005) per LietoColle; “Il non potere” (2007) per EditriceZona; “La rimozione” (2011) per Sigismundus, poi raccolti in “Il non potere 2002-2013” sempre per Sigismundus.
Nel 2016 ha dato alle stampe per la casa editrice Oédipus una raccolta di racconti e prose dal titolo “Gli orfani”.
Ha fondato la rivista “La Gru” (2005-2012), il movimento “Calpestare l’oblio” e la casa editrice Sigismundus.